Chalk’n’talk

Queste sono le equazioni di Maxwell. Sono quattro equazioni nelle quali sono condensati elettricità e magnetismo. Uno studente di Fisica, Ingegneria o Chimica le dovrebbe conoscere alla fine del secondo anno dei suoi studi. Riassumono molti fenomeni, quali il passaggio di corrente elettrica, la propagazione della luce, o l’attrazione/repulsione delle calamite. Motori elettrici, lampadine, bussole, dighe, stazioni radio FM. Alla base di tutto ci sono loro. Un capitolo di un libro di testo americano mostra la foto di Jimi Hendrix che suona a Woodstock, e spiega come funziona la sua chitarra elettrica, una Fender Stratocaster candida, in base ad una delle quattro equazioni. E sono il primo esempio di unificazione di forze e fenomeni che sembravano essere molto diversi tra di loro. Ovviamente non sono solo nate dalla mente di James Clerk Maxwell, il matematico scozzese che dette loro il nome, alla fine dell’ottocento. Sono il risultato di un secolo di esperimenti e fatica di signori che, per interesse (anche economico) e per passione, trovarono legami e relazioni precise tra elettricità e magnetismo. A me piace scriverle alla lavagna, come sono qui raffigurate. Gessetto e parlare, chalk’n’talk, il bel modo antico di fare lezione che piano piano si sta estinguendo. Dopo questa unificazione e semplificazione (anche se queste formule non sembrano affatto semplici) ne sono venute delle altre, che hanno portato ad una visione unitaria di quattro delle cinque forze fondamentali che regolano la natura. La quinta (la gravitazione) ancora sfugge. Perché scrivo questo? Perché la vita, gli accadimenti, non sembrano affatto “unitari”. E’ tutto così frammentato, caotico, spezzettato. E ciò che succede intorno a noi sembra diverso e multiforme. Noi stessi siamo divisi e dispersi in mille rivoli di atti e sentimenti spesso contraddittori. E’ questo il grande paradosso. Che non ha spiegazione, almeno apparente. Tutto ciò che si fa, si dice, succede mi appare sempre frantumato. Poi, rileggo i libri di Fisica e mi accorgo che sì, il caos esiste, ma è governato da qualcosa di elegante e semplice. Semplice, ovviamente, dopo anni di studi. Che logica c’è in tutto questo? Non so dare una risposta. So solo che al fondo, al fondo dei tormenti, delle esplosioni, delle divisioni e dei conflitti, del caos che scandisce l’esistenza e la complessità dei fenomeni che avvengono intorno a noi alcune persone hanno trovato la semplicità della sintesi. Un dono divino, ma umano al tempo stesso. Un dono di amore verso noi stessi.

Move on up

Ok, il governo è caduto. Ok, è un periodo che ho degli alti e bassi veramente molto, molto intensi. Ok, sto diventando, diciamo di mezz’età? Ok, sono un po’ brillo. Mi vedo questo film sul calcio e sugli angloindiani, una commediola cosmopolita semplice e deliziosa (Sognando Beckham), e ho nostalgia dell’Inghilterra e della sua multirazzialità, dei ristoranti etnici indiani, cinesi, messicani, dei pubs e dei cabs. E del loro calcio, del loro tempo schifoso, dei mattoni rossi, dell’eterna luce estiva e dei loro parchi. Soho, a Londra, Toxteth, a Liverpool, Renshaw, a Manchester. E in Sognando Beckham, ad un certo punto, durante una scena dove le ragazze della squadra di calcio si allenano, si sente ‘sta gran musica, Move on up di Curtis Mayfield. Il sangue mi scorre nelle vene. E domani è Venerdì, e perchè lasciare il blog con una canzone triste durante il fine settimana? Quindi, beccatevi Move on up, e state bene. E basta con le (mie) cazzate. E cascasse il mondo , Mercoledì prossimo vado a giocare a calcetto con i miei amici. Baci da Greg.

A case of you

Cammino sui coriandoli, di sera, alla fine di una giornata molto faticosa, con la cravatta slacciata. Occhioni blu e il cous cous della signora che mi aiuta in casa mi aspettano. E penso alla storia di oggi. Negli ultimi due giorni, ho fatto esami per conferire il titolo di dottore di ricerca a undici giovani scienziati. Eravamo in tre, ad esaminarli, due mega prof. ed il sottoscritto, che faceva da segretario, cioè, in pratica scriveva i verbali. Siamo stati lì, ad ascoltarli, dopo avere letto le loro dissertazioni su argomenti vari. Seduto sulla mia sedia, guardavo questi ragazzi vestiti più o meno bene esporre i loro risultati mirabolanti. E sono mirabolanti per davvero. Poi l’occhio mi è caduta su una dissertazione. Ci capivo poco dell’argomento, la tesi descrive come funzionano certe membrane cellulari, e cerca di ricostruire il meccanismo di passaggio di ioni attraverso queste membrane, mediante delle simulazioni (cioè calcoli) al computer. Una roba complicata di cui so pochissimo. Ma ecco, ecco ciò che mi ha colpito: all’inizio di ogni capitolo, erano scritti i versi di alcune canzoni, e tra gli altri ho riconosciuto subito questi:

Oh tu sei nel mio sangue come vino santo
Sai di amaro e di dolce
Oh potrei bere una cassa di te mio caro
E starei ancora in piedi
E starei ancora in piedi

Oh you’re in my blood like holy wine
You taste so bitter and so sweet
Oh I could drink a case of you darling
And I would still be on my feet
Oh I would still be on my feet

Altra canzone bastarda, di Joni Mitchell. Il dottorando parlava delle sue membrane cellulari, e io, dietro la mia cravatta, sotto la mia faccia seria, seduto accanto ai miei sapientissimi colleghi, sono volato su, su per l’aula, e sono andato via con quell’oggetto che mi sta sulle spalle, e che tendo ad usare troppo, o troppo poco. Comprai “Blue” di Joni Mitchell, il disco dal quale è tratta questa canzone, quando avevo 16 anni. Mi sa che ci ho anche baciato la mia prima ragazza con quella musica in testa.

Maledizione, ma perché sono fatto così. Perché ho questa memoria, perché non butto via tutta questa roba che ho ancora dentro, mi sono chiesto. E poi ho capito che quel ragazzo, con le sue membrane cellulari, sente come me. E alla cerimonia finale, rivestito con la toga ed il tocco, gli ho stretto la mano un po’ più forte per le congratulazioni di rito, e l’ho guardato nei suoi occhi timidi, incorniciati da occhiali spessi. Mi hai ripetuto la solita lezione, amico, che tendiamo a dimenticare troppo spesso. Al di là dei nanotransistor, al di là delle membrane cellulari e delle altre meraviglie, al di là delle nostre intenzioni e delle nostre azioni, mi hai detto chiaro e forte che bisogna bere il vino degli altri, dolce o amaro che sia, per usare la testa, e per potere andare avanti, e capire come funziona il mondo e la natura . Quel vino ha una denominazione. Ve la scrivo in inglese, perchè così mi piace di più: LOVE.

Happy Birthday, mr. Aka

“Caro il mio Piero Gennadji Ulianov Angela, non essere preda dei tuoi stessi pensieri, ma fai che ti tengano compagnia.”

Questa è quella che gli accademici chiamano una “prolusione”. Rompo il mio silenzio (neanche tanto silenzioso) per celebrare in anticipo il compleanno dell’uomo più saggio del blog: Akamotasan , il più grande generatore di haiku di Virgilio. Nelle “prolusioni”, un qualche professorone un po’ rincoglionito viene chiamato durante una cerimonia accademica dal rettore o qualche altro pezzo grosso, si alza dal tavolo dove è placidamente appisolato, si aggiusta la mantella, si rimette dritto il tocco e tiene una lezione per la disperazione dei presenti, pronti ad avventarsi al rinfresco successivo. Beh, mi sono autoarrogato il diritto di farla io, la lezione. Oddio, il post di Marihellen per celebrare il compleanno di Aka dell’anno scorso, con immagine qui presente

forse è più gradito all’uditorio, ma, ahimè, a chi passa di qui tocca sorbirsi una piccola lezione sull’effetto tunnel. Aka gradirà, lui ha di queste perversioni mentali (parole sue). Dunque, immaginate di trovarvi davanti un muro, e volete andare dall’altra parte. Non c’è storia, o vi arrrampicate, oppure lo saltate. Se il muro è perfettamente liscio, e non ce la fate ad arrampicarvi, dovete saltarlo. E se non avete l’energia necessaria, nè strumenti adatti, non c’è speranza. Potete sbatterci solo la testa contro. E’ proprio così? No, non è così. Se voi foste una particella piccolissima, diciamo, un elettrone, e le pareti del muro non fossero troppo spesse, POTRESTE passare. C’è una possibilità, certe volte neanche troppo piccola, che si possa passare. Questo è l’effetto tunnel. Il tutto perchè quando si va su scale molto piccole, le leggi fisiche cambiano. Non c’è più causa ed effetto, c’è solo la probabilità. E noi, che siamo molto più grossi di elettroni, siamo letteralmente dei grovigli molto concentrati di onde di probabilità. Onde. Bello essere onde, eh?! Quando si è onde si è un po’ dappertutto, si è “estesi”, “delocalizzati”. E si possono “tunnellare” i muri. proprio così:

E se questo vi sembra un concetto un po’ astruso (lo è, lo è…) sappiate che molte memorie mobili dei dispositivi elettronici che utilizziamo tutti i giorni sfruttano l’effetto tunnel: le penne USB, e le memorie delle fotocamere digitali, ad esempio. Aka, amico mio, non pensare che i muri del tuo ufficio intorno a te siano invalicalibili. Puoi sempre sperare di “tunnellarli”, anche se è più facile vincere al superenalotto. Ma tu già lo pratichi l’effetto tunnel, con la tua mente, la tua fantasia che genera storie deliziose che molti di noi leggono con piacere, ed alleviano la vitaccia cagna di tutti i giorni. Sun on you, ed eoni di questi giorni w

Stufo (su PACS, commenti ed imbecilli)

Oggi ho ricevuto un commento da una blogger: mi ha scritto che è costretta a moderare i suoi commenti, dopo avere pubblicato un post molto ben fatto e documentato sui PACS. Il post è in home page, tra i cinque più votati. Era continuamente oggetto di insulti e schifezze varie. Ovviamente anche perchè è una ragazza, e scrive chiaro come la pensa, su questo ed altro. La cosa mi ha colpito molto. Sono più di due anni che scrivo su questa piattaforma, e non è la prima volta che sento di queste storie. Sono stufo di sentirle. Così come non mi piace vedere in giro blog con gagliardetti, fiamme tricolori, asce bipenni e armamentari varii. Ognuno ha le sue idee, io le mie. E lo scrivo. Metto su un bel simbolo della pace, e spero che sterilizzino prima o poi la proverbiale mamma degli imbecilli. Anche se la speranza è vana.
P.S.: ovviamente sono FAVOREVOLE ai PACS, e trovo che la Chiesa ed i politici che sono contrari alla loro introduzione abbiano una posizione BIGOTTA, IPOCRITA ed ARRETRATA. W Zapatero! Continuiamo: Sono antiprobizionista, sono favorevole all’eutanasia come si pratica in Olanda, sono stato contrario alla guerra in Irak, sono per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan, sono per la tolleranza ed il rispetto delle culture degli altri (sì, inclusi i musulmani, proprio loro), sono per il voto agli immigrati, sono per la libertà sessuale (quando non significhi violenza e pedofilia), sono antifascista…

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Goodbye, Mr. Nice Guy

Quando metto su Hopper, le cose si mettono male. Per me. Nessun motivo particolare. Nessuno da incolpare. Dharma e Greg si mordono. Si prendono a calci. E’ così. Mr. Nice Guy non è così nice. Nessuno è mr. Nice Guy. La stanchezza mi forma dei cerchi sopra la testolina da prof. che pretende di sapere. E che invece non sa un bel niente. Di se stesso, soprattutto. Passerà? Ma certo che passerà. Bit of a smiling mask, nel frattempo. E sotto la maschera, le occhiaie, i rimorsi, i punti neri in fondo agli occhi. Mr. Nice Guy si prende una vacanza. E io aspetto che ritorni, con le sue musichette e le sue parole soffici. E Dharma e Greg faranno la pace. Quando? Difficile dire. Sorry.

Ultimo minuto: mail arrivato mentre scrivevo il post.

“…Mi scuso per la dimenticanza dettata da dimenticanza….”

troppo bello, no?

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Urquhart weeping


Ti porterò sul Clyde, o sul Firth of Forth. Vedremo l’erica, e raccoglierò un cardo per te, le nuvole che scorrono sopra le Highlands verde bruno. Giocheremo a nascondino dietro i muri dell’Urquhart Castle, accanto al Loch dal colore plumbeo. I gabbiani sulle montagne di Skye, il mare che insegue il cielo e le rocce grigie. Saluteremo l’Edinburgh Castle con la mano sulla fronte, ci struggeremo davantti alle ciminiere di Glasgow. Shortbreads a colazione, mia cara, o marmalade di Dundee. Ci ammaleremo di whisky e malinconia, prima che il sole colpisca oltre le Ebridi. Il cielo di Scozia si apre, per sorriderci, ma solo un momento, prima di riprendere a piangere.

Black is the color of my true love`s hair
Her lips are like some roses fair
She has the sweetest smile and the gentlest hands.
And I love the ground whereon she stands

I love my love and well she knows
I love the ground whereon she goes.
I whish the day it soon will come
When she and I can be as one

I go to the Clyde to mourn and weep
For satisfied I’ll never can be
I’ll write her a letter, just a few short lines
And suffer death ten thousand times

Black is the color of my true love`s hair
Her lips are like red roses fair
She has the sweetest smile and the gentlest hands.
And I love the ground whereon she stands

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L’uomo delle cartoline


L’uomo si rassettò la cravatta davanti allo specchio, si pettinò velocemente, prese l’impermeabile ed uscì dalla stanza d’albergo. Il portiere sonnecchiava dietro il banco della reception, davanti al televisore che bisbigliava notizie in inglese. L’uomo fece un cenno di saluto senza risposta, e la porta girevole lo spinse nella serata nebbiosa della città. Camminava velocemente sull’asfalto umido, pochi passanti frettolosi, macchine che scivolavano accanto. Fece cenno ad un taxi, che procedeva dalla parte opposta. La vettura nera fece inversione ad U e gli si fermò accanto, con il motore diesel che vibrava sommessamente. Al buio, il conducente aspettava. L’uomo entrò e dette l’indirizzo del ristorante, che si trovava nel centro della citttadina. Il taxi partì, mentre l’uomo guardava fuori dal finestrino, le luci dei lampioni attenuate dalla nebbia scorrevano davanti al suo sguardo fisso. Il viaggio fu più breve del previsto, il tempo non invitava la gente ad uscire, in quella triste serata infrasettimanale. L’uomo pagò e scese, ma quando arrivò davanti al ristorante lo trovò chiuso. Rimase interdetto, fissando la vetrina buia. Frugò dentro le tasche, trovo il pacchetto di sigarette e se ne accese una, col suo accendino di acciaio lucido. Incominciò a camminare, cercando un altro locale, a caso. Il suo sguardo si posò su una insegna al neon blu elettrico. Incuriosito, si avvicinò. Era un bar, con “attrazioni locali”, come strillava un manifesto accanto alla porta di legno scuro. Niente cibo, ma dopotutto non aveva tanta fame. Avrebbe cercato un take away dopo, quelli chiudevano sempre per ultimi. Un drink in mezzo ad un po’ di gente non gli sarebbe dispiaciuto affatto. Suonò, uno spioncino della porta si aprì per un attimo, e la porta si spalancò. Scese una rampa di scale, e si trovò in una sala scarsamente illuminata, tranne che in un lato, dove sorgeva un palco. Si avvicinò al bancone del bar e chiese una lager. Si sedette sullo sgabello, dette uno sguardo ai tavoli, occupati da altri uomini soli e da qualche coppia. C’era gente, ma non troppa. All’improvviso, una musica gitana proveniente da un complessino ai lati del palco avvolse tutta la sala, un faro illuminò le quinte e lei uscì. Un’acrobata, con uno strano costume arabeggiante, si inchinò, fece qualche passo di danza, e salì su una fune in alto, stesa da un lato all’altro del palco. Incominciò a camminare sulla fune, sorridendo a tutti, e lanciando baci. Si fermava, ritornava indietro, si girava seguendo le note della canzone. A lui sembrò che lei lo guardasse, e che il sorriso si facesse più dolce. La osservò, con il bicchiere in mano, la musica che gli girava in testa. L’acrobata terminò il suo numero, scese dalla fune, e ringraziò con un inchino, i capelli biondi rovesciati in avanti. Lui si era spinto in avanti, quasi a ridosso del palco, per applaudirla. Lei si rialzò, i loro sguardi si incrociarono, e gli mandò un bacio. L’uomo non seppe dire quanto tempo passò, prima che lei si voltasse e scomparisse dietro le quinte. Tornò al bar, finì la sua birra e chiese il conto al cameriere. Chiese anche l’indirizzo dell’acrobata, che gli fu dato dietro una generosa mancia.
Più tardi, nella stanza d’albergo, con la cravatta allentata, prese la sua cartella in pelle e ne tirò fuori una scatola piatta. La aprì, prese una cartolina che mostrava una spiaggia ed un mare blu turchese. La rigirò incerto, scrollò le spalle e si sedette davanti ad un basso tavolino, incominciando a scrivere sul retro della cartolina. La mise dentro una busta, la sigillò e ci scrisse sopra l’indirizzo, sorridendo a se stesso.
Dopo qualche giorno, ricevette un messaggio dal portiere dell’albergo. Lo lesse, e se lo mise in tasca fischiettando. Doveva andarsene il giorno stesso, non aveva tempo di ritornare al locale. Per lavoro doveva spostarsi continuamente. Sarebbe ritornato nei prossimi mesi. Nella stanza d’albergo, tirò fuori un’altra cartolina dalla sua scatola magica: in questa era raffigurata una città da sogno ripresa di notte, con luci vivide e multicolori. Ci scrisse sopra qualcosa, la imbustò e la portò alla reception.
E tutto questo si ripetè sempre più spesso, in ogni albergo dove andava, riceveva messaggi, rispondeva con le cartoline, sempre più belle. Posti da sogno, da ogni parte della Terra. I messaggi erano sempre più lunghi, vere e proprie lettere. Ogni lettera, un bacio, un sorriso ed una cartolina. Deserti, montagne, città, isole contro parole sempre più dolci. Un giorno, lui scrisse su una cartolina “per sempre”. Il messaggio di risposta fu “ora”. Quando lo ricevette, lui lesse una piccola agendina scura, e scosse la testa. Non poteva, ora. Tirò fuori la cartolina più bella che aveva, un tramonto sfolgorante sul mare, scrisse “non ora, ma per sempre” e la spedì. Questa volta la risposta arrivò con qualche giorno di ritardo. La lettera era più corta. Meno baci, meno sorrisi. Lui fece una smorfia, lesse l’agendina, e scosse di nuovo la testa. Prese un’altra cartolina, e la spedì. Aspettò più a lungo, una settimana intera. Ancora qualche mese, e sarebbe potuto tornare. Ma non ora, non ora. Scrisse un’altra cartolina. La risposta non arrivò. L’uomo incominciò a preoccuparsi, aveva bisogno dei suoi messaggi, dei suoi baci, dei suoi sorrisi scritti. Ed incominciò a spedirle tutte le cartoline che poteva. Ogni tanto riceveva qualche risposta, ma ormai l'”ora” era passato. Tempo scaduto. Ancora scrive, l’uomo, una cartolina al giorno, spera in una risposta, e sogna che al ritorno in città, il locale sia ancora aperto, con l’acrobata lì ad aspettarlo. Ma il tempo fugge, e qualche volta “Ora” è più importante di “Per sempre”.

Blue light

Colori. I colori sono l’impressione sulla nostra retina di emissione luminosa. Cioè emissione di radiazione elettromagnetica, o meglio, di una parte di essa. Ai colori noi umani associamo sensazioni, emozioni, ricordi. Rosso, passione. Giallo, invidia. Verde, speranza. Blu: il colore del cielo, lo associo al paradiso, all’estasi. Estasi fredda, ghiaccio. LED e LASER sono due tipi di strumenti, che possono essere basati sullo stesso tipo di dispositivo elettronico, e che emettono luce di un certo colore. Vengono realizzati con materiali particolari, chiamati semiconduttori. In realtà, di LASER ce ne sono di molti altri tipi (gas, liquidi, etc.), ma io recentemente ho approfondito lo studio di LASER che sono costruiti con lo stesso materiale dei LED. C’è una grossa differenza, però, tra LED e LASER. I LED emettono luce di un certo colore, determinato, ma questa luce, per così dire, non ha la stessa qualità di quella dei loro “cugini”. I LED emettono un po’ dappertutto, e la loro luce serve solo per segnalare se uno strumento è spento, o acceso, o per segnalarci qualche piccola informazione. E’ giusto che sia così. Ho un curioso ricordo associato ai LED. Il detective privato Harrison Ford, a caccia di replicanti in Blade Runner, aveva una enorme pistola con un piccolo LED rosso acceso, quando la brandiva, puntandola contro la preda che aveva appena fatto fuori, la bellissima Joanna Cassidy. Le pistole non avevano, e non hanno ancora, LED che ne segnalino il funzionamento. Fantascienza anni 80, superata. Era una bella idea, però, e mi piacque, dal punto di vista estetico. I LASER, però, hanno un altro tipo di qualità. Sono basati su un principio, detto emissione stimolata. E’ come se la luce all’interno del LASER si autosostenesse, prima di essere emessa. Difficile da spiegare, in parole povere. Ma la luce, prima di uscire, si “autoorganizza” e ne esce purissima, pressocchè perfetta. Colore perfetto, direzione perfetta, intensissima. Sono quasi cinquant’anni che esistono i LASER, e ce ne sono di tanti tipi. Alcuni sono comunemente usati in medicina, o nelle telecomunicazioni, ed in altri aspetti della vita quotidiana. Quelli a semiconduttori sono i più compatti ed economici. E quelli che emettono luce blu con questo tipo di materiale, si stanno incominciando a costruire solo ora. La luce blu perfetta è difficile da realizzare. Solo con altri tipi di LASER, molto più costosi. Ma piano piano, con molti sforzi e molto ingegno, i LASER blu stanno per arrivare, più economici. Luce blu per tutti. E io mi auguro: paradiso per tutti, estasi per tutti. Su questa terra. Love, w