è diventata un cigno nero…

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… ma non era proprio un brutto anatroccolo,vero? quando vidi natalie piangere disperata bussando alla porta del killer jean reno, in léon, mi dissi: questa è una predestinata. e infatti: adesso è un academy awarded.

vidi il film a manchester, al corner house, casa del cinema indipendente e alternativo, tra edifici dai mattoni rossi post-industriali.  un bel posto, già. chissà se c’è ancora.

congratulazioni alla fanciulla. che ho apprezzato moltissimo anche in closer.

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cristalli di neve

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questo post vuole essere un semplice omaggio a uno dei più bei film della storia del cinema, che ho avuto modo di rivedere ieri. il cinema di stanley kubrick mi ha sempre fatto pensare a qualcosa di bellissimo, distante, e freddo. cristalli di neve, gemme perfette.  la distanza non è qualcosa di negativo, perché il risultato è emozionare, comunque. è questo il miracolo di kubrick. e barry lyndon ne è l’esempio più immediato. ogni singola immagine è tecnicamente perfetta, a se stante. e risplende nella luce fulgida, come la neve sugli abeti al sole di inverno.

ministry of love

 

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qualche volta penso che il futuro immaginato dal passato si chiude nel presente. i corto circuiti si chiudono, nei flussi di carica elettrica e di luce provenienti dai nostri schermi, che ci investono continuamente, ossessivamente, cancellano e ricreano i tempi delle nostre azioni e dei nostri sogni. ma noi dove siamo, dentro o fuori gli schermi? è tutto mescolato, entangled, e ciò che ci diceva orwell del futuro, del suo futuro, ci arriva e diventa presente in modo ancora più subdolo di quello che lui poteva pensare. big brother diventa reality,  anestetizza una realtà che va e viene tra le onde elettromagnetiche e il vivere quotidiano. è una catena di immagini, di eventi, di immagini di eventi dove ciascuno pensa di prendere e selezionare, come al supermercato, e non si accorge del braccialetto elettronico che lo lega a qualcosa che NOI ci siamo costruiti, e dalla quale non scappiamo. perché ci piace, e non vogliamo scappare. ma forse non è così. ci forzano, ci forziamo a farcelo piacere. e tutto questo equivoco di presente, passato e futuro continuo è solo una cortina, che non ci fa vedere quello che siamo, quello che il mondo è. e ci farebbe un gran bene saperlo. tomorrow was another day.

 

5 sport:calcio

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C’mon, let’s play.
Giochiamo sotto il cielo plumbeo della domenica mattina di un rigido  inverno inglese. Potrebbe anche nevicare, come nel match di FA Cup che Edo vide in televisione molti anni fa, in Italia. McManaman buttato dentro la partita, esile maglietta rossa nella bufera. Ora, SeftonPark, 7 a-side, Geoff in maglietta blu a maniche corte dell’Everton dirige il traffico del gioco, lucido e paziente. Il contrario di quello che succederebbe fuori, pensa Edo inguainato nella tuta blu, guanti di lana già zuppi. Scarpini che si incrociano, scivolanono, schizzano fango di domeniche bagnate nella fuga da quel dolore e quella noia dell’imperturbabile britannia.
Ma il calcio è qualcosa di doloroso e così tremendamente amabile. Paolo Maldini ha detto che fra vent’anni forse il calcio non esisterà più. Edo rivede Falcao e Platini, Maradona e Rummenigge, e prova la scivolata su Geoff, imita come tutti gli insipienti al cospetto degli dei. Le coppe dalle grandi orecchie, il mondo in un globo d’oro, alzate  nelle luci elettriche, nel verde artificiale, e la terra dei campetti di Tormarancio nelle estati polverose, cupo di fuori, il mondo. Luce nella palla che scivola, rimbalza, rotola, schizza tra piedi e teste di milioni di persone che hanno altro nella vita a cui pensare, ma che non possono fare a meno di rincorrere, dribblare, respingere, sognare. Dal sole di Roma alla pioggia del nordovest inglese, cos’è che ci spinge, cos’è che ci fa amare così perdutamente questa sciocca finzione di guerra?  E tutti quelli che giocano, al chiuso e all’aperto, continuano a perdere l’anima nella sfera. Edo riesce a rincorrere Geoff e a scivolare, l’anestesia del soccer continua a funzionare. Le droghe funzionano sempre. Fino al dopo.
Sefton Park imbrunisce di sera, a Tormarancio il sole diventa insopportabile. Lorenzo  si leva gli scarpini e fuma fuori dagli spogliatoi nel caldo padano asfissiante anche al tramonto, la nostra sera che avanza, sottile e inesorabile.
C’mon, let’s play.

closer

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natalie si spoglia. julia parla sboccato. clive e jude fanno gli uomini, niente mi ricordo di loro. si intrecciano, si feriscono, si amano, si scopano, si scambiano, si intrecciano di nuovo. poi (prima?), natalie guarda dalla parte sbagliata quando attraversa, e viene investita. a londra. diretti da nichols, conoscenza carnale e laureato. london. city of light. città dell’amore grigio, del tormento e della felicità. ricordo il film, e ci penso su. mi scappa da ridere. non è così? un po’, sì. e mettiamo il pezzo giusto.


no direction home (known)

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no, aspetta, ce n’è un’altra che adoro.

when I leave this world (sure, mate…)

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gli anelli di roberto

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roberto agita le mani, mentre descrive quella-una-la realtà. gli anelli sulle sue dita ruotano, occhi infossati e calvizie precoce su una giacca nera, morbido accento di napoli, città dai colori splendidi e feroci: realtà. quando io vidi il film tratto dal suo libro (ma è un libro?) mi dissi: è un altro mondo. lontano dai motori, dalla tecnologia, dalla scienza della terra della mia umanità. ma lui mi dice, non è altro,  è qui, con te, parte di te. rifletto su questa “cosa” sfuggente, realtà, che ti fa dire: ehi, sono qua. questo è il mio occhio, la mia mano, il mio sangue, le mie cellule. e questo grave cade, questo atomo emette radiazione, questa reazione chimica è amore e questa invece è dolore. ma vedi, ci sono i fili visibili e invisibili che portano dalla causa alla complessità-caos, dalle foto di omicidi e di carabinieri e di preti sorridenti  morti ammazzati, che vedi dalla tua poltrona davanti agli schermi TV-LCD, a te, al tuo stato comfortably numb:  esistono, sono imprescindibili, ineffabili, indistruttibili. realtà presenti come città invisibili, fino a quando roberto-marco polo non te li fa vedere. nessuno è escluso, neuroni che gridano: “responsabilità, diritto alla felicità!”. e la felicità è un diritto, scandito e dimenticato in cicli di sangue dalla costituzione dell’ultimo impero, 1776. niente di imprescindibile, niente di avulso, niente che possa essere dimenticato. sei miliardi di entità che calpestano una sfera azzurra, in un sistema solare periferico, su un braccio della galassia detta via lattea, respirano agognano, vivono e muoiono per questo. QUESTO. gli anelli di roberto girano, intorno a ciò che viene detto responsabilità. e mentre i quattro carabinieri  lo portano in salvo, alla fine della trasmissione-ricezione, il respiro si fa leggero, nell’atroce dubbio della consapevolezza. male è male, bene è felicità.


chi sta zitto, mente.

frequency

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in rari, fortuiti casi ci si mette in contatto con qualcuno per telefono, radio, internet. non importa se lo conosceremo o lo conosciamo. forse non lo vedremo mai. ma lui, o lei, cambiano la nostra vita irreversibilmente. la freccia del tempo non è così lineare, non si muove lungo una retta. il tempo stesso, in questi casi, cambia, viene distorto. e la nostra pelle ne esce con un marchio. penso  a lui, al tempo, con un sorriso lieve. e a quella treccia che vi è avvolta intorno, la nostra vita. si attorciglia, si aggroviglia, si interrompe e continua, come un’edera avvinghiata ad un ramo, che beve  il dolceamaro nutrimento di coscienza e sentimenti. ma il ramo non è diritto, anche se noi pensiamo che punti verso un alto, un cielo pieno di galassie altere e inarrivabili. e la freccia non si ricongiunge mai con la sua origine. non può. spiraleggia, piuttosto, e quando questo incontro finisce, non ritorniamo mai come eravamo. l’illusione consolatoria di essere come prima, di ritornare alla coda del dolore e della felicità dopo gli accidenti e gli amori è fuorviante, distoglie gli occhi dalla vera essenza. si continua in qualcosa che sembra lo stesso di sempre ma non è più. ed è questo lo scrigno traboccante di gioielli, la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno che forse troveremo, un giorno. sulla riva sola dove si rovescia il mare.

frequency, il futuro è in ascolto. visto poco fa.

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di più

Potevo sentire allora
Che non vi era modo di sapere
Foglie cadute nella notte
Chi può dire dove volano
Libere come il vento
E imparando, si spera,
Perché la marea
Non ha nessun modo di tornare indietro
Più di questo – non vi è niente
Più di questo – dimmi una cosa
Più di questo – non vi è niente
E’ stato divertente, per un po’
Non vi era modo di sapere
Come il sogno nella notte
Chi può dire dove andiamo
Non importa al mondo
Forse sto imparando
Perché la marea
Non ha nessun modo di tornare indietro
Più di questo – non vi è niente
Più di questo – dimmi una cosa
Più di questo – non vi è niente

la strada per anfield

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Hi everyone, welcome to the casbah. We are the Beatles, and tonight we are going to play some rock’n’roll.
 
chiedo alla conducente se l’autobus 17 va ad anfield road. yes love, mi risponde. salgo sorridendo, è un po’ che non mi chiamavano così. love. le strade che percorro sono ancora le stesse. forse sono un po’ peggiorate, rispetto a quando il rock’n’roll mise gli occhi azzurri e cambiò accento. ragazzine somale in tunica si affacciano dal negozio di muslim goods a lodge lane, accanto al bingo house. asiatici, caraibici, arabi ed inglesi sulle strade desolate, le case a schiera di edge lane con le  assi dipinte su porte e finestre. e lo stadio è dentro il quartiere, sembra povero come gli edifici che lo circondano. this is anfield. we are the beatles, rock’n’roll dagli occhi azzurri. terre di nessuno piene di vento. liverpool è piena di spazio vuoto. grigio che vira verso il blu dei lunghi pomeriggi estivi nei parchi sporchi e ancora splendidi. i cieli suburbani rimpiazzano la frontiera ed i gialli campi sconfinati oltreoceano. il nero diventa bianco, ma una certa fame è sempre la stessa.
 

 

 
 

Bye bye, Larry

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David Bowie- The man who sold the world
 
Larry Fleinhardt è un fisico, coprotagonista del telefilm poliziesco “Numb3rs”, dove il matematico Charles Eppes aiuta suo fratello Don, agente FBI, nella lotta contro il crimine. Larry è amico di entrambi, e qualche volta si unisce a loro. Usano teorie scientifiche per risolvere i casi. Le teorie esposte, beh, sono vere, anche se applicate spesso in maniera, diciamo così, eterodossa. Larry è il fisico come se lo immagina la gente: distratto, intelligentissimo, eccentrico. E, poiché è dalla parte dei buoni, è mite, gentile e timido. Non ha una vera casa, e dorme nel suo Dipartimento, di nascosto, in un vano caldaie. Un mio collega, durante un periodo di lavoro particolarmente intenso, si portò il sacco a pelo in ufficio, fin quando non fu pizzicato e rimproverato duramente dal direttore. Un altro dormì in laboratorio, mentre cercava casa. Mi disse che non era mai stato così bene come in quel bivacco. Scommetto che Larry mette su i calzini spaiati. Io li metto, ogni tanto, ed un famoso teorema  di Fisica Matematica veniva spiegato dal suo scopritore proprio citando un altro professore che indossava calze di colore diverso. Presto Larry partirà per una missione spaziale, a bordo dello shuttle, a compiere strani esperimenti nella stazione orbitante. Ha un amore, ma relazionarsi con l’altro sesso è così dannatamente difficile, vero Larry? Meglio fuggire nello spazio. Parla spesso per metafore apparentemente strampalate, incomprensibili alla maggior parte dei telespettatori, immagino, ma non a me, che sono del campo. Larry corre in modo buffo, mentre si allena per la visita medica di abilitazione al volo, e siccome è un telefilm, ce la farà. Cita le superstringhe, la cosmologia relativistica, il caos, Feynman (ne ho già scritto, di lui) che suona le congas. Larry forse scomparirà dal telefilm, comunque temo che si assenterà per un po’ di puntate. Ciao, Larry, a presto. Cura la tua cosiddetta anima, so che ne hai bisogno. E mentre vedi il pianeta azzurro dall’alto, non pensare troppo a ciò che ci cammina sopra. 
 
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We passed upon the stair, we spoke of was and when
Although I wasn’t there, he said I was his friend
Which came as some surprise I spoke into his eyes
I thought you died alone, a long long time ago

Oh no, not me
I never lost control
You’re face to face
With the Man Who Sold The World

I laughed and shook his hand, and made my way back home
I searched for form and land, for years and years I roamed
I gazed a gazely stare at all the millions here
We must have died alone, a long long time ago

Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the Man who Sold the World

Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the Man who Sold the World

seven colours: green

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ivan klasnic è entrato alla fine del secondo tempo supplementare. ivan deve avere pensato agli ultimi due anni ed ai trapianti di rene subiti nel gennaio duemilasette, che potevano mettere fine alla sua carriera di calciatore nella bundesliga e di nazionale croato. i due reni sono stati donati dalla madre e dal padre. quello della madre è stato rigettato. ivan è nato ad amburgo, da genitori bosniaci di etnia croata. poteva scegliere tra tre nazionali, ha optato per  quella con gli scacchi bianchi e rossi. era già entrato in questo campionato, contro la polonia, e aveva segnato un gol. quando la sostituzione è stata annunciata, lo stadio è esploso. e lui ha segnato di nuovo, al centodiciannovesimo minuto, uno alla fine. solo uno più il recupero, e la croazia era in semifinale. ma non finisce. non ancora. negli ultimi secondi, semih sentürk ha pareggiato per la turchia. è finita ai rigori, con i turchi galvanizzati ed i croati a pezzi. turchia dentro, croazia fuori. ivan ha vinto e perso in cinque minuti, o poco più. su un verde smeraldo illuminato da luci artificiali, nel clamore elettronico dei nostri sciocchi tempi.

nun c’è probblema

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no, nun c’è. fin quando si vedono partite come queste, tirate alla morte. fin quando Ronaldo salta in cielo, Lampard indomabile segna e dedica il goal alla madre morta poche settimane prima.  fin quando il battito del loro cuore, il respiro rotto ed il sudore  mi investe dallo schermo. sotto la pioggia come deve essere. sarà finto, ma ci voglio credere lo stesso. sono fatto così, e quando voglio bene a qualcosa o a qualcuno ci credo fino in fondo, e non smetto mai. in fondo, fino ai calci di rigore. e anche dopo. sun on u 

25

 

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penso non ci sia molto da scrivere. solo fanculo. come dice lui nel film. mentre le rovine delle torri sono rimosse, i fari sparano verso il cielo, il cane a spasso annusa il dolore e la paura. occhi fissi, vite cambiate che non cambiano mai. fanculo anime belle come me. fanculo opportunisti falsi e bigotti. à la vache.

 

 

4 elements: air

823e1e1692f8a9cc712097e935b8e91b.jpgla terra girò per avvicinarci


girò su se stessa e dentro di noi


fino ad unirci finalmente in questo sogno

Paul recita questi versi a Cristina per affascinarla. è un matematico, e cerca forse la spiegazione di qualcosa. il caso ha voluto che lui vivesse ed il marito di Cristina morisse. perché è successo? 21 grammi escono dal corpo di una persona alla sua fine. non so se l’affermazione data nel film è esatta, e poi, cosa possono essere? aria dai polmoni, probabilmente durante l’ultimo rantolo. acqua, molecole organiche nel respiro. rilasciate in atmosfera, le molecole si mescolano, urtano ed interagiscono con le altre. l’acqua, condensata in minuscole goccioline, viene trascinata dai moti convettivi, su, su, fino a formare le  nuvole. le nuvole vengono trasportate dalle correnti in quota, formano le perturbazioni, fronti freddi, caldi, viaggiano su terra e mare e piangono, silenziosamente o con grande strepito. piogge e tempeste, mentre l’aria dei  21 grammi di quella persona si mescola anche con il respiro di altre, morte e vive. tutto regolato da leggi dove entra il caos, così affascinante e così inaccettabile, frustrante per me. che non capisco perché certe cose debbano succedere ed altre no. che non mi rassegno, anche quando dovrei, e so che dovrei, per me e per gli altri. tutto intrecciato, complicato, impossibile da prevedere con certezza. guardo le nuvole in alto, e penso a quel qualcosa di chi non si è mai conosciuto in vita, che forse si incontra nel dopo dove niente è più.

Quantum Leap

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“Il dottor Samuel Beckett è nato l’8 agosto 1953 da John Samuel e Thelma Louise Beckett. Cresce nella fattoria di famiglia e dimostra da subito di essere un genio. A tre anni sa già leggere, successivamente impara a suonare diversi strumenti musicali e pratica diversi sport al liceo. Si laurea in fisica quantistica, medicina, lingue antiche, musica, neurologia, astronomia e vince anche un Nobel.”

Sdraiato sullo sgangherato sofà del mio appartamento di allora, nel freddo umido del Mersey che non mi abbandonava mai, vedevo alla TV il dottor Sam Beckett viaggiare nel tempo e cambiare la vita delle persone.  Il contrammiraglio Al lo assisteva fornendogli le previsioni di Ziggy, il supercomputer, sulle sue possibilità di successo. Non era in gioco la Storia, ma le storie, piccole e così importanti. Sam si trasformava in qualcun altro, giocava col destino. E salvava. Piccole storie di persone condannate che cambiavano. Sam non aiutava nell’adesso, solo nel prima, o nel dopo. Non sempre ci riusciva. Non sempre finiva come lui avrebbe voluto. 

Stretto nel mio vecchio cappotto spinato, cammino per il centro della città, nel freddo assolato. Gli antidepressivi fanno effetto, la chimica funziona. Dio gioca a dadi, penso, e chissà se Sam, lo scienziato buono, può salvare se stesso. Ma sì, l’amore è un buon investimento. E il presente è solo il passato del futuro.

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Prestige and hell

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David Bowie-Starman 
 
Elettricità nell’aria, uh? Il dott. Nikola Tesla tra le scintille generate dalla sua macchina, avvolto dai fulmini artificiali, come un moderno Lucifero in una versione attualizzata dell’inferno. Sorrido mentre guardo questa scena di “The prestige”, scuotendo un po’ la testa, di fronte all’impossibilità della suggestione. Prestigio, appunto. Tesla è esistito veramente, ed ho visto una macchina simile in una stampa. Serviva a generare fulmini artificiali. Ovviamente, è impossibile che Tesla attraversi il laboratorio con la sua macchina in funzione, e rimanga illeso. Così come è quasi impossibile accendere una lampadina toccandola, come suggerito in un’altra scena. Scrivo “quasi” perché è possibile invece sfruttare i sali minerali di un frutto come batteria, fare dei contatti opportuni ed accendere una luce. L’ho visto in un programma per bambini.  Sì, per bambini. Tesla era un genio assoluto, inventò tantissime cose, in particolare i motori polifase, che sfruttano la corrente elettrica alternata. Grazie a lui, ora noi usiamo questo tipo di corrente elettrica. cinquanta o sessanta hertz, 125-220-380 Volt. Morì povero. Forse non era tipo da badare troppo ai soldi. Dalla Croazia agli Stati Uniti, spinto da quel vento tempestoso chiamato emigrazione. Bowie (sì proprio lui) nel film lo interpreta splendidamente. La scienza è più inverosimile della magia, l’inaspettato colpisce all’improvviso, come un fulmine. Appunto. E gli occhi di Bowie-Tesla sono ancora di due colori diversi.  

Ghost in you

So long, Bill…

 

 

 

…angels fall like rain
and love is all of heaven away
inside you the time moves
and she don’t fade
the ghost in you
she don’t fade…

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corrente elettrica                        2-200 k (da duemila a duecentomila Ampere)
temperatura elettronica                30.000 K (trentamila gradi)
diametro della colonna di plasma    10-50 cm 
carica elettrica totale                    5-10 C
differenza di potenziale                1-10 x MV (da 1 a 10 MegaVolt)
 

Questo è quanto. Solo un fulmine. 

 

 

 

Knights

 

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Dai miei schermi, in tutti questi anni che ho seguito le corse di F1, sono due le immagini mi hanno colpito di più. In un GP a Spa (quello dove Coulthard e Schumacher si tamponarono, con scazzottata susseguente ai box) la board camera inquadrò il campo visivo di un pilota sotto la pioggia. Era un’impresa impossibile guidare, l’acqua era spessa e scura, una luce rossa si intravvedeva appena, davanti, così lontana e terribilmente vicina, la vettura in testa. “Sono degli eroi”, gridò occhioni scuri. L’altra scena è lo svestimento ed il peso dei tre che vanno sul podio, alla fine del vortice immaginifico, ipertecnologico, globale. Si levano i caschi multicolori, si sfilano gli auricolari  e i passamontagna, rovesciando i capelli miliardari fradici di sudore, gli occhi spalancati dall’adrenalina. E ieri, al di là di tutto, crederci, fino in fondo, fino allo spasmo. Non c’è niente, nessun miliardo o mercato o trucco, o circo multimediale, i cavalieri sono lì. Nessuna folla li può raggiungere, il frastuono assordante è dietro, lontano. I gioielli che cavalcano, splendidi e gelidi, pezzi del nostro mondo asssemblati con dura precisione, cambiano e non contano poi tanto. Cavalieri ancora bambini.

Wormhole Antonioni

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“Da cosa stai fuggendo?”
“Guardati dietro.”
E’ una lunga strada alberata, Lei si volta e allarga le braccia, sporgendosi dalla decappottabile, sorridendo, mentre i capelli ribelli le volano tutt’intorno. E’ una scena di Professione reporter, che ho visto qualche giorno fa. E’ un altro universo, quello che ho visto. Un altro spazio tempo. C’era, sì, c’era. E un wormhole mi ha trascinato, ingoiato, risucchiato. Wormhole: “è una ipotetica caratteristica topologica dello spaziotempo che è essenzialmente una “scorciatoia” da un punto dell’universo a un altro (o tra universi paralleli), che permetterebbe di viaggiare tra di essi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale.” Ipotetica, non provata. Ma io immagino che esista, stanotte, mentre penso alla vita che è venuta, alla vita che è. Al mondo, gigantesco vortice di immagini facce, situazioni affastellate una sull’altra. Non è nostalgia del passato, no, è solo una sensazione di vertigine, di perdimento. Quello che ero, che respiravo, semplicemente non c’è più. Tutt’intorno a me, altre storie ora.  Tutto un altro vivere, fuori e dentro. Televisioni che mostrano situazioni diverse, parole diverse per strada. Il pane e le rose? Cosa sono, dove sono? Altro. Pensieri di un universo diverso, la mia zattera naviga nel mare dal quale sono emerso all’improvviso senza accorgermene. Alla radio dicono che per i giovani il rock’n’roll è roba che non va, predicatori con la barba minacciano la fine del mondo in intenet (internet????).  Luoghi stravolti,  fatti stravolti. E’ un altro universo, con cose buone ma aliene. A me. Stanotte. Il wormhole mi ha trascinato senza accorgermene, in un universo parallelo. Così simile, continuo, ma la vaniglia non c’è più. Groppo in gola, dico le cose col loro nome. Poi metto su un sorriso vago, e continuo a navigare. Aspettando il messaggio  in  bottiglia dall’universo sparito.

Ciao Bill

 

Ciao Bill. Ho scritto di te e di Scarlett un po’ di tempo fa. Beh, la scintilla scocca proprio qui, no? Quando lei fa il Karaoke su “Brass in Pocket”, dei Pretenders, in parrucca rosa. E tu le rispondi con “More than this” dei Roxie. Il cuoio lucido e morbido di Chrissie Hinde contro la  cravatta stretta di Brian Ferry. E Tokyo è tutta una pazzia, di cui non comprendete la ragione, ma che vi avviluppa in un piccolo vortice di sentimenti. Non scopate, no, tu le massaggi i piedi e le dai una carezza. E io tifo per te, Greg-Weller mette su gli striscioni e da’ fiato alle trombe, mentre il gatto gli dorme accanto, in una serata di bora nera sul Carso. Bill in fase “acquisto Porsche”, perché tu i denari ce li hai. E sei bello, terribilmente divertente. Sei americano, ma ti preferisco inglese.  Ciao Bill, ripenso a te due anni dopo. Mi scappa da ridere, mi fumo l’ultima sigaretta, tifo ancora per te-me, e ho un po’ di nostalgia dei miei occhi di due anni fa. Solo un po’. Perché tanto lo so che ritornano. E adesso di gatti ne ho due. 

Plat du jour: The Pretenders, Brass in Pocket

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Move on up

Ok, il governo è caduto. Ok, è un periodo che ho degli alti e bassi veramente molto, molto intensi. Ok, sto diventando, diciamo di mezz’età? Ok, sono un po’ brillo. Mi vedo questo film sul calcio e sugli angloindiani, una commediola cosmopolita semplice e deliziosa (Sognando Beckham), e ho nostalgia dell’Inghilterra e della sua multirazzialità, dei ristoranti etnici indiani, cinesi, messicani, dei pubs e dei cabs. E del loro calcio, del loro tempo schifoso, dei mattoni rossi, dell’eterna luce estiva e dei loro parchi. Soho, a Londra, Toxteth, a Liverpool, Renshaw, a Manchester. E in Sognando Beckham, ad un certo punto, durante una scena dove le ragazze della squadra di calcio si allenano, si sente ‘sta gran musica, Move on up di Curtis Mayfield. Il sangue mi scorre nelle vene. E domani è Venerdì, e perchè lasciare il blog con una canzone triste durante il fine settimana? Quindi, beccatevi Move on up, e state bene. E basta con le (mie) cazzate. E cascasse il mondo , Mercoledì prossimo vado a giocare a calcetto con i miei amici. Baci da Greg.

ventiminuti 2

“Ciao stellina, vengo a prenderti alle quattro e mezza”, un bacio sulla fronte, lei non è troppo soddisfatta di questa nuova scuola, di questa nuova vita. La guardo mentre si allontana nell’androne, il senso di colpa si fa strada nel mio animo, scava un piccolo tunnel doloroso. Station wagon e fuori strada che vanno e vengono, bambini con zaini colorati e mamme in jeans e stivali neri che escono ed entrano di corsa, è tardi, il vigile urbano che aiuta i pedoni ad attraversare si allontana. Mi infilo nella macchina, non ho più tanto sonno, sono venti minuti dalla scuola al lavoro, accendo la radio e parto per il viaggio. Freccia a destra, tangenziale. L’uomo del giornale si sporge per esporre la mercanzia, non l’ho mai visto in faccia, porta una mascherina sporca di dubbia efficacia, la barba bianca è ingiallita solo dalla nicotina? Un tempo c’erano piccoli zingari che chiedevano l’elemosina a questo incrocio, una volta ho visto la polizia cacciarli via, le facce inespressive al semaforo sono rimaste, scivolano avanti e indietro mentre vado ed attraverso, il traffico si sgombra, il viale alberato con foglie rosse e gialle. Kay Rock radio station, siate benedetti, vi seguo da quando sono qui, grande musica con deejay che mi fanno ridere quando pronunciano i titoli delle canzoni, ma intanto a trovarle delle radio così In Inghilterra, non solo in Italia. Mi servono gli Eagles, non ricordo il titolo, coretti country “you can’t hide…….” ed arrivo al secondo grande incrocio. Una bella signora con un cappello nero attraversa la strada, una ballata avvolge la mia auto, non è presentata, ogni tanto i dj omettono di dichiarare il titolo, ma la riconosco subito, fa parte della colonna sonora di Big Fish. Titoli di coda, Pearl Jam, voce impastata di Eddie Vader, chitarra elettrica. Un padre che racconta storie incredibili, fantastiche, reinventa la sua vita, ed un figlio che non ci crede più. Splendide gemelle siamesi che cantano per i soldati vietnamiti, impresari di circo solitari che si trasformano in lupi rabbiosi, giganti che percorrono boschi con alberi animati, villaggi perfetti ed inesistenti da dove non si riesce più ad uscire, grandi pesci ed anelli di matrimonio. Storie ed alberi con foglie rosse e gialle, cammino con la mia auto, rivedo la bella signora col cappello che mi scivola dietro, telefonerò a mia moglie appena arrivo, da sempre insieme ma in due città diverse, ma finchè c’è vita c’è speranza. Le storie aiutano.
(ottobre 2005)

Sono in piscina, un bel po’ dopo. E’ estate, la scuola è finita, niente più ventiminuti. Ma l’ipod mi fa risentire la stessa canzone, mentre le stesse mammine sono in costume e prendono il sole, ed i bambini, compresa la mia, sguazzano nell’acqua. Guardo le piccole onde di questa pozza d’acqua, mentre fumo e ascolto Eddie che mi canta dell’uomo dell’ora, il protagonista del film, che se ne va per il suo ultimo viaggio a cavallo del grande pesce. Le onde mi distraggono. Le onde, già. Insegno che le onde vanno e vengono, che portano energia, la trasmettono, vengono emesse e vengono assorbite. E l’amore è una forma di energia, no? Le onde dell’amore e delle sensazioni viaggiano da una parte all’altra, e tra le persone, e le antenne ed i trasmettitori che siamo noi, emettono ed assorbono. Poi, puf, i trasmettitori non funzionano più, o si voltano da un’altra parte, e l’onda non arriva. E le antenne si sentono perse, disperate, emettono ma non ricevono. Bip bip, niente segnale, per un po’ niente energia. Ma noi insegnamo un’altra cosa. L’energia assume forme diverse, si conserva sempre. Sì, questo dovremmo tenerlo a mente. E poi, qualche altro emettitore funziona, funziona sempre. Circolo, energia che si conserva, che viene immagazzinata, onde che vanno e vengono. Questa non l’hai raccontata, uomo dell’ora. Sorrido, mentre mia figlia è impaziente, vuole che mi tuffo con lei. Aspetta, stellina, che l’uomo dell’ora non è ancora andato via, gli devo raccontare questa piccola, sciocca storia di un sentimental boy. Questa settimana ho raccontato molte storie a voi, già, molte più del solito. Adesso mi sento un po’ anch’io l’uomo dell’ora. Per ora basta, mi inchino, come canta Eddie, e vado a tuffarmi in piscina. La prossima settimana ritorno, perchè le onde vanno e vengono, e l’energia si conserva sempre.
(giugno 2006)

Verso casa: ripensando a Crash

“Guarda, sono proprio contento, è un film bellissimo”. Siamo presi dal solito rush del lunedì, io e mia moglie, ed ho appena sentito la notizia alla radio. Oscar a Crash. Lei non l’ha visto, ero da solo quella sera, quando avevo noleggiato il DVD. Di che cosa parla? Difficile spiegarglielo. Di razzismo? Non proprio, direi, forse di integrazione, di rapporti tra persone. C’è sempre qualcuno che sta peggio, e qualcuno che sta meglio. E del vortice di parole, fatti, immagini, avvenimenti, televisioni, macchine, traffico, orari che avvolge noi tutti nelle città, LA più di altre. Noi stravolti, contenti, tristi, annoiati, allegri, disperati e ricchi, viviamo e non pensiamo, quasi mai. Tutto si interseca, si connette. C’è chi è più o meno bravo, ma siamo sicuri che i più bravi siano bravi veramente? Tutto si scambia, nella nostra vita di uomini e donne. Così è. Mi fumo l’ultima sigaretta, su LA nevica, gli Stereophonics cantano che troveranno domani la strada verso casa. E’ questo il punto: trovare la strada verso casa.

Giovedì col Bardo

Anche questo è un post di un anno fa.

Giovedi’ scorso e’ stata una giornataccia, e ancora ne sento le conseguenze. 300 Km e passa in macchina, arrivo trafelato al mio dipartimento, subisco un cazziatone dal mio capo (e in parte ha anche ragione lui). Poi 3 ore a fare lezione ad una marea di studenti, fino alle 7 di sera. Perfino il post, che scrivo esausto alle 19.30 dal mio ufficio, per rilassarmi, non mi riesce tanto bene. Torno a casa, e dopo una frugale cena e due birre, tiro fuori una videocassetta. Il film e’ “Romeo + Juliet”, di Baz Luhrmann, ho un’edizione in lingua originale perche’ l’ho comprata quando stavo in Inghilterra. La prima volta ho visto il film in un cinema multisala di Liverpool. Era una serena e lunga serata d’estate, il sole era ancora ben lungi dal tramontare, nonostante fossero le 9 di sera. La sala era piena di ragazzine con coda di cavallo, eta’ max 16 anni circa. E grazie, c’e’ Leo Di Caprio che interpreta Romeo, allora era gia’ una star mondiale delle teenager. Il film e’ un misto di generi, la tragedia di shakespeare calata in una guerra tra gang rivali di una non meglio precisata citta’ balneare americana, Verona beach (Venice di Los Angeles?). Fin qui non e’ una novita’, pure West Side Story era piu’ o meno cosi’. Quello che colpisce subito e’ che effettivamente i protagonisti recitano i versi del Bardo, anche se con accento americano, italiano, latino. Il ritmo e’ velocissimo, l’ambientazione iperrealista, due aggettivi mi vengono in mente per quest’opera: incendiaria, visionaria. Un terzo e’ kitsch, ma non sempre il kitsch e’ un male. Il film mi piacque moltissimo. Alcune scene mi erano rimaste cosi’ impresse che ancora le ricordavo, prima di rivederlo in TV dopo un po’ d’anni. La scena piu’ bella (si sa, sono un sentimentalone) e’ quando Romeo-Leo e Juliet-Claire Danes, luminosi e dolcissimi, si vedono per la prima volta attraverso un acquario, durante la festa alla quale Romeo si e’ imbucato. Gli sguardi che si incrociano mi mossero, e mi muovono ancora adesso, qualcosa dentro, e’ come un lento, dolce vortice. Altre scene sparse. La morte di Mercuzio su una spiaggia con colori post-atomici, l’ingresso di Romeo nella chiesa dove e’ stata portata Juliet (finta) morta, con croci al neon bianco-blu che danno una luce gelida e rovente al tempo stesso. Vedere film cosi’ e’ un modo per resistere ai colpi della quotidianita’.

Lost and found

Sto recuperando alcuni post vecchi ai quali mi sono affezionato, dopo avere improvvidamente cancellato il mio blog. Scusate se mi ripeto.

Bob (Bill Murray), sdraiato sul letto, parla di se’, di sua moglie e dei suoi figli con Charlotte (Scarlett Johansson), in una camera d’albergo 5 stelle a Tokio. “I’m stuck”, sono bloccato, dice, non so che fare di me. Non sei il solo, amico, pensa weller con la sua solita sigaretta tra le dita, sdraiato sul divano davanti al video. Eppure i due non fanno e non hanno fatto quello che in altri film farebbero. L’unico contatto fisico in questa scena e’ una carezza di Bob al piede di Charlotte, poi i due si addormentano. Il film e’ tutto cosi’, una tensione continua fra i due, un po’ come una gara di battute sagaci (alcune di Bob sono grandiose), carezze con gli sguardi, sorrisi. I due sono in una citta’ estranea, non capiscono la lingua, la cultura ed i costumi locali. Sono letteralmente persi, e riflettono su di loro, non stanno tanto bene, no, decisamente. Bob ha la scontata crisi della mezza eta’, e’ in fase da “acquisto Porsche”, Charlotte (semplicemente meravigliosa Scarlett) non sa che fare nemmeno lei, sposata giovanissima che accompagna un odioso quanto assente marito fotografo, le sue prospettive sono a dire poco incerte. C’e’ una differenza d’eta’ fra i due protagonisti che sembra un abisso incolmabile, eppure la scintilla scocca lo stesso, si intendono e si avventurano nella pazza Tokio . Weller non puo’ che tifare per Bob, vai Bob ale’ ale’, metterebbe gli striscioni sugli spalti e suonerebbe i tamburi. Scene a 4 stelle (una di meno dell’albergo, va’):
Il Karaoke a casa di amici, con Charlotte scatenata in parrucca rosa che canta “Brass in my pocket” dei Pretenders, Bob invece, sguaiatissimo, sceglie “More than this” di Brian Ferry. E secondo me e’ li’ che la scintilla scocca, in quel preciso istante.
Le telefonate tra Bob e la sua moglie. Si sente dal telefono la moglie chiedere ad uno dei figli “vuoi parlare con papa’?”, ed e’ perfettamente udibile la risposta, “NO”. “E’ in un’altra stanza”, dice la moglie a Bob.
La gita fuori porta di Charlotte in un Giappone incantevole (non si sa quanto reale) e cosi’ diverso da quel mostro che e’ Tokio.
Ho noleggiato un gioiellino, pensa weller, e riflette su di se’ in questa strana stagione blog.

Noodles è solo

…Il 7 Gennaio, ore 00.55…..

Mia moglie dorme, ed io vedo la fine di questo grande film.

Cosa sogni, Noodles, quando sorridi alla fine, nella casa dell’oppio?