Dannato

Mi chiamo Vyachislav, e sono dannato. Vengo dalla Buriazia, un paese che voi non conoscete, nel sud della Siberia, al confine con la Mongolia. Resistiamo all’inverno feroce, godiamo del tepore estivo, sulle rive del Bajkal. Ho gli occhi a mandorla, sono magro e ho vent’anni. Mio padre fa il pastore, ma ho voluto arruolarmi per prendere un po’ di soldi e uscire dalla steppa. Una mattina di Febbraio mi hanno caricato su un aereo e mi hanno portato all’Ovest. Un’esercitazione, che è diventata un’operazione speciale, così la chiamano gli ufficiali. E siamo entrati in un altro paese, dove parlano una lingua simile a quella che parlo io, ma gli abitanti hanno gli occhi tondi. Abbiamo percorso una strada lunga tanti chilometri, annoiati e stufi, poi siamo stati attaccati. Un’imboscata. Un drone dal cielo ha colpito il tank sul quale avevo dipinto la z bianca. Il mio amico Sergey, di un villaggio vicino al mio, è bruciato vivo dopo l’esplosione, mi sono salvato buttandomi per terra sul ciglio della strada, e ho sparato, sparato verso le finestre, verso le porte, verso le case, senza sapere chi colpivo, se ho mai colpito qualcuno. Siamo entrati in una fattoria, era diversa dalla mia, più bella, e abbiamo cacciato due vecchi colpendoli col calcio del fucile. La paura mi accompagna ogni momento, e si trasforma in una rabbia da lupi, mi fa diventare un demone. Sono stato appostato in una cucina devastata, aspettando il loro arrivo. Arrivavano e sparavo, i nostri tank con la z passavano e colpivano tutto, i loro razzi li facevano esplodere. Nelle pause, vedevo gli abitanti fuggire in macchina o a piedi. Ogni tanto tiravamo loro contro, il fuoco che ci bruciava dentro. Camminavamo in ronda, tra le macerie e gli alberi anneriti. Col terrore delle imboscate. Penso che loro provassero lo stesso, ma non li vedevo mai. Un giorno ci hanno ordinato di tornare indietro. Camminavamo sulla strada principale, abbiamo visto un tipo in bici che portava dell’acqua. L’ufficiale mi ha urlato “sparagli, è una spia!” Ho esitato un attimo, l’ufficiale mi ha puntato la pistola contro, e ha cominciato a bestemmiare. L’uomo si è fermato, gli occhi tondi mi hanno guardato e ho sparato. Una raffica, il tipo è saltato dalla bici con la testa esplosa. In una stalla vicina, da una finestra semichiusa, ho visto due occhi azzurri. Una ragazzina, avrà avuto tredici anni. Le ho rivolto contro il mitra, e lei si è ritirata, la sua treccia bionda ha ondeggiato per un attimo prima di sparire. La sera, in un’altra casa devastata, mi hanno dato due pasticche per farmi dormire. Vlad mi ha passato del fumo, e mi sono accucciato, col mitra al mio fianco. Ho pensato al lago Bajkal, prima di addormentarmi. Gli occhi azzurri, nel sogno, mi hanno sorriso, poi è comparso uno di quei draghi cinesi di cui mi raccontavano quando ero bambino, e mi ha sputato addosso il fuoco. Sono dannato, e non volevo. Il giorno dopo mi hanno trasportato in un altro paese, ho spedito a casa un telefonino e un televisore da quaranta pollici che ho preso ai due vecchi. Domani tornerò lì, al fronte, e so che forse non ne uscirò vivo. Un missile, una granata, un drone nella terra delle case devastate e del fango scuro. So che comunque vada, ne uscirò dannato.

Kind of

Banksy-13

Qualche volta ritorno sul mio blog… non so perché. Il primo post risale al 2004. Scrissi per tutto il 2005. Poi chiusi il blog in un attacco d’ira (per motivi miei) e ricominciai nel Gennaio 2006. I blog come venivano scritti allora non esistono più, tranne qualche eccezione. Adesso siamo social. FB, Instagram, twitter etc. Oggi voglio omaggiare l’artista dal quale ho preso il nick. Il suo ultimo disco è splendido. E mi ha fatto ritornare sul blog. Non metterò video, non caricherò file audio. Scrivo solo, come quando incominciai, e assieme all’immagine di Banksy che mi ritrovo in archivio, aggiungo l’immagine della copertina. Tutto qua. Solo per scrivere e per salutare, non so chi, non so perché.

Sun on you

paulweller-akindrevolution

Cowboy spaziali

Ho già scritto di “The return of the space cowboy” dei Jamiroquay, e l’ho usato come sottofondo ad alcuni miei post. La figura dello “space cowboy” compare in alcune canzoni, di cui una ebbe un grosso impatto sui miei gusti musicali, quando avevo circa quattordici anni. La canzone è “The joker”, della Steve Miller Band, e fu uno dei pezzi che mi avviò alla passione per la musica rock (e pop, confesso, anche quella). E’ l’unico 45 giri che abbia comperato  nella mia età “da grande”. Steve Millor canta

“some people call me the space cowboy, yeah

some call me the gangster of love…”.

 

Space cowboys è il titolo di un film con Clint Eastwood e Donald Sutherland, e Ian Solo, protagonista di Star Wars è uno space cowboy. In un romanzo di Stephen King (Il gioco di Gerald) viene citato, anche se non mi ricordo bene a che titolo. Alla mitologia dellla Nuova Frontiera andava aggiunto lo space cowboy? Chi lo sa. So solo che negli anni 90 i Jamiroquay fecero uscire questo pezzo, che è un po’ un inno al ritorno al peace and love (con annesso sballi varii) dei sixties, in ambiente acid jazz e dance. Loro vestiti da no global, Jay Kay che balla benissimo. Enjoy.

 

La realtà morde

La scorsa domenica ho passato un brutto momento. Mentre andavo in macchina, guidando rattristato sotto la pioggia, mi è venuta in mente questa canzone. Mi è sempre piaciuta, sia nella versione originale di Peter Frampton, che in quella, dolce e solare, dei Big Mountain. Un reggae leggero, che scalda e tira su di morale, anche solo a ricordarselo, e a canticchiarlo in macchina. La realtà morde è la traduzione letterale del titolo del film di cui è colonna sonora. Una piccola commedia con molti attori famosi, allora giovanissimi (Winona Ryder, Ben Stiller, Ethan Hawke). Il titolo in italiano era “Giovani, carini e disoccupati”. Non credo fosse un gran film, ma riandando con la mente a quegli anni (90) forse erano meglio di come li pensavamo. E ora la versione di Peter Frampton. Enjoy.

Feeling brand new

New York, come me l’aspettavo? Non ci pensavo particolarmente prima di partire, poi è stato un colpo di fulmine, da quando ho intravisto i grattacieli di Manhattan nella foschia di un mezzogiorno estivo, mentre l’aereo atterrava. L’amore che suscita è travolgente. Non è bella come una capitale europea, ma spacca. Spacca proprio. Esci dall’appartamento che hai affittato a Harlem, e ti risucchia subito, il centro del mondo. Il caldo della Subway ti fa impazzire, il traffico è soffocante, l’odore del cibo cinese a Canal Street è nauseabondo, la gente per strada ti sposta quasi a forza, è un delirio. Ma sei lì, sei dentro, dentro la tua vita, dentro la tua era. E si va avanti. NYC non si guarda troppo indietro. Potrei parlare del deli che sembra uscito da un film di Spike Lee, degli skate boarders che sfidano il traffico in VII avenue, degli afro americani per la 125 che rappano da soli mentre ascoltano la musica nelle cuffiette, e di altro ancora. Andare al centro del mondo, per provare. Per sentirsi, come canta Alicia Keys in questo pezzo di Jay Z, “brand new”.

Enjoy

Caschi e tute scintillanti

In macchina:

– Questo pezzo piace tanto alla mia amica, lo sente sempre sul telefonino. Si chiamano Daft Punk.

– Chi, quelli col casco e le tute scintillanti?

– Hanno fatto pure la colonna sonora di Tron.

– Non quello degli anni 80, immagino.

– Anni 80?

– Ehi, questa chitarrina sembra proprio quella degli Chic, come si chiamava il chitarrista, Nile Rodgers…

-?


Daft Punk – Get Lucky (Full Video) di agrigentooggi


Non sembra, è davvero la chitarra di Nile Rodgers. Lo scopro dopo, e lo dico tutto contento a mia figlia, che ovviamente non sa chi sia. E il pezzo dei Daft Punk è veramente notevole. Questa capacità della musica pop odierna di mescolare tutto, campionare il vecchio e riproporlo in modo originale, farlo diventare qualcosa che sa di nuovo e fresco mi sorprende sempre. Al rock non riesce così bene, non c’è mai modo per me di non sentire qualche pezzo di una band rock nuova e di non pensare “ma questo l’hanno già fatto, non è granché.”. E mentre sento Get Lucky dei Daft Punk, ripenso alla disco, e c’è il piccolo rimpianto di non avere ballato abbastanza quella musica di cui gli Chic sono gloriosi rappresentanti. Li propongo con Good Times, uno dei loro capolavori.

Bey in Glastonbury

Nella mia mente il festival di Glastonbury è associato a PJ Harvey, agli Oasis, a Bowie, agli Stones, insomma, al genere di  musica che più amo. Non ci sono mai andato, purtroppo, ma me lo immagino come il classico festival rock inglese:  il meglio della mia musica, tanta gente e pioggia. Due anni fa, lessi con  sorpresa che anche il pop più glamour faceva ormai parte della scena. In particolare Beyoncé. E le recensioni sulla stampa inglese erano anche buone. Questo video mi ha fatto pensare a quanto lavoro c’è dietro questo genere di spettacolo. Provate voi a ballare e cantare così. Bey e le sue compagne sono delle vere dee, e il pezzo è molto trascinante. Non sarai una rock star come dici (furbescamente) di volere essere, mia cara Bey, ma sei certamente un altro bell’animale da spettacolo. Enjoy.

Benedetto Mr. Fantasy

Quando ero studente universitario, esplose la febbre dei videoclip. Assieme  agli argomenti delle lezioni, alla Roma di Falcao ed altre amenità questi affascinanti filmati musicali erano oggetto di conversazione con i miei colleghi. MTV non era ancora sbarcata in Italia, e VideoMusic (altra emittente storica) stava appena incominciando. Un glorioso programma della Rai, Mr. Fantasy (di Carlo Massarini), trasmetteva i video più affascinanti. Uno dei più belli era certamente Billie Jean, cantata e ballata da Michael Jackson. L’idea delle mattonelle che si illuminano al suo passaggio è semplice e geniale. L’ho rivisto per curiosità su You Tube e l’ho trovato ancora godibilissimo. Anche alcuni clip dovrebbero essere tutelati come patrimonio artistico. Sono pezzi di storia dell’arte e dello stile, come la moda e il design.

P.S.: Mr. Fantasy è il titolo di una canzone dei Traffic, di cui Massarini era un fan sfegatato.

 

 

Scossa

A metà anni 80 la scossa per me arrivò. Andai via di casa. E incominciai uno strano giro d’Europa. Gli Style Council mi accompagnavano, uno dei risultati finali delle derive pop  di tanti artisti. In questo caso di Paul Weller, the Modfather, già leader di un gruppo rock tanto popolare in Inghilterra quanto (semi-) sconosciuto qui in Italia, dove vi era un’inerzia di un paio d’anni almeno, in termini di gusto e tendenze. Adoravo gli Style, anch’io avevo subito una deriva pop. E questi archi sintetici, che si sentono, beh, mettono il prurito ai piedi. D.C. Lee, ex wham-ette, è meravigliosa. Sullo sfondo, le battaglie sociali durrissime dell’Inghilterra in era Thatcher. Deriva pop sì, ma di sinistra.

No sabe

Non so. Non so molto dei Cypress Hill o di Pitbull, conosco Marc Anthony di fama, vagamente. Non stava con JLo? Quello che so è che in questo pezzo c’è il campionamento del coretto irresistibile di Suite: Judy Blue Eyes. Di Crosby, Stills, Nash e Young. E che ho riconosciuto subito, la prima volta che ho sentito questo brano alla radio. Ne ho già scritto qui. Il video è perfetto per questo caldo inizio estate. Misto hip hop, salsa, latin pop. Rinfrescante. Gradevole. Hermoso.

 

 

Simply perfect

Tutto cominciò qui, credo. Un certo tipo di pop, che si fondeva completamente, totalmente, con la moda e i modi di essere, soprattutto apparire. Madonna è quasi una mia coetanea e il suo primo modo di vestire, un po’ gotico, un po’ romantico, mi piaceva moltissimo. Era giusto, perfetto. La ragazza atterrò sul pianeta Terra nel momento esatto in cui doveva esserci. Poi si trasformò, moltissime volte. Ma il primo look è quello che deve essere celebrato e ricordato. Ed è imposibile separare il look dalla sua musica e dalla sua danza. Godetevelo.

Insonnia ’90

Un giorno imprecisato della scorsa estate, mentre sorseggio un “capo” al bar, sento una canzone familiare. E’ un remake acustico di questo pezzo; mi ricordo immediatamente il video del brano originale, visto la prima volta su MTV in una notte insonne e calda alla fine degli anni ’90. Allora mi colpì molto, per la glacialità della cantante, e per le sue, come dire, pulsazioni melodiche e decadenti. Di grande effetto, almeno su di me.

Home blvd

 

Qualche sabato notte fa mi è capitato di vedere il movimento in entrata e uscita dai locali all’aperto, vicino a casa mia. Le ragazze che in questo video girano per Hollywood blvd non sono poi tanto più belle. C’è questa sensazione di aspettativa, questa specie di alone di effimera felicità che le fa risplendere, e che le accomuna a quelle di home blvd. Effimera, gioiosa, e da godere, fino in fondo. Sabato è sabato, e basta. In Hollywood come in home blvd. Sta per succedere, stanotte, adesso. Lo sento. Let’s live it up.  E Fergie, come sempre, è splendida.

 

Inconfessabile

Una volta una blogger mi scrisse: penso a te come a un deejay, che mi teneva compagnia durante le grigie giornate di inverno in una città del nord, lontano da casa. Molto, molto gratificante. e decisamente eccessivo. Però, ricordando il commento di qualche anno fa, ho pensato di rivitalizzare il mio blog con qualche video di musica pop e dance. Non è la mia musica preferita, ma mi ha accompagnato da quando ero adolescente, come ha fatto con tutti. Incomincio con un pezzo decisamente improbabile, e molto distante da quello che sento abitualmente. Ma per cui provo una inconfessabile passione. Da quando lo sentivo alla radio in macchina, mentre andavo a trovare la mia famiglia nei weekend. Mi accompagnava, appunto, nei viaggi, e mi faceva provare una piccola, gentile emozione.


Paola & Chiara
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angeli dal cellophane

Ho tenuto il CD nel cellophane per tanti mesi. la plastica che seppellisce la curiosità e la realtà. la soffoca. poi, un giorno l’ho scartato. E, puff, è uscito un angelo, come il genio della lampada. ma è lui che  fa fare le cose a te. soprattutto sentirle.  ci sono canzoni che aprono il cuore in maniera irreversibile. sono poche, per fortuna. e questa, QUESTA è una. penso che  se l’avessi sentita a quindici, venti o anche trent’anni, mi avrebbe fatto di peggio. ma la matura età mi permette almeno di mantenere un certo aplomb. forse però non è un gran vantaggio. sentitela.

duemilamiglia

“Sento la gente cantare, deve essere Natale.”

E’ un periodo difficile per tanti, per me è un periodo di lontananza da una persona cara.  Ho risentito alla radio questa splendida canzone natalizia, e ho deciso di riscrivere qui. Spero che presto la neve si sciolga, per tutti. Auguri.

Fili

Mentre pago alla cassa, il piccolo Olin guarda un film su youtube. Non è il solito cartone animato, è una commedia, in parte in inglese, in parte nella sua lingua, bengalese. E sento la musica della colonna sonora. E’ solo un piccolo pezzo, ma lo riconosco. Harry’s game theme, dei Clannad. Sono sorpreso. Chissà per quale diavolo di motivo è stato scelto per questo film. È come una porta socchiusa, forse. Un breve messaggio lanciato in modo inconsapevole. Una piccola, splendida canzone in gaelico racchiusa in una bottiglia che naviga in un oceano alieno. La pioggia di Aprile scende, fuori dal negozietto etnico, mentre esco con la musica nelle orecchie. I fili delle culture, dai molti colori, si intersecano, spesso senza senso apparente. In questo risiede una parte della poesia del mondo.

lovejoy

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lovejoy è una cometa sopravvissuta a un lungo viaggio. è arrivata qualche giorno fa, ed è stata osservata e filmata dagli astronauti della stazione spaziale internazionale. c’era una tempesta sulla terra. i fulmini formavano delle scintille sopra il nostro pianeta scuro. improvvisamente lovejoy è comparsa, un po’ a sorpresa. non si credeva che sarebbe ritornata, era passata molto vicino al sole. ma la sua massa era stata sottostimata. ne aveva abbastanza per non disintegrarsi e ritornare. ha formato una striscia chiara, poi è sopravvenuta un’alba luminosissima.  e questa per me questa è una piccola fiaba di natale.

auguri

Wise up

Ho nostalgia del blog. Di tutti le frasi senza volto. Del gioco e del tormento, così etereo e concreto. Spesso mi collego, penso che dovrei ricominciare un po’ a scrivere, ma poi lascio perdere. Molti blog dei miei contatti sono spenti, abbandonati, e questo non mi incoraggia. E’ stata una cosa molto intensa (troppo). Però “fuori” cambia molto, molto in fretta. E tutti i commenti, i post, sono lì, giacciono senza che nessuno li legga più. Non credo che smetterò completamente di scrivere, e saluterò qualcuno che ancora c’è. Ma il tempo è scaduto. Pensavo di potere scrivere, e ho scritto. Adesso non ne ho più molto. Comunque, come nel salvaschermo di un mio vecchio computer, le luci dei grattacieli continueranno ad accendersi e spegnersi, per molto tempo. Silenziosamente, nell’ufficio buio.

Se passate, lasciate un saluto. Ho sempre risposto. Sun on you.

gratis

 

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Gratis. Sembra impossibile, ma c’è gente che  compie certe scelte, e vive in certi modi. Senza vantaggi, senza guadagni personali. Per gli altri.  E spesso, purtroppo, il mondo li schiaccia. Queste persone non bastano mai. E sembrano diminuire. Ma resistono.

è diventata un cigno nero…

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… ma non era proprio un brutto anatroccolo,vero? quando vidi natalie piangere disperata bussando alla porta del killer jean reno, in léon, mi dissi: questa è una predestinata. e infatti: adesso è un academy awarded.

vidi il film a manchester, al corner house, casa del cinema indipendente e alternativo, tra edifici dai mattoni rossi post-industriali.  un bel posto, già. chissà se c’è ancora.

congratulazioni alla fanciulla. che ho apprezzato moltissimo anche in closer.

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cristalli di neve

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questo post vuole essere un semplice omaggio a uno dei più bei film della storia del cinema, che ho avuto modo di rivedere ieri. il cinema di stanley kubrick mi ha sempre fatto pensare a qualcosa di bellissimo, distante, e freddo. cristalli di neve, gemme perfette.  la distanza non è qualcosa di negativo, perché il risultato è emozionare, comunque. è questo il miracolo di kubrick. e barry lyndon ne è l’esempio più immediato. ogni singola immagine è tecnicamente perfetta, a se stante. e risplende nella luce fulgida, come la neve sugli abeti al sole di inverno.

auguri

 

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Gentilezza e sobrietà sono rare in questa società,
Di notte una candela è più lucente del sole
mentre Sting passeggia per NY, e canta queste rime da gentiluomo inglese, penso che non ci possa essere migliore augurio a tutti noi: essere noi stessi, e non dimenticare di tenere sempre accesa la candela. almeno provarci.
auguri.


life (dedicata a john)

 

qui vicino c’è un parco intitolato a lui. figlio di ragazza madre vissuto ad allerton. occhi miopi, dolcezza ironia rabbia racchiusa in un riff. appartiene a noi tutti. ancora non mi capacito del colpo di pistola a central park che l’ha stroncato. oggi mi sono chiesto come sia possibile che non sia più. dieci anni fa appesi una sua foto sotto una stampa del waterfront di liverpool, il luogo al quale ho intitolato il mio blog. qualche giorno fa la foto ingiallita è caduta. e come spesso accade, ho dubitato. non è più il caso di rimetterla al suo posto? quel luogo chiamato cuore si è addormentato, o forse è solo sopraffatto dalla rabbia convulsa rabbia elettronica dei nostri sciocchi tempi. penso che domani, appena sveglio nel dolore che mi assale ogni volta senza motivo apparente e tangibile, la rimetterò al suo posto. al mio posto. e canticchierò in my life. mi sentirò meglio, la pena sparirà. almeno una volta. nella mia vita, nella vita di noi tutti.

incanto

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nel crepuscolo di fine estate, in macchina, l’incanto si illumina. surfers che aspettano l’onda, aria limpida,  bikini dai biondi capelli a caschetto. sentendo questa. da dentro la scatola magica di marconi.

NC (in memoria)

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oggi pomeriggio hanno assegnato ufficialmente i premi nobel per la fisica 2008, la nostra champions league. tre professori hanno alzato la coppa, nambu, kobayashi e maskawa, per il loro contributo alla fisica delle particelle elementari, in particolare alla costruzione di quella teoria detta modello standard, il pilastro dell’interpretazione di tre delle forze fondamentali: elettromagnetismo, interazioni nucleari deboli e interazioni nucleari forti. manca la gravità, ma questa, come si dice nei film, è un’altra storia. i loro studi (quelli per cui hanno alzato la coppa) risalgono agli anni 60 e 70, un altro pianeta, un altro universo. per qualche motivo inspiegabile, a me e ai miei colleghi,  è stato negato il premio ad un altro fisico, nicola cabibbo. che aveva contribuito in egual modo, forse anche di più. cabibbo è stato mio professore, ho avuto il piacere dunque di conoscerlo. fu l’unico docente a bocciarmi ad un esame (fisica teorica) perché non voleva promuovermi con un voto basso. fumava (fuma?) la pipa,e vestiva una giacca a scacchi, che ho riconosciuto in alcuni filmati d’epoca, rispolverati dai tg per l’occasione, lo “scippo”, come si strilla da più parti. understatement, questa è la parola che mi viene in mente quando penso a lui. e signorilità, cortesia, fair play. è vicino, come portamento e carattere, all’accademia come vorrei che fosse. britannica, con accento romanesco. nobile, distaccata, ma senza troppo snob, e l’umorismo che caratterizza l’intelligenza umana, superiore. persone così, sono sempre meno. e perdono. ma perdere cosa? niente è perso, perché vincere (e lo scrivo a capo chino) spesso è solo un’apparenza. l’apparenza che in questi sciocchi tempi domina, ma non mi rende schiavo. non ci rende schiavi, se guardiamo avanti, tenendo alta la nostra torcia, e tendiamo ai nostri sogni, al nostro essere, alla nostra nobiltà di donne e uomini, scesi dagli alberi per affrontare le savane.

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Portami la notte
Non sopporto un’altra ora di quella luce

(scritto il 7 Ottobre 2008)

hermosa

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chi avrebbe pensato di leggere sul giornale di oggi un’intervista a un robot? o che lo spazio si sarebbe accorciato, da migliaia di km a 20 cm cliccando su aggeggini chiamati topi? atomi fotografati, medicine convogliate da magneti più piccoli della nave di viaggio allucinante, pianeti in sistemi extrasolari. il mio sogno di vivere in un libro della collana urania forse si è avverato. in un modo inatteso, esploso in colori vividi e luminescenti, visti con gli occhialini 3-D. ciò che mi stupisce è che il tempo accelerato non cancella, rimescola piuttosto. e puoi trovare gli occhi blu di judy del 1970 nel rap latino del 2010. la realtà è per me sempre più difficile da definire. col tempo che nella mia testa va e viene, come le onde del mare calmo di quand’ero bambino, mentre mia madre mi chiamava a riva per la merenda.

più il tempo passa, e più si rimescola. suite: judy blue eyes, campionata per armada latina. muy hermosa.


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one time

One eye goes laughing,
One eye goes crying
Through the trials and trying of one life
One hand is tied,
One step gets behind
In one breath we’re dying

I’ve been waiting for the sun to come up
Waiting for the showers to stop
Waiting for the penny to drop
One time
And I’ve been standing in a cloud of plans
Standing on the shifting sands
Hoping for an open hand
One time

Biglietto di Natale

sono sempre affezionato al mio blog. e alle persone che in questi cinque anni lo hanno frequentato. e poi, quando sento certa musica, non so perché (anzi, lo so benissimo) mi viene di scriverne e di condividerla. i verve sono stati un fuoco breve, ma intenso. da wigan, nel nordovest dell’inghilterra, il mio amato nordovest. dieci anni fa. questo è uno dei miei pezzi preferiti. è la mia xmas card per voi. se passate ancora. chiudete gli occhi come ashcroft. vi auguro di vedere quello che vede lui.

looking through the red box of your memories

auguri



vieni come sei

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Penso che dopo cinque anni di blog dovrei  smettere. Dovrei smettere di dissanguare i miei sentimenti e la mia memoria. L’ho presa troppo sul serio, ‘sta cosa. Oggi ho sentito questo pezzo dei nirvana, e ho realizzato, come solo quando ascolto ciò che mi urla il rock’n’roll. Vieni come sei, come una memoria. Come un amico, come un vecchio nemico. Ti aspetto. Lo giuro, non ho una pistola. Non ce l’ho, non l’ho mai avuta veramente. La scelta è tua, non ritardare. E se ritardi, tu,tu e tu, non ha importanza. Siete lo stesso per me, e dovrebbe essere così anche per voi. Non è mai troppo tardi. E’ peace and love, qui, e sempre lo sarà. Stesse idee, stesso feeling. Non può essere che ci abbaiamo come cani rabbiosi. Non può.
Perché io, la pistola non ce l’ho, e non la voglio avere.

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ministry of love

 

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qualche volta penso che il futuro immaginato dal passato si chiude nel presente. i corto circuiti si chiudono, nei flussi di carica elettrica e di luce provenienti dai nostri schermi, che ci investono continuamente, ossessivamente, cancellano e ricreano i tempi delle nostre azioni e dei nostri sogni. ma noi dove siamo, dentro o fuori gli schermi? è tutto mescolato, entangled, e ciò che ci diceva orwell del futuro, del suo futuro, ci arriva e diventa presente in modo ancora più subdolo di quello che lui poteva pensare. big brother diventa reality,  anestetizza una realtà che va e viene tra le onde elettromagnetiche e il vivere quotidiano. è una catena di immagini, di eventi, di immagini di eventi dove ciascuno pensa di prendere e selezionare, come al supermercato, e non si accorge del braccialetto elettronico che lo lega a qualcosa che NOI ci siamo costruiti, e dalla quale non scappiamo. perché ci piace, e non vogliamo scappare. ma forse non è così. ci forzano, ci forziamo a farcelo piacere. e tutto questo equivoco di presente, passato e futuro continuo è solo una cortina, che non ci fa vedere quello che siamo, quello che il mondo è. e ci farebbe un gran bene saperlo. tomorrow was another day.

 

big boss

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sì, siamo nella terra di nessuno. e mentre un pallido freddo incomincia a circuirci, vestiamo di nero e usciamo. con il cappello di mick, la giacca a tre bottoni di paul. big boss, forse ci riprendiamo il nostro. che non è tuo.

5 sport:calcio

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C’mon, let’s play.
Giochiamo sotto il cielo plumbeo della domenica mattina di un rigido  inverno inglese. Potrebbe anche nevicare, come nel match di FA Cup che Edo vide in televisione molti anni fa, in Italia. McManaman buttato dentro la partita, esile maglietta rossa nella bufera. Ora, SeftonPark, 7 a-side, Geoff in maglietta blu a maniche corte dell’Everton dirige il traffico del gioco, lucido e paziente. Il contrario di quello che succederebbe fuori, pensa Edo inguainato nella tuta blu, guanti di lana già zuppi. Scarpini che si incrociano, scivolanono, schizzano fango di domeniche bagnate nella fuga da quel dolore e quella noia dell’imperturbabile britannia.
Ma il calcio è qualcosa di doloroso e così tremendamente amabile. Paolo Maldini ha detto che fra vent’anni forse il calcio non esisterà più. Edo rivede Falcao e Platini, Maradona e Rummenigge, e prova la scivolata su Geoff, imita come tutti gli insipienti al cospetto degli dei. Le coppe dalle grandi orecchie, il mondo in un globo d’oro, alzate  nelle luci elettriche, nel verde artificiale, e la terra dei campetti di Tormarancio nelle estati polverose, cupo di fuori, il mondo. Luce nella palla che scivola, rimbalza, rotola, schizza tra piedi e teste di milioni di persone che hanno altro nella vita a cui pensare, ma che non possono fare a meno di rincorrere, dribblare, respingere, sognare. Dal sole di Roma alla pioggia del nordovest inglese, cos’è che ci spinge, cos’è che ci fa amare così perdutamente questa sciocca finzione di guerra?  E tutti quelli che giocano, al chiuso e all’aperto, continuano a perdere l’anima nella sfera. Edo riesce a rincorrere Geoff e a scivolare, l’anestesia del soccer continua a funzionare. Le droghe funzionano sempre. Fino al dopo.
Sefton Park imbrunisce di sera, a Tormarancio il sole diventa insopportabile. Lorenzo  si leva gli scarpini e fuma fuori dagli spogliatoi nel caldo padano asfissiante anche al tramonto, la nostra sera che avanza, sottile e inesorabile.
C’mon, let’s play.

moris

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quando entro nel bar di moris, lui nemmeno si volta. sa chi sono e cosa voglio.e così con tutti i suoi clienti, che ti assicuro, sono un bel po’.  le donne (di cui ha una maledetta, pessima opinione) le chiama nani, se le conosce un po’. mi fa il caffè macchiato la mattina, prima che vada al lavoro, o il campari soda con ghiaccio e limone, la domenica prima di pranzo. gli stuzzichini sono pezzetti di gnocco fritto, che prendo direttamente da un vaso di rame, dietro il banco. rino, il siciliano che mi vende mozzarelle, mi ha offerto il caffè.  è passato vicino al bar, tra il dehors e il bar in bici, e mi ha salutato mentre bevevo l’ape. moris l’ha rimproverato, e lui gli ha risposto che doveva salutare un amico. il fornaio ieri mi ha salutato per strada, e mi ha chiesto”come va?”. una volta lo ascoltai mentre parlava di casualità e causalità, e gli menzionai la storia dell’orologiaio cieco. all’altro bar, dove vado quando moris è chiuso per turno, la madre e la figlia mi hanno fatto notare che sembro sempre arrabbiato la mattina. e mi servono il caffè macchiato con le decorazioni di cioccolato. nel negozio bangla, dal quale mi servo quando devo comprare le birre fuori orario, il proprietario mi chiama ingegnere, anche se sono un fisico, un mestiere incomprensibile ai più. sta facendo il ramadan, povero, o beato? lui e la moglie sono internet dipendenti, guardano bollywood su youtube. i filippini si siedono sulle panchine la sera e chiacchierano, a voce alta, ridono e sono comunità, come noi non ci sogneremmo mai di essere. la domenica mattina i vicini messicani, o venezuelani, o che so io, sentono questi loro ritmi a volume alto, mentre il profumo della loro cucina si sparge per i cortili. a due passi, altre cucine, dalle più alte con tre stelle michelin alle semplici trattorie lavorano, incessantemente. il sushi è a due passi, come il kebab, la pizza e i tortelli estensi. cucina, suoni, persone. che riconosco, saluto, e rispetto. non so, forse vivo in un’isola incantata. ma la gente è gente, e i loro colori, odori, sorrisi riempiono la mia vita, faticosa come quelle di tutti. in questo centro storico così caldo d’estate, così vivo tutto l’anno.

piangete

 

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recentemente ho ripreso a leggere. leggere per davvero, come facevo quando ero adolescente o giù di lì. questo ha coinciso con una grande crisi. la strada segna questa specie di rinascita. è un romanzo che dovrebbero leggere tutti coloro che hanno a cuore certe cose che rimangono lì, nella nostra mente, sedimentate, e che lo scorrere del nostro sangue, la morte e la rinascita delle nostre cellule, la disintegrazione dei nostri neuroni , lo scandire della nostra vita, tendono a seppellire. ma il fuoco cova sempre sotto le ceneri del tran tran. dovete leggere questo romanzo, e dovete piangere su quel mondo grigio e senza speranza attraversato dal padre e dal bambino che porta con sè il fuoco. per rinascere, pensare ed essere consapevoli. del male, del bene, della vita. piangete, dunque, senza vergogna. perché siamo una dannata razza vivente di grandi abissi e di grandi cime.

5 sport: nuoto

dedicato a federica pellegrini e alessia filippi
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che strana settimana. in ferie senza esserlo veramente. e così, mi compro un paio di occhialini e vado in piscina. ci vado in bici, col caldo che mi spezza il fiato alle 5 del pomeriggio. la vasca è schiacciata tra ferrovia, strade infuocate, grigi palazzoni che emanano calore e vite soffocate, sotto lo stadio del calcio imbecille.  a quell’ora, la gente incomincia ad andare via dal praticello, ragazzini costretti a restare in città, in attesa delle vacanze dei genitori, famigliole di immigrati russi, messicani, marocchini che in vacanza non ci vanno mai. ma la vasca è di 50 metri, olimpionica, il suo azzurro porta sollievo soltanto a vederlo. e a nuotare, io non sono poi male. faccio le mie vasche in corsia, una dietro l’altra, stile libero e rana sono i miei favoriti, delfino e dorso li so, ma non ho confidenza con loro. guardo i cronometri a quattro lancette, inutili, i miei tempi di (quasi) cinquantenne fuori dalla loro portata. 5, 10, 20 vasche di respiri bagnati, il nuoto è regolarità, precisione nei movimenti, dedizione. la fatica è diversa, con l’acqua sembra più leggera. allevia il dolore delle vite, come nel film blu di kieslowski, dove juliette binoche nuota incessantemente per ricostruirsi e dimenticare.
alle sei e mezza arrivano i nuotatori veri. ragazzi e ragazze dal corpo splendido, si sciolgono, scherzano, leggeri come la loro età. i loro muscoli già pronti guizzano, e l’acqua incomincia a scrosciare, incessantemente, sotto i colpi di braccia e gambe, all’ombra della strana torre con l’orologio fermo. li osservo mentre mi asciugo al sole che incomincia a morire, appoggiato alla balaustra. li guardo nei loro gesti ripetuti, nei tuffi di partenza. gli schizzi d’acqua azzurra, le onde in corsia. dedizione, umiltà, regolarità portano a corpi scolpiti ingioiellati d’acqua, scintille riflesse del sole che sente l’odore del tramonto estivo.

closer

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natalie si spoglia. julia parla sboccato. clive e jude fanno gli uomini, niente mi ricordo di loro. si intrecciano, si feriscono, si amano, si scopano, si scambiano, si intrecciano di nuovo. poi (prima?), natalie guarda dalla parte sbagliata quando attraversa, e viene investita. a londra. diretti da nichols, conoscenza carnale e laureato. london. city of light. città dell’amore grigio, del tormento e della felicità. ricordo il film, e ci penso su. mi scappa da ridere. non è così? un po’, sì. e mettiamo il pezzo giusto.


no direction home (known)

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no, aspetta, ce n’è un’altra che adoro.

when I leave this world (sure, mate…)

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wow

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nanoparticelle di nichel. aggregate in struttura frattale (forse? chi sa?). le loro dimensioni sono di una decina di miliardesimi di metro. le ho fatte io. wow. this is nerd art.

what about cherries

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le tiri, una dietro l’altra. le assapori, le mangi con le mani, dall’alto. dal gambo in giù. il dolce, la durezza (duroni, no?), il rosso che ti macchia la camicia e il cuore. indelebile, incontrovertibile, senza compromessi. il nocciolo lo sputi, sul piatto, per terra. dura parte delle nostre vite così aspre. amarognole. niente ciliegie senza noccioli. non romperti i denti,  non come me li sono rotti io. giugno è andato, ultimi duroni. ultime ciliegie. davanti il sole troppo forte. red is your colour. forever. soon I’m gone, for you. too soon, for me.


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skeletons

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c’è ancora tempo? ancora? uncle john suona ancora il suo violino? voglio sempre credere di sì. voglio sempre credere agli arcobaleni sui deserti. e al surf sulle onde blu dell’amore. gli scheletri nell’armadio diventeranno polvere. e noi sopravviveremo, respirando l’aria del golden gate.

 

It’s the same story the crow told me;
it’s the only one he know.
Like the morning sun you come
and like the wind you go.
Ain’t no time to hate,
barely time to wait,
Whoa-oh, what I want to know,
where does the time go?

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spirals

spirali di foglie colorate, verdi, rosse, gialle, avvolgono noi spazzini della memoria, in una limpida e fredda giornata autunnale. le canzoni ci girano intorno, mentre cerchiamo di mettere ordine nei nostri pensieri e nelle sensazioni, loro subdole amanti.  chet baker suonò davanti a me al quasimodo, west berlin, vent’anni fa. non lo conoscevo bene, il suo “magic touch” forse stava svanendo. chet, il tormento è il prezzo del dono, il contrappasso del volere essere, del volere sentire? lo chiedo a te, mentre riascolto il tuo assolo che piove dall’alto in una british song, che parla di prezzi e guadagni di una guerra, cantata da elvis costello e robert wyatt, tanto, tanto tempo fa. cos’è che ci fa tendere alla vera vita, e ce la nega negli accidenti quotidiani, ripetuti all’infinito, apparentemente diversi, menzogne autopropagantesi, gocce di pioggia che scavano nelle rocce friabili del nostro essere?  cos’è che ci fa sentire peccato in ciò che peccato non è? eppure, eppure le spirali girano senza sosta, i colori continuano a sorriderci, nella stessa canzone, suonata dagli afterhours, in un altro pianeta, davanti a un altro io. perché il fine è l’essere, e l’essere cessa solo in reazioni chimiche, troppo caotiche da comprendere. getto a terra la scopa, e mi faccio avvolgere dai colori.

london calling (in memory of ballard)

 

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amo la visionarietà di J.G. Ballard. dentro le sue righe fantastiche c’è sempre qualcosa del reale che ci sfugge, ma  è lì. è nel nostro mondo che diventa sempre più la ruota del millennio, un london eye schizzato di sangue, angosce, contrasto e slancio. nei nostri occhi ipermetropi, in questo caso, è la disperazione della classe media brit-world, che sotto il dolce cielo suburbano affonda, moralmente e economicamente, soffocata dalle guantate mani dell’avidità. avidità di oggetti e di finte esperienze tipiche dell’età cosiddetta moderna. speranza di un nuovo 68 rovesciato, composto da famigliole ex-agiate, e cupezza di un nuovo terrorismo, edonismo distorto. l’apocalisse è solo rimandata, darling. oppure è qui, ma non è come la pensi tu.

 

parole, pietre, luci

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nel 2004, khaled fouad allam sentì l’urgenza di scrivere al giovane qualsiasi dell’altro mondo. quello che noi vedevamo in film sgranati ripresi in dimensioni diverse, con la bandana in testa, el kalash imbracciato e le granate legate al corpo, già innescate. innescate da chi? khaled lo implora, i libri antichi aperti sulle pagine di vita e memorie della storia che noi non conosciamo. lo implora di pensare. il pensiero deve sciogliere quei grumi incancreniti, quel ghiaccio doloroso che noi abbiamo contribuito a solidificare in un male cristallizzato. il nostro mondo dell’ovest gira su se stesso ed espelle l’est, il sud, e forse il nord, dimenticando che ciò che espelle è quasi tutto. la preghiera di khaled è apparentemente inascoltata, credo. e l’oblio delle notizie che si divorano continuamente non ci fa accorgere che il giovane col kalash in mano è ancora lì. ma le parole scritte sono pietre, e scavano nella nostra e nella sua incoscienza. quel grumo si scioglierà, e un altro cristallizzerà. le pietre dei libri però rimangono, e illuminano la notte di una luce tenue, che possiamo inseguire.

gli anelli di roberto

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roberto agita le mani, mentre descrive quella-una-la realtà. gli anelli sulle sue dita ruotano, occhi infossati e calvizie precoce su una giacca nera, morbido accento di napoli, città dai colori splendidi e feroci: realtà. quando io vidi il film tratto dal suo libro (ma è un libro?) mi dissi: è un altro mondo. lontano dai motori, dalla tecnologia, dalla scienza della terra della mia umanità. ma lui mi dice, non è altro,  è qui, con te, parte di te. rifletto su questa “cosa” sfuggente, realtà, che ti fa dire: ehi, sono qua. questo è il mio occhio, la mia mano, il mio sangue, le mie cellule. e questo grave cade, questo atomo emette radiazione, questa reazione chimica è amore e questa invece è dolore. ma vedi, ci sono i fili visibili e invisibili che portano dalla causa alla complessità-caos, dalle foto di omicidi e di carabinieri e di preti sorridenti  morti ammazzati, che vedi dalla tua poltrona davanti agli schermi TV-LCD, a te, al tuo stato comfortably numb:  esistono, sono imprescindibili, ineffabili, indistruttibili. realtà presenti come città invisibili, fino a quando roberto-marco polo non te li fa vedere. nessuno è escluso, neuroni che gridano: “responsabilità, diritto alla felicità!”. e la felicità è un diritto, scandito e dimenticato in cicli di sangue dalla costituzione dell’ultimo impero, 1776. niente di imprescindibile, niente di avulso, niente che possa essere dimenticato. sei miliardi di entità che calpestano una sfera azzurra, in un sistema solare periferico, su un braccio della galassia detta via lattea, respirano agognano, vivono e muoiono per questo. QUESTO. gli anelli di roberto girano, intorno a ciò che viene detto responsabilità. e mentre i quattro carabinieri  lo portano in salvo, alla fine della trasmissione-ricezione, il respiro si fa leggero, nell’atroce dubbio della consapevolezza. male è male, bene è felicità.


chi sta zitto, mente.

frequency

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in rari, fortuiti casi ci si mette in contatto con qualcuno per telefono, radio, internet. non importa se lo conosceremo o lo conosciamo. forse non lo vedremo mai. ma lui, o lei, cambiano la nostra vita irreversibilmente. la freccia del tempo non è così lineare, non si muove lungo una retta. il tempo stesso, in questi casi, cambia, viene distorto. e la nostra pelle ne esce con un marchio. penso  a lui, al tempo, con un sorriso lieve. e a quella treccia che vi è avvolta intorno, la nostra vita. si attorciglia, si aggroviglia, si interrompe e continua, come un’edera avvinghiata ad un ramo, che beve  il dolceamaro nutrimento di coscienza e sentimenti. ma il ramo non è diritto, anche se noi pensiamo che punti verso un alto, un cielo pieno di galassie altere e inarrivabili. e la freccia non si ricongiunge mai con la sua origine. non può. spiraleggia, piuttosto, e quando questo incontro finisce, non ritorniamo mai come eravamo. l’illusione consolatoria di essere come prima, di ritornare alla coda del dolore e della felicità dopo gli accidenti e gli amori è fuorviante, distoglie gli occhi dalla vera essenza. si continua in qualcosa che sembra lo stesso di sempre ma non è più. ed è questo lo scrigno traboccante di gioielli, la pentola d’oro alla fine dell’arcobaleno che forse troveremo, un giorno. sulla riva sola dove si rovescia il mare.

frequency, il futuro è in ascolto. visto poco fa.

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oz

 

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aspetto il tuo bacio  con le mani unite e la testa inclinata su un lato. dorothy  senza trecce, occhi blu kansas sky e fianchi larghi di tre figli. mentre sparecchi la tavola del party di natale, cantando qualcosa nella tua testa. forse i lampi ritornano ogni tanto, e la strega dell’ovest agita ancora le calze a righe sotto la casa.  il leone ha messo su barba e occhiali, ma ha ritrovato il cuore, e mi ha mormorato di andare a oz, mentre ero preso dalla solita chiamata senza fili. le quattro stagioni tornano da me in un giorno, proprio come sentii a hmv, la prima volta, sotto l’ombra del liver bird.  oz è  lontana solo due occhi chiusi e un tocco, una mano sfiorata sotto il vischio. di un natale alieno, forse  non è nemmeno tuo. scommetterei il mio bracciale celtico che la strada di polvere passa  vicino al tuo desiderio di fine anno, e che vuoi ancora il tornado. ricevo il tuo bacio sulla guancia, e mi allontano dentro il grigio, cercando di scorgere davanti a me il deserto rosso acido.

 

 

 

5 sport: judo

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sai, mae’,
riesco ancora a fare la verticale. non la tengo, ma salgo coi piedi in aria e le gambe dritte. le ruote e le cadute in avanti non sono un problema. la cinta mi sta stretta, ma “er kinolo” (che qui chiamano correttamente judoji) è sempre largo. e quando la maestra, sguardo duro e presa tosta, mi mostra le tecniche e mi dice i nomi, è come un lungo tunnel illuminato, che mi riporta allo scantinato di tormarancio, con gli ideogrammi giapponesi e le vignette in romanesco. in ginocchio, ci si inchina e si fa il rei, alla fine della lezione si applaude, come sempre e in ogni scantinato, nell’odore dei corpi stanchi. ti asciugavi il sudore in faccia con la mano aperta, e ogni suggerimento, ogni presa, ogni movimento circolare con piedi, mani, bacino e anima (se c’è) mi è entrata sottopelle. le tue perle sono lì, brillano nei miei neuroni. muovermi sul tatami, con te accanto, in un’altra dimensione, è così facile. è sospetto. non ho ripreso a combattere, chissà se lo farò. niente più palazzetto nervi, ma se prenderò la nera (ed è ancora possibile) la bacerò, e la mostrerò in alto. mi sono tatuato il judo addosso, più del sole che mi hanno scritto la scorsa estate. risplende, nel viso di jigoro kano, il sole d’inverno sul ramo di abete che si piega, e fa scivolare la neve a terra. come dicevate tu e lui.
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di più

Potevo sentire allora
Che non vi era modo di sapere
Foglie cadute nella notte
Chi può dire dove volano
Libere come il vento
E imparando, si spera,
Perché la marea
Non ha nessun modo di tornare indietro
Più di questo – non vi è niente
Più di questo – dimmi una cosa
Più di questo – non vi è niente
E’ stato divertente, per un po’
Non vi era modo di sapere
Come il sogno nella notte
Chi può dire dove andiamo
Non importa al mondo
Forse sto imparando
Perché la marea
Non ha nessun modo di tornare indietro
Più di questo – non vi è niente
Più di questo – dimmi una cosa
Più di questo – non vi è niente

quattro

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quattro anni fa incominciai a scrivere sul blog. l’immagine non è certo per celebrare questo anniversario, che non interessa a nessuno, nemmeno a me. eppure mi sento di scrivere qualcosa, mi sforzo, e mi interrogo, come quando la spinta della noia  mi fece digitare due righe, allora, in un laboratorio pieno di rumori elettronici e meccanici.
 
di tutto il disastro di mumbai, di questo episodio fuori dal mondo cerebrale che mi costruisco continuamente, mi hanno colpito gli uccelli (corvi?) che volano intorno alle fiamme dell’hotel. come se fosse una natura,  un universo ferino, predatore senza colpa, senza rispetto e al tempo stesso sanguinosamente innocente. indifferente alle storie singole di morti e violenze irragionevoli che passano come treni orrorifici nella notte buia e silenziosa. c’è la luce, la fiamma della ragione in tutto ciò? è la torcia portata dal padre dello sceriffo, nel sogno finale di non è un paese per vecchi. credo sia così. i fiori durano poco. il loro profumo rimane nelle  nostre narici, e per un bizzarro processo chimico si trasforma in memoria. che ci fa sopravvivere nel treno, se possiamo, o mentre lo guardiamo sferragliare dalla banchina della stazione solitaria di frontiera, durante l’attesa che è la nostra vita.   

because, it’s you

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sì, il tempo si ferma, qualche volta. solo qualche volta. sdraiato sul divano, la nebbia del tabacco di ieri. domani mattina i cani freddi in cravatta regimental morderanno di nuovo. ma ORA, ORA, sembra che cadano narcisi, lentamente. come neve su colori di film dei 60, le attrici con quegli occhi blu che incendiano l’innocenza, senza snaturarla. scommettiamo che quest’anno la primavera arriva in anticipo?

wave (dedicato all’Onda)

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loro (io?) scrivono la canzone del maggio di de andré sulla stoffa strappata. loro (io?) vedono l’arcobaleno. loro (io?) camminano su marmi antichi, arrivati fin qui nella linea spazio-tempo. loro (io) sono tatuati. e noi sentiamo questo, a palla dal furgoncino bianco:
 
 
We’ll be singing
When we’re winning
We’ll be singing

I get knocked down
But I get up again
You’re never going to
Keep me down

Pissing the night away
Pissing the night away

He drinks a whisky drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that
Remind him
Of the good times
He sings the songs that
Remind him
Of the better times:

Oh danny boy
Danny boy
Danny boy…

I get knocked down
But I get up again
You’re never going to
Keep me down

Pissing the night away
Pissing the night away

He drinks a whisky drink
He drinks a vodka drink
He drinks a lager drink
He drinks a cider drink
He sings the songs that
Remind him
Of the good times
He sings the songs that
Remind him
Of the better times:

Don’t cry for me
Next door neighbour…

I get knocked down
But I get up again
You’re never going to
Keep me down

We’ll be singing
When we’re winning
We’ll be singing

 
 
 
 
 
 

cincinnato

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Personaggio romano dei primordi della Repubblica, famoso per la semplicità e l’austerità dei costumi (V sec. a.C.). (Il nome deriva dal latino cincinnus e significa riccioluto.)

Le vicende della sua vita furono tramandate in una luce di leggenda: nel 460 a.C. egli avrebbe ricevuto la nomina a console portatagli dai littori mentre come modesto contadino arava il suo campicello; eletto dittatore nel 458 per soccorrere il console Minucio assediato dagli Equi, dopo avere sbaragliato i nemici e riportato il trionfo, a sedici giorni dalla nomina rinunciò alla carica per ritornare alla semplice vita di campagna.

ovviamente non fu così. ma a me piace pensare che la vita sia leggenda. a me piace credere che fu come la mia maestra rita, bellissima, me lo spiegò. non so se sono morale, come mi è stato scritto. di sicuro vorrei esserlo. e mostrare il mio tatuaggio alla brezza, spogliato della toga, nel tramonto di marzo della via appia. solo.

 

più duri sono…

 

 

come è certo che splende il sole
mi prenderò quel che è mio
più sono duri
più forte cadono
tutti quanti
più sono duri
più forte cadono
tutti quanti

non crediate che la vostra vita sia di qualcun altro. non crediate che il gioco sia sempre truccato per i più forti, i più ricchi, i più belli. non è vero. semplice. basta aprire gli occhi. basta spegnere gli schermi. basta guardare. il re è nudo, ma non se ne accorge. vidi questo film trent’anni fa. e oggi, PROPRIO OGGI, l’ho ricordato. sun on u.

time to go to the tatami, practising the art of judo. ain’t it, mate?

se brucia non muori

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Adàgiati sul divano
    al fuoco freddo blu
        il braccio steso
            sullo schienale
        riflessi del globo
    che dalla stazione
spaziale
    internazionale
        sembra un miracolo
    e dentro
                               DENTRO
    brucia
di rivolte non sopite
    braci che aspettano
                               BENZINA
    per divampare
dietro il sorriso

    dell’anchorman d’argento
                               BRUCIA
se brucia non muori.
 

lonely albert

Albert Einstein pubblicò la teoria della Relatività Ristretta nel 1905, a 26 anni. A 36, nel 1915, pubblicò la teoria della Relatività Generale. Ricevette però il premio Nobel nel  1921 per un altro suo contributo alla scienza, e cioé per l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico. Le cellule fotoelettriche sono presenti in molti dispositivi di uso corrente. La luce colpisce un certo materiale, e si genera una corrente elettrica. La spiegazione di questo effetto risiede nella fisica quantistica. La luce è composta da corpuscoli detti fotoni, che hanno una determinata energia, legata alla frequenza (cioè al colore) della luce stessa. La fisica quantistica dà una visione del mondo completamente diversa da quella deterministica, diciamo così, della fisica classica, ed è basata sull’indeterminazione, e sulla probabilità. Non si può mai prevedere in modo assolutamente esatto come evolverà un certo fenomeno. Se ne può solo calcolare la probabilità. Einstein contribuì a questa nuova visione del mondo, con il suo lavoro sull’effetto fotoelettrico, ma ne rifiutò le conseguenze filosofiche. Sua è la celebre frase “Dio non gioca a dadi”, e spese gli ultimi vent’anni della sua vita per trovare una teoria più completa di carattere deterministico. Una teoria del tutto, bella come potevano essere quelle relativistiche. Ma Einstein fallì in questo suo sforzo epico. La fisica quantistica funziona, eccome.  La scienza, la tecnologia e l’industria l’hanno accettata per quello che è, e la applicano felicemente. I nostri dispositivi elettronici (PC, televisioni, gameboy etc.) ne sono la testimonianza più concreta. Certe volte ci si convince che il mondo, che le persone non possano andare in una certa direzione. Ma loro ci vanno, e non c’è niente da fare, tutto funziona lo stesso. Si rimane seduti, a contemplare quella che dovrebbe essere una catastrofe, e non lo è. Non ci resta che sorridere, e magari suonare il violino, come faceva Albert, anche se una coda del grande dolore che abbiamo provato rimane sempre. Ma l’abbraccio, l’amore per noi stessi e per chi prende strade diverse non deve mai mancare. O forse basta il semplice fair play.

 

 

mersey beat

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dall’alto del secondo piano del double deck vedo una ragazza caraibica fasciata in un costume rosso, le ali d’angelo sulle spalle.  cammina per Katherine Street, nella sera ancora lucente. altre persone,  bionde nere asiatiche  si dirigono da qualche parte, vestite di colori  così distanti dai dintorni. scendo incuriosito. e sento i tamburi.  il battito del cuore di una città che si dimentica di essere nordovest e vuole pulsare e vivere in mondi diversi.  un carnevale brasiliano la inonda, la permea e la seduce. tra i muri di mattoni rosso scuro,  tra i pub dalle luci gialle sotto il cielo limpido, sfilano le lingue e i colori di un acquario tropicale. mentre il tuono ritmico dei tamburi delle scuole di samba rimbalza tra i draghi dorati  della porta di chinatown. noi non siamo di nessun posto, come l’aria di questo sabato d’agosto del mersey beat.

la strada per anfield

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Hi everyone, welcome to the casbah. We are the Beatles, and tonight we are going to play some rock’n’roll.
 
chiedo alla conducente se l’autobus 17 va ad anfield road. yes love, mi risponde. salgo sorridendo, è un po’ che non mi chiamavano così. love. le strade che percorro sono ancora le stesse. forse sono un po’ peggiorate, rispetto a quando il rock’n’roll mise gli occhi azzurri e cambiò accento. ragazzine somale in tunica si affacciano dal negozio di muslim goods a lodge lane, accanto al bingo house. asiatici, caraibici, arabi ed inglesi sulle strade desolate, le case a schiera di edge lane con le  assi dipinte su porte e finestre. e lo stadio è dentro il quartiere, sembra povero come gli edifici che lo circondano. this is anfield. we are the beatles, rock’n’roll dagli occhi azzurri. terre di nessuno piene di vento. liverpool è piena di spazio vuoto. grigio che vira verso il blu dei lunghi pomeriggi estivi nei parchi sporchi e ancora splendidi. i cieli suburbani rimpiazzano la frontiera ed i gialli campi sconfinati oltreoceano. il nero diventa bianco, ma una certa fame è sempre la stessa.
 

 

 
 

grande sole duro

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sembra un bar nuovo. san lorenzo piena di graffiti cani e loro merde macchine muri scrostati marciapiedi sconnessi. i vecchi giovani der mejo si incontrano alle otto di sera mentre siedo al tavolo, esausto dall’ultima sessione del congresso.  uno suona la fisarmonica. l’ultimo di loro arriva in scooterone da fregene o fiumicino, brillantino all’orecchio con i radi capelli grigi, corredo alla faccia gonfia. ce manca ‘na cantante, dice alla ragazza che passa di fretta. i tavolini si riempiono, una donna in canotta nera mi chiede una sigaretta. la fisarmonica è quella dei 50, il film è quello di fellini. mentre il grande sole duro ha smesso di battere, solo per stasera.

i due serpenti macchine scorrono uno accanto all’altro, stessa direzione verso opposto. gli occhi bianchi e la coda rossa. li vedi e ne sei parte. verso il mare sulla cristocolombo, le colline così los angeles sono nere. i pini della strada sembrano palme, quando è buio. ma i pozzi di petrolio sopra sepulveda blvd non sono questi vermi di cemento in posizione  eretta.

cornacchia a castro pretorio a mezzogiorno, la vedo solo un attimo. il grande sole duro batte, sulla grande gente nella grande dura roma.  vado verso nord, cercando di ricordare che questa è casa mia. così bianca d’estate da ferire gli occhi.

there’s a big
a big hard sun
beating on the big people
in the big hard world
 

tattoo

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il ragazzo si avvicina con la macchina degli aghi. non voglio vedere, dico, un po’ per scherzo, un po’ sul serio. lui si mette a ridere, incomincia. non posso vedere, in realtà: è sulla spalla destra. sento il calore, quel piccolo dolore così insistente, il rumore elettrico che copre la musica. sudo dalle ascelle, chiacchieriamo del più e del meno. il rumore insiste, il cerchio prima, poi i raggi, sono dodici. li conto. dovrebbero essere simmetrici, ma uno è stato invertito. colpa dei miei innumerevoli nei, da evitare nel disegno. le simmetrie rotte, in realtà, sono importanti, nella fisica. grazie a loro, alle simmetrie che non ci sono più, esistiamo e respiriamo. è una cerimonia, difficile descriverla. forse è proprio l’atto che ha importanza, più del risultato, che si può vedere solo in alcune particolari circostanze. nascosto dai vestiti, è lì. è mio. l’ho scelto io. e nessun altro. è stato bello farlo, bello soffrire. bello vederlo subito dopo. chi non lo fa, non lo capisce. e così è per gli scritti che leggo ogni giorno. parole senza volto, vite non vissute da me, ma così pulsanti, presenti, nel mio caffè davanti ai pixel luminosi. nina, aka, noti, honey, judith, les, sette, lara, ana, daniel, egidio, angel, sismor, cleopa, jed, mari, bill, limi, zoe, fenila, tigra, divago… quanto ho imparato, da voi? chi non lo fa, non lo capisce. 

 

Bye bye, Larry

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David Bowie- The man who sold the world
 
Larry Fleinhardt è un fisico, coprotagonista del telefilm poliziesco “Numb3rs”, dove il matematico Charles Eppes aiuta suo fratello Don, agente FBI, nella lotta contro il crimine. Larry è amico di entrambi, e qualche volta si unisce a loro. Usano teorie scientifiche per risolvere i casi. Le teorie esposte, beh, sono vere, anche se applicate spesso in maniera, diciamo così, eterodossa. Larry è il fisico come se lo immagina la gente: distratto, intelligentissimo, eccentrico. E, poiché è dalla parte dei buoni, è mite, gentile e timido. Non ha una vera casa, e dorme nel suo Dipartimento, di nascosto, in un vano caldaie. Un mio collega, durante un periodo di lavoro particolarmente intenso, si portò il sacco a pelo in ufficio, fin quando non fu pizzicato e rimproverato duramente dal direttore. Un altro dormì in laboratorio, mentre cercava casa. Mi disse che non era mai stato così bene come in quel bivacco. Scommetto che Larry mette su i calzini spaiati. Io li metto, ogni tanto, ed un famoso teorema  di Fisica Matematica veniva spiegato dal suo scopritore proprio citando un altro professore che indossava calze di colore diverso. Presto Larry partirà per una missione spaziale, a bordo dello shuttle, a compiere strani esperimenti nella stazione orbitante. Ha un amore, ma relazionarsi con l’altro sesso è così dannatamente difficile, vero Larry? Meglio fuggire nello spazio. Parla spesso per metafore apparentemente strampalate, incomprensibili alla maggior parte dei telespettatori, immagino, ma non a me, che sono del campo. Larry corre in modo buffo, mentre si allena per la visita medica di abilitazione al volo, e siccome è un telefilm, ce la farà. Cita le superstringhe, la cosmologia relativistica, il caos, Feynman (ne ho già scritto, di lui) che suona le congas. Larry forse scomparirà dal telefilm, comunque temo che si assenterà per un po’ di puntate. Ciao, Larry, a presto. Cura la tua cosiddetta anima, so che ne hai bisogno. E mentre vedi il pianeta azzurro dall’alto, non pensare troppo a ciò che ci cammina sopra. 
 
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We passed upon the stair, we spoke of was and when
Although I wasn’t there, he said I was his friend
Which came as some surprise I spoke into his eyes
I thought you died alone, a long long time ago

Oh no, not me
I never lost control
You’re face to face
With the Man Who Sold The World

I laughed and shook his hand, and made my way back home
I searched for form and land, for years and years I roamed
I gazed a gazely stare at all the millions here
We must have died alone, a long long time ago

Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the Man who Sold the World

Who knows? not me
We never lost control
You’re face to face
With the Man who Sold the World

seven colours: violet

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neil young-my my hey hey

400 nanometri. questa è la lunghezza d’onda della luce corrispondente al viola, che noi vediamo quando i raggi luminosi penetrano nella pupilla e vengono focalizzati dal cristallino sulla retina, dentro il nostro occhio. è il minimo di lunghezza d’onda percepibile dalla visione umana, così come il massimo corrisponde al colore rosso. ma oltre, oltre c’è un mondo. un mondo invisibile, sfuggente, riusciamo a vederlo solo attraverso altri strumenti: rivelatori, principalmente, il cui principio di funzionamento  sfugge ai più. ho utilizzato un tipo di luce emessa da una particolare macchina, che si chiama sincrotrone, comprendente tutti i colori, visibili e non visibili, anche l’ultravioletto e i raggi X. quando esce dalla macchina, questa luce può avere un colore dominante che vira verso il viola, o blu. una volta la vidi direttamente, con alcune precauzioni, perché pericolosa. questo “oltre”, che ho visto o utilizzato, e che permette di ottenere risultati bellissimi nel mio campo, non è granché. c’è un “oltre”, negli atteggiamenti, nel comportamento e in quelle particolari reazioni chimiche, dette sentimenti, che non capirò mai. troppo complicato. e purtroppo, non mi rassegno ad accettare questo semplice dato di fatto. forse riusciremo, riusciremo ad aprire certe porte e a comprendere certi meccanismi. ma anche se sappiamo, grazie a Newton, perché cade una mela, questa continuerà a cadere, inevitabilmente. l’unica cosa da fare è evitarla mentre cade, raccoglierla e mangiarla.

There’s more to the picture
Than meets the eye.
 

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la luce bianca è scomponibile in sette colori: rosso arancio giallo verde blu indaco violetto. corrispondono a diverse lunghezze d’onda.

 

seven colours: orange

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quanto manca alla chiusura degli impianti. quanto. c’è ancora tempo per risalire sul boè,  su piz la jla, su porta vescovo, sulla marmolada e scendere, nel sole arancio, con la brezza della primavera che piano piano si trasforma in lupo che ti morde sulla faccia. addio nell’ultima pista. la neve un po’ sfatta, nessuno intorno e dentro. questi sci carving fanno miracoli, giri come niente e ti senti stenmark, anche se è solo un’illusione di consumo. basta un pezzo ghiacciato, una cunetta un po’ alta, un cumulo di neve stanca e lì ti disunisci, ti pianti, sbuffi, perdi il ritmo. sorridi stretto, devi tenerli uniti, ‘sti cazzo di sci, devi curvare bene, devi piegare le gambe. anche se alle montagne rosa non frega niente. perché l’ultima deve essere come la prima, come sempre. negli occhi, le lacrime di freddo. sulla testa arriveranno stelle.
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seven colours: yellow

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la sabbia scotta sotto i piedini, vero? dove sono i tuoi braccioli? aspetta sotto l’ombrellone, va a prenderli papà. adesso metti le ciabattine fino al bagnasciuga. bella sei, con quei capelli così lunghi, non te li hanno mai tagliati da quando sei nata, e come sei diventata bionda, con tutto il sole che hai preso. fai il bagno con il tuo amichetto, ti aspetta lì, tende le mani verso di te. non litigate più, non fate come ieri. e non allontanatevi troppo.

stai lì, in piedi, vicino alle biciclette. aspetti, aspetti che lui arrivi, come ogni mattina da quando sei venuta in vacanza. il bikini incomincia a starti un po’ stretto, è dell’anno scorso, la mamma te ne ha promesso uno nuovo, quello coi fiori gialli, l’hai visto nel negozio al viale. oggi forse viene, te l’ha promesso l’anno scorso, prima di salutarti con un bacio sulla guancia. le amiche di ogni estate sono al muretto, mangiano un gelato e ridono di niente. qualcosa ti allontana, qualcosa che non sai. oggi pomeriggio leggerai quel libro, te l’hanno consigliato a scuola. ti ha preso subito, è la strana storia di una donna russa e di un Maestro che viene dal nulla. lei si chiama margherita, come te.

oggi l’hai visto, al bar, ti ha fatto ciao con la mano, e poi si è girato a parlare con una tipa bruna che non avevi mai notato prima. domani riparti, vai in sardegna col tuo nuovo ragazzo, ti sei tatuata una stella, sulla schiena, per lui. o per te?
un piccolo crack, è quella fessura mai colmata, e dentro ci sono gli occhi bruni di chi  non è più venuto, mentre tu hai imparato a volare con la scopa, sulle città addormentate e sopra il mare nero.

seven colours: green

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ivan klasnic è entrato alla fine del secondo tempo supplementare. ivan deve avere pensato agli ultimi due anni ed ai trapianti di rene subiti nel gennaio duemilasette, che potevano mettere fine alla sua carriera di calciatore nella bundesliga e di nazionale croato. i due reni sono stati donati dalla madre e dal padre. quello della madre è stato rigettato. ivan è nato ad amburgo, da genitori bosniaci di etnia croata. poteva scegliere tra tre nazionali, ha optato per  quella con gli scacchi bianchi e rossi. era già entrato in questo campionato, contro la polonia, e aveva segnato un gol. quando la sostituzione è stata annunciata, lo stadio è esploso. e lui ha segnato di nuovo, al centodiciannovesimo minuto, uno alla fine. solo uno più il recupero, e la croazia era in semifinale. ma non finisce. non ancora. negli ultimi secondi, semih sentürk ha pareggiato per la turchia. è finita ai rigori, con i turchi galvanizzati ed i croati a pezzi. turchia dentro, croazia fuori. ivan ha vinto e perso in cinque minuti, o poco più. su un verde smeraldo illuminato da luci artificiali, nel clamore elettronico dei nostri sciocchi tempi.

seven colours: red

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e ora vorrei dire
che la gente può cambiare qualsiasi cosa se vuole, e intendo qualsiasi cosa al mondo. la gente corre, segue i suoi piccoli binari. io sono uno di loro.  ma dobbiamo smettere di seguire i nostri miseri binari. la gente può fare qualsiasi cosa. è una cosa che sto iniziando ad imparare.
la gente là fuori si fa del male a vicenda. è perché è stata disumanizzata.
è ora di riportare al centro l’umanità e di seguirla per un po’. l’avidità non porta da nessuna parte. dovrebbero scriverlo su un grande cartellone a times square. senza gli altri non siamo niente.

questo è quello che penso.
 
joe strummer 
 

 

seven colours: blue

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kata guruma in giapponese significa rotazione sulle spalle, ed è uno dei colpi più spettacolari del judo. presuppone che l’avversario si sbilanci in avanti, lo si carica sulle  spalle e lo si proietta facendogli compiere una rotazione su se stesso. la tecnica deve essere eseguita col minimo sforzo possibile, bisogna stendere le braccia, che prendono rispettivamente  un braccio e una gamba di uke (l’avversario). è molto difficile durante un combattimento, ma non impossibile da eseguire. come tutte le tecniche del judo, l’importante è cogliere l’attimo, il momento in cui uke  ha un punto debole nel suo equilibrio, ed eseguire alla perfezione i movimenti. le rotazioni, i movimenti circolari sono importantissimi in questa arte marziale. dal punto di vista fisico, fare compiere rotazioni ad un corpo intorno al suo baricentro costa molto meno sforzo  che spingere o tirare. è una conseguenza semplice delle leggi della meccanica, sulla quale si basa anche il funzionamento delle leve, delle pulegge, delle ruote e via andare. l’esecuzione di una tecnica in judo presuppone concentrazione, colpo d’occhio, e disciplina. sì, disciplina. interiore, soprattutto. nella pratica, nella pazienza delle ripetizioni durante l’allenamento, nel rispetto di sè e dell’avversario. do (seconda parola di judo) vuol dire via, ma anche arte. il mio vecchio maestro era proprietario di una palestra in una borgata, piena di problemi come potevano essere certe zone di roma negli anni ’70. microcriminalità, violenza e povertà (più morale che materiale) impregnavano un’aria plumbea, sotto un cielo mite. e lui, oltre ad insegnare judo, dipingeva. proprio come yves klein, artista totale degli anni ’50 e cintura nera quarto dan, ritratto in questa foto mentre esegue il kata guruma. il blu di yves klein è forse il colore migliore, misto di purezza e nostalgia per rappresentare le mie sensazioni di fronte allo sport di tanti anni, in cui non ho mai eccelso, ma che rimane come punto cardine nella mia educazione e nella mia attitudine alla vita.
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la luce di pablo

 
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la prima volta che vidi questa fotografia fu durante il liceo, sul mio libro di fisica. magnetica, come lui lo era. Gjon Mili, un fotografo di Life, esperto in questo genere di trucchi, la prese nello studio del GENIO in costa azzurra.  non me la sono mai scordata, e l’ho anche citata in una delle mie lezioni, a studenti che sognano motori rivestiti di rosso con cavalli rampanti.  con mia grande sorpresa, uno di loro ha annuito, ricordandola.  luce, arte, traiettorie nello spazio. la luce è strumento del mio lavoro. sfrutto luce visibile, ultravioletti, raggi x, che illuminano la materia in modo diverso e ne interpreto le risposte, attraverso numeri, grafici, immagini. vedere picasso a torso nudo ed in sandali che la utilizza in modo così stupefacente è per me uno sprone. l’arte e la scienza non sono così lontani. e l’estetica impregna la fisica e la matematica. l’eleganza delle descrizioni dei fenomeni naturali ridotti all’osso,  attraverso formule ed equazioni che danno numeri, è della stessa classe del minotauro che pablo disegna al buio, con una lampadina o una candela. la luce investe le nostre menti, le nostre vite.
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la luce bianca è scomponibile in sette colori: rosso arancio giallo verde blu indaco violetto. corrispondono a diverse lunghezze d’onda.

the singular adventures of w-2

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non ho avuto una vita bohemienne, niente genio e sregolatezza. il metodo della mia professione impedisce gli eccessi.  eppure intensa, sì, fortunata, anche se la fortuna è definizione bastarda. e gli occhi ce li ho avuti, per vedere, non ho narcotizzato niente, non sono andato avanti guardando il marciapiede.  mentre la luce usciva dalle macchine,  mentre i numeri riempivano i  computer, e le ipotesi, le conclusioni, i risultati, cadevano come neve di natale. respiravo. e sentivo l’aria della rive droite intersecarsi con quella della rive gauche. in pochi mesi, catapultato tra i NATO boys, a prevedere il tempo e parlarne ai piloti  di caccia sgangherati nascosti, quasi, nel profondo nordest, e vedere la nightlife  di Ku’damn. le città mi sono entrate nella testa, nelle ossa, nella pompa del sangue. è una avventura singolare, educazione sentimentale. merci, dominique, occhi cerulei alsaziani, vissuti nei fuochi artificiali del 14 luglio. e grazie ai piloti NATO (no, non mi piace la guerra, ma voi eravate voi) di passaggio ad istrana, come uccelli migratori. grazie a quella ragazza di kiel conosciuta a wannsee, di cui ho scordato il nome. lo scrisse sulla sabbia, e la sabbia, si sa, dimentica. mai stato buono per i nomi, per le facce e per i numeri, sì.

Paris, Istrana, West Berlin, 1985-1987

changes of clothes and summer showers
like changing the guard it only lasts for hours,
wondering what and where did it go
crying over nothing worth crying for

homeward bound

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ad agosto ho un appuntamento con la mia storia personale. dovrò presentare i risultati del mio lavoro più recente ad un congresso internazionale. proprio qui. in un’aula dove ho imparato l’ABC della fisica quantistica. l’ho scoperto poco fa. sono anni che non vado più nella mia Alma Mater. e quindi, è un cerchio che si chiude. i clash non sono mai morti. qui mi dettero la cassetta di london calling. ho ancora i quaderni degli appunti di quei corsi. scritti con penne rosse, nere, blu, verdi. zeppi di formule, tutte conseguenti. da 1 a 2 a 3 etc. le logiche, i ragionamenti, i disegnini. e le battute pregne di quell’humour un po’ romano, un po’ anglosassone che permeava i discorsi degli studenti e dei (grandissimi) professori. trovo conforto in tutto ciò. nel momento forse più difficile della mia strana vita, piena di città e fatiche diverse, vado a casa. 
 
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nun c’è probblema

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no, nun c’è. fin quando si vedono partite come queste, tirate alla morte. fin quando Ronaldo salta in cielo, Lampard indomabile segna e dedica il goal alla madre morta poche settimane prima.  fin quando il battito del loro cuore, il respiro rotto ed il sudore  mi investe dallo schermo. sotto la pioggia come deve essere. sarà finto, ma ci voglio credere lo stesso. sono fatto così, e quando voglio bene a qualcosa o a qualcuno ci credo fino in fondo, e non smetto mai. in fondo, fino ai calci di rigore. e anche dopo. sun on u 

perdere

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la pioggia della domenica pomeriggio, i portici umidi sopra le persone a spasso. ho da prendere le sigarette della domenica sera. sconfitte da collezionare come piccole perle acuminate. i reds perdono la champions, i lupi  disfano scudetti, noi  smarriamo patrimoni arraffati da un clown ridanciano che acquista modelle e ne fa tribune. si perde più che si vince, sempre. è la logica del gioco, ma le esistenze sono traiettorie, curve senza interruzioni nello spazio tempo. è l’energia e la sua legge di conservazione, forse che determina le sconfitte? vivere, tutto sommato, non è una scommessa, mai, se lo si pensa, si ha già perso. in  autostrada, col sole rosso alle spalle, il mare avanti.  avanti, perché come nello sport, non ha mai senso girarsi indietro.
 
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senza, dopo

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nel giro di un anno avevano ripreso ad avvicinarsi. gli uccelli di cernobil erano scomparsi nella tempesta di fuoco quando era esploso il reattore numero 4.

orsi tibetani e altre specie in via d’estinzione ripopolano  la zona smilitarizzata tra corea del nord e corea del sud. pesci nuotano nelle acque dell’atollo johnston, già poligono nucleare e  inceneritore di armi chimiche. piante ricoprono villaggi e città abbandonate per catastrofi, o per scelta.  senza di noi, l’acqua scorre e si insinua nelle case deserte, mentre la vita ramifica, trasmuta, perde e vince incessantemente nel gioco dell’evoluzione.
senza. nei nostri momenti peggiori, nelle perdite, noi pensiamo al senza, ma non al dopo.
il dopo arriva inaspettato e suona il campanello, come un postino che ci porta un pacco regalo.  magari ci canta anche una canzone.

fuori dalla porta, il sole aspetta ancora a diventare una gigante rossa.

 

numeri

 

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undici numeri dopo molti mesi di calcoli al computer. li ho trovati, e li ho scritti sul quaderno. sono distanze tra diversi atomi in un cristallo. i reds hanno perso la semifinale, ma non sono mai morti. c’è sempre una possibilità, sempre un’alternativa, sempre un dopo. sempre stato bravo, ma mai morso. mai affondato le mani. voglio sentire una brezza di mare, un alito di città straniera. e la sentirò.  prenderò esempio dai miei amati reds. per adesso, la domenica mattina. nico, sei tu.

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voi non siete nulla

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siede coi piedi che penzolano sul cratere, la maschera dal naso adunco alzata sul cappello, il viso rosso e segnato dal dolore. il vestito bianco sporco di cenere, le spalle alla città dai colori avvelenati e ancora splendidi.
voi non valete niente.
voi non siete nulla.
il sangue  che versate vi inonderà come il sarno, quell’anno disgraziato. il vostro cemento si sbriciolerà. i camion tossici interrati risusciteranno,  gli schiavi del sesso sulla domiziana e dei pomodori nell’agro guarderanno in su. le tigri non possono essere addomesticate, sandokan, non ricordi? i kalashnikov si inceppano, i soldi bruciano. e voi della piana al nord non siete esenti.

è l’una e lucido la pistola,
tiro un’altra striscia al volo
butto dentro il caricatore
con la madonna sul cuore
so che lei poi mi perdona
quando finirà ’sta storia

 

*

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ad un certo punto i narcisi di sefton park spariscono. e con loro va il freddo residuo. rimane solo verde intenso,  nell’indefinita nuova stagione inglese. la pioggia diventa più soffice, il sole è più vivido. luce intensa, nel vento del mersey che si stempera. il tempo dei narcisi è breve. forse è giusto così. ma è un forse masticato e sputato. con occhi spalancati, mano al petto e una punta di dolore.
 
Narciso parole di burro
nascondono proverbiale egoismo nelle intenzioni

 

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tornerete, oh sì.

At the end of the day…

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...what’ the fuss about it? venere emerge dall’acqua e mi chiede: qual è il problema?  sole in alto, sci ai piedi. o acqua tiepida alle caviglie. meltemi soffia, daiquiri sul molo. formule sulla scrivania, piccoli oggetti da studiare. il fuck se ne va, il futuro ora, il mai che non esiste. never say never, forever, I like it more. il bengalese sorride e mi dà il resto, mentre vede bollywood al computer della cassa.  e stanlio e ollio mi fanno ancora ridere. ciao.
 
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25

 

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penso non ci sia molto da scrivere. solo fanculo. come dice lui nel film. mentre le rovine delle torri sono rimosse, i fari sparano verso il cielo, il cane a spasso annusa il dolore e la paura. occhi fissi, vite cambiate che non cambiano mai. fanculo anime belle come me. fanculo opportunisti falsi e bigotti. à la vache.

 

 

4 elements: air

823e1e1692f8a9cc712097e935b8e91b.jpgla terra girò per avvicinarci


girò su se stessa e dentro di noi


fino ad unirci finalmente in questo sogno

Paul recita questi versi a Cristina per affascinarla. è un matematico, e cerca forse la spiegazione di qualcosa. il caso ha voluto che lui vivesse ed il marito di Cristina morisse. perché è successo? 21 grammi escono dal corpo di una persona alla sua fine. non so se l’affermazione data nel film è esatta, e poi, cosa possono essere? aria dai polmoni, probabilmente durante l’ultimo rantolo. acqua, molecole organiche nel respiro. rilasciate in atmosfera, le molecole si mescolano, urtano ed interagiscono con le altre. l’acqua, condensata in minuscole goccioline, viene trascinata dai moti convettivi, su, su, fino a formare le  nuvole. le nuvole vengono trasportate dalle correnti in quota, formano le perturbazioni, fronti freddi, caldi, viaggiano su terra e mare e piangono, silenziosamente o con grande strepito. piogge e tempeste, mentre l’aria dei  21 grammi di quella persona si mescola anche con il respiro di altre, morte e vive. tutto regolato da leggi dove entra il caos, così affascinante e così inaccettabile, frustrante per me. che non capisco perché certe cose debbano succedere ed altre no. che non mi rassegno, anche quando dovrei, e so che dovrei, per me e per gli altri. tutto intrecciato, complicato, impossibile da prevedere con certezza. guardo le nuvole in alto, e penso a quel qualcosa di chi non si è mai conosciuto in vita, che forse si incontra nel dopo dove niente è più.

4 elements: fire

Nel 2005, durante Chelsea-Barcellona, Ronaldinho segna un goal bellissimo: da fermo, finta tre volte e tira di punta per sorprendere il portiere. Elegante, lineare, sembra facile.

Nel 1925  Erwin Schrödinger scrive per la prima volta l’equazione che è alla base della meccanica quantistica: a Natale, in uno chalet svizzero, in compagnia di una delle sue tante amanti. Me lo immagino, Erwin, davanti al caminetto acceso, mentre gioca con i capelli della donna del momento, e le spiega cos’è il fuoco:
mia cara, è solo una reazione di ossidazione, nella quale gli atomi si ricombinano. E’ violenta, incontrollabile, libera energia, ed una parte di questa è sotto forma di luce. Rossa, gialla, o blu.

Illuminati. Ronaldinho e Schrödinger sono illuminati. Anche noi illuminiamo, ma la radiazione che emettiamo non è visibile. E’ nell’infrarosso. Perché siamo caldi, e viviamo. La possiamo vedere con occhiali e sensori speciali, come quelli in dotazione ai soldati americani, quando vanno a caccia di cattivi barbuti nella Città del Sangue.

Mi hanno detto: tu sei diverso, sei illuminato, talvolta. Non so se è vero. So solo che sembra facile, però costa fatica e allenamento, come per il Pallone d’Oro ed il Premio Nobel.

Ma le scintille volano sempre.

 
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ultima lezione

Perché dovremmo farlo? Beh, ho messo in evidenza un po’ di applicazioni economiche, ma so che la ragione per cui lo vorreste fare è solo per divertimento.

Richard Feynman

 

ultima lezione, dita sporche di gesso e lavagna piena di formule. mai perdere di vista il vero motivo, ritchie… o siamo morti.

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talking heads-once in a lifetime

 

 

Migration

 

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La radiosveglia si accende. E’ ancora buio, papà è già in piedi, impaziente come sempre. Mamma è da qualche parte, forse in bagno. Sul tavolo di formica della vecchia cucina, la moka mi aspetta. Passiamola, questa linea d’ombra. Non posso rimanere. Mia sorella mi sorride e mi bacia. Mamma è OK. Presto, prima del traffico, bisogna uscire dalla città, verso il nastro grigio del Nord-Ovest. Papà mi accompagna, nella pioggia fredda di Gennaio, lungo i primi mille chilometri in Italia. Firenze, Genova, Ventimiglia, fino a Nizza. Vediamo gli aerei partire sul mare, col croissant in mano, mentre scherziamo e ci prendiamo in giro. Mi saluta alla stazione, ritorna a casa. Il treno di notte con vettura al seguito, le luci di Parigi al risveglio. Riesco ad uscirne, e vedo il mattino del Nord su un’autostrada a non so quante corsie, di nuovo aerei sulla testa, atterrano e decollano dallo Charles de Gaulle. Dopo le lunghissime propaggini metropolitane, il deserto della campagna francese del Nord, verso Calais e l’approdo. Onde sulla Manica, il traghetto balla. Guardo la scogliera di Dover per la prima volta, da sottocoperta. E’ bianca come dicono. Adesso guiderò sulla sinistra: Londra, Luton, Milton Keynes, Birmingham, ancora su. Passo sotto l’indicazione per Liverpool, un cartello mi indica Penny Lane. Sorrido, mentre metto su “Advice for the young at hearts” allo stereo. Arrivo proprio lì, dove volevo, all’Università. Parcheggio ed esco nel vento del Mare d’Irlanda, verso la cabina rossa del telefono. E’ buio, sotto la cattedrale  cattolica. Chiamo la mia amica, vengono a prendermi.

E se il tempo tornasse?

Nei pub elettrici
Sotto la pioggia soffice
Sui parchi gelati e umidi
I daffodils si schiudono
Il grigio diventa arcobaleno
Il cuore, acciaio arrugginito
Fumo di anima indomita
Kop rossa negli occhi di Barnes
Mc Manaman, Owen, Gerrard
Il Mersey risale
Ogni giorno nordico
I docks ruggiscono
It ain’t over, till it’s over

 

nice day

 

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So, here we are. Drinking beer, sometime, in a soft English summer evening. O forse sulla 101, la mano fuori dal finestrino, a catturare il vento che viene da sotto, dal mare che si infrange sulle scogliere del Pacifico. Un po’ più su di LA, verso Santa Barbara, poi Big Sur, Monterey e  San Francisco. So easy, this afternoon. I soldi non contano un cazzo, lo sai? La storia è un’altra. Tutta un’altra. Le cose sono solo cose. Le macchine di lusso, le case con giardino, i bei mobili antichi,  i vestiti griffati, e le corse intorno al nulla. Lascia perdere. Fai ciò che ti piace. Per quello fatti il culo, e sorridi. Credimi, è splendido avere di meno ed essere di più. Pensa, e se tutti facessimo così? Wouldn’t it be REVOLUTION?  E ci vorrebbe così poco. Così poco. No, non rispondere subito. Take it easy.  Watch football (splendid night) and get another drink from the bar.

Have a nice day.

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Quantum Leap

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“Il dottor Samuel Beckett è nato l’8 agosto 1953 da John Samuel e Thelma Louise Beckett. Cresce nella fattoria di famiglia e dimostra da subito di essere un genio. A tre anni sa già leggere, successivamente impara a suonare diversi strumenti musicali e pratica diversi sport al liceo. Si laurea in fisica quantistica, medicina, lingue antiche, musica, neurologia, astronomia e vince anche un Nobel.”

Sdraiato sullo sgangherato sofà del mio appartamento di allora, nel freddo umido del Mersey che non mi abbandonava mai, vedevo alla TV il dottor Sam Beckett viaggiare nel tempo e cambiare la vita delle persone.  Il contrammiraglio Al lo assisteva fornendogli le previsioni di Ziggy, il supercomputer, sulle sue possibilità di successo. Non era in gioco la Storia, ma le storie, piccole e così importanti. Sam si trasformava in qualcun altro, giocava col destino. E salvava. Piccole storie di persone condannate che cambiavano. Sam non aiutava nell’adesso, solo nel prima, o nel dopo. Non sempre ci riusciva. Non sempre finiva come lui avrebbe voluto. 

Stretto nel mio vecchio cappotto spinato, cammino per il centro della città, nel freddo assolato. Gli antidepressivi fanno effetto, la chimica funziona. Dio gioca a dadi, penso, e chissà se Sam, lo scienziato buono, può salvare se stesso. Ma sì, l’amore è un buon investimento. E il presente è solo il passato del futuro.

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Tu credi che quando ti svegli la mattina quello che è successo ieri non conta. Invece quello che è successo ieri  è l’unica cosa che conta. Che altro c’è? La tua vita è fatta dei giorni che hai vissuto. Non c’è altro. Magari pensi di poter scappare via e cambiare nome o non so cosa. Di ricominciare daccapo. E poi una mattina ti svegli, guardi il soffitto e indovina chi è la persona sdraiata nel letto?
 
Cormac Mc Carthy, Non è un paese per vecchi
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Prestige and hell

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David Bowie-Starman 
 
Elettricità nell’aria, uh? Il dott. Nikola Tesla tra le scintille generate dalla sua macchina, avvolto dai fulmini artificiali, come un moderno Lucifero in una versione attualizzata dell’inferno. Sorrido mentre guardo questa scena di “The prestige”, scuotendo un po’ la testa, di fronte all’impossibilità della suggestione. Prestigio, appunto. Tesla è esistito veramente, ed ho visto una macchina simile in una stampa. Serviva a generare fulmini artificiali. Ovviamente, è impossibile che Tesla attraversi il laboratorio con la sua macchina in funzione, e rimanga illeso. Così come è quasi impossibile accendere una lampadina toccandola, come suggerito in un’altra scena. Scrivo “quasi” perché è possibile invece sfruttare i sali minerali di un frutto come batteria, fare dei contatti opportuni ed accendere una luce. L’ho visto in un programma per bambini.  Sì, per bambini. Tesla era un genio assoluto, inventò tantissime cose, in particolare i motori polifase, che sfruttano la corrente elettrica alternata. Grazie a lui, ora noi usiamo questo tipo di corrente elettrica. cinquanta o sessanta hertz, 125-220-380 Volt. Morì povero. Forse non era tipo da badare troppo ai soldi. Dalla Croazia agli Stati Uniti, spinto da quel vento tempestoso chiamato emigrazione. Bowie (sì proprio lui) nel film lo interpreta splendidamente. La scienza è più inverosimile della magia, l’inaspettato colpisce all’improvviso, come un fulmine. Appunto. E gli occhi di Bowie-Tesla sono ancora di due colori diversi.  

4 elements: water

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L’acqua di uno stagno, di una palude o di una semplice bacinella è generalmente immobile. La sua superficie è completamente piatta. O meglio, noi la vediamo così. Nel 1827, un botanico di nome Robert Brown osservò al microscopio  delle particelle di polline sospese in acqua, e scoprì che si muovevano in modo assolutamente irregolare. La stessa cosa succedeva per granelli di polvere. Questo movimento incessante, casuale, imprevedibile è dovuto all’agitazione termica delle molecole d’acqua. L’agitazione termica è la causa della temperatura. I costituenti elementari della materia (siano essi atomi in un pezzo di ferro, o appunto le  molecole di un liquido) si muovono caoticamente. Nei liquidi, le molecole non sono legate fra di loro, e cambiano incessantemente posizione, urtandosi. Un delirio, insomma. I granelli vengono colpiti continuamente dalle  molecole, invisibili ad occhio nudo, e anche se sono molto più grandi, prendono questi “calcetti” e si spostano. Poiché l’agitazione termica è assolutamente casuale, le particelle di polvere si muovono a scatti, in modo imprevedibile. Moto stocastico, viene detto. Einstein lo studiò, ed in uno dei suoi primi lavori scrisse delle equazioni molto particolari per la sua descrizione probabilistica. Quindi, non è detto che ciò che appare immobile lo sia veramente. Dipende dalla scala e dallo strumento con cui si osserva. E come sempre, l’apparenza può ingannare.

Liquido inquieto: PJ nel suo vestito rosso. (E’ un omaggio? Sì, lo è).

 

 

4 elements: earth

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Jefferson Airplane-We can  be together

Guardiamo la Luna, o il dito che la indica. Nel 1968, invece, qualcuno guardò la Terra dalla Luna e la fotografò. Tutta intera, così azzurra e bianca, gli astronauti dell’Apolllo 8 la videro sorgere sopra il grigio riarso. La Terra è a strati: crosta, mantello, nucleo esterno e nucleo interno. Il 30%  della sua composizione è Ferro, localizzato prevalentemente nel nucleo, il 30% è Ossigeno, poi Silicio, Magnesio, Zolfo, Nichel e via andare. Circondata dall’atmosfera. Tutto così miracolosamente insieme, sembra fragile, sembra paradiso, visto da là. Galleggiamo sulle nostre zolle, sopra oceani incandescenti, e giù, giù c’è ferro, prima liquido, poi solido.

Questo successe, proprio allora, ma non abbiamo ancora imparato la lezione. Continuiamo a guardare il dito, o tutt’al più la Luna. Allora provarono qualcosa di diverso, e noi l’abbiamo dimenticato.

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Maggio 1968, Parigi. La Gendamerie blocca l’accesso a Place de la Sorbonne. 
Photograph: Sipa Press/Rex Features 

 

I miei colleghi-2

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Molti commenti sul mio post a proposito dei fatti della Sapienza rimproverano il metodo con cui i miei colleghi hanno impostato il problema. “Bisognava far parlare il Papa comunque”. Il punto non è questo. I miei colleghi, in una lettera al loro Rettore, espressero in sostanza la loro contrarietà all’invito, che ritenevano non opportuno. ERA UN’OPINIONE. Non era un invito alla sommossa! Il papa non è venuto perché NON accetta contraddittori o contestazioni. Non accetta il fatto che lui possa tenere il suo discorso, mentre contemporaneamente, non dico dentro l’Aula Magna, ma fuori, a qualche centinaia di metri, vi sia una manifestazione di protesta. E NESSUNO, dico NESSUNO avrebbe mai potuto contestarlo, o fargli domande scomode durante la cerimonia. Queste cerimonie sono ad invito. I miei colleghi non avrebbero potuto partecipare, o se avessero potuto, molto difficilmente sarebbero riusciti a prendere la parola. Le inaugurazioni dell’Anno Accademico sono solo show pubblicitari pomposi. Si invita qualche autorità che si vuole premiare a tenere la Lectio Magistralis, per avere titoli sui giornali, comunicati stampa, servizi TV etc. E spesso si regala una Laurea Honoris Causa. Nelle Università piccole, sono prebende date a qualcuno, in cambio di pubblicità gratuite e di qualche grosso favore.  Morale della favola: i miei colleghi sono crocifissi da tutti, il papa è un martire. Se c’è qualcosa che posso rimproverare loro è di non avere tenuto conto della comunicazione e dell’immagine. In altre parole, delle apparenze, delle false verità che ci propinano i media tutto il tempo. Questa è la lettera del Direttore del Dipartimento di Fisica dell’Università “La Sapienza” di Roma, pubblicata sul Manifesto del 16 Gennaio, nella quale spiega ciò che è successo, dal loro punto di vista. La pubblico sul mio post, così vi possiate fare un’idea. Potete anche leggere un articolo di Paolo Flores d’Arcais sulla Repubblica del 17 Gennaio (“le ragioni dei laici”), che spiega le loro e le mie ragioni. 
 
Dai professori di fisica nessun intento censorio
Giancarlo Ruocco


Il 14 novembre del 2007 il professor Marcello Cini, docente emerito dell’ateneo, inviò una lettera aperta al rettore, pubblicata dal manifesto. La lettera esprimeva il disappunto per la decisione del rettore di invitare Benedetto XVI a tenere la Lectio magistralis di apertura dell’anno accademico dell’Università La Sapienza.
Pochi giorni dopo, alcuni docenti hanno sentito il dovere di appoggiare l’iniziativa, inviando una seconda lettera al rettore Renato Guarini nella quale si chiedeva di rinunciare all’invito. In queste due lettere non c’era alcun intento censorio nei confronti del Papa, bensì il desiderio di una parte della comunità accademica di esprimere la propria opinione sulla decisione del rettore.
Queste lettere, infatti, erano rivolte al rettore che aveva fatto la scelta di inaugurare l’anno accademico, momento simbolico per l’inizio di un percorso formativo, proponendo come docente Benedetto XVI, ossia il maggior rappresentante culturale di una confessione specifica. L’inaugurazione dell’anno accademico, cui partecipa un pubblico di docenti e studenti di diversa formazione politica e religiosa, non sembra essere il giusto contesto per una visita del Papa, o di qualsiasi altra autorità religiosa o politica che non si rapporti direttamente all’accademia. Infatti, insegnare ai giovani è una grande responsabilità che richiede di prescindere in ogni momento dalle proprie convinzioni religiose e ideologiche. La presenza del Papa alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico propone invece una interpretazione e lettura del mondo ben precisa, che pone la fede innanzi a ogni percorso della conoscenza. Tale posizione può risultare, come troppo spesso è avvenuto in passato, fonte di censura della conoscenza e non di confronto libero del sapere. In un altro, diverso contesto la visita sarebbe benvenuta, come qualsiasi forma di dialogo e confronto fra culture diverse. Nessuno, tantomeno i docenti della Sapienza, vuole esercitare un arrogante diritto censorio sulla libertà di espressione del pensiero religioso, o politico che sia, in nome di un laicismo di stato, come afferma Galli della Loggia sul Corriere della Sera di ieri. I mezzi di comunicazione di massa, che raramente rivolgono la loro attenzione al mondo scientifico e universitario, dedicano l’apertura dei giornali e dei telegiornali a una lettera che si intendeva essere una lettera privata di un gruppo di docenti al loro rettore, ignorando invece la lettera aperta, pubblica, di Marcello Cini, inviata due mesi fa come quella qui in oggetto. Questa posizione da vigore e incoraggia schieramenti estremisti che nulla hanno a che vedere con la discussione avvenuta due mesi fa tra docenti e rettore. Speriamo che questo evento, che sulla stampa ha acquisito connotati che non favoriscono il dialogo, possa invece incoraggiare un confronto sulla libertà del pensiero laico, non confessionale né politico, nelle istituzioni di formazione dei giovani, per arrivare nel caso a un confronto sui luoghi della fede e i luoghi della conoscenza, e su come e quando e dove sia lecito intrecciare fede e ragione.

 
Non ho molto altro da aggiungere. Sono 40 anni dal 68, ma forse è avvenuto in un altro Universo parallelo, ed un cunicolo spaziotemporale mi ha portato in questo schifo.

Police and thieves

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Oggi è una giornata in cui mi sento in una maledetta palude. Maleodorante.  Non c’è spazio, si soffoca. Tutti contro. Contro tutti. E allora? Allora i Clash. Police and thieves. Rock’n’dub. Fuck them all. 
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I miei colleghi

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The Rolling Stones-Paint it black
 
I miei colleghi hanno la testa fra le nuvole.
I miei colleghi sono serissimi.
I miei colleghi spesso prendono meno di un operaio.
I miei colleghi lavorano per passione.
I miei colleghi  emigrano, perché non c’è lavoro, oppure perché  mancano i fondi perfino per acquistare le riviste specializzate in biblioteca. Indovinate da dove il governo ha preso i soldi per i trasportatori, dopo la loro serrata che ha messo in ginocchio l’Italia a Dicembre. Ma dalla ricerca scientifica, e dove se no?
Alcuni miei colleghi (che sono stati miei professori) hanno scritto una lettera al Rettore della Sapienza di Roma, dicendogli: “guarda che la persona che hai invitato ad inaugurare l’Anno Accademico (il Papa) è lo stesso tizio che una quindicina di anni fa ha giustificato la persecuzione di Galileo da parte della sua eminente istituzione. Secondo noi non era proprio il caso”. Galileo, capite? Il padre della scienza moderna. Senza Galileo:
Non ci sarebbe stata la Fisica.
Niente Fisica, niente meccanica
Niente meccanica, niente motori.
Niente motori, niente elettricità.
Niente automobili, treni, telefoni, radio, televisori, computer.
Niente agricoltura moderna, niente industrie.
Solo aratro, mulini ad acqua, luce di candela. Medioevo, insomma. Crederemmo che il Sole gira intorno alla Terra, che Dio ci ha messo sette giorni ad inventare l’Universo, che Eva (zitta e buona, Eva, stai al tuo posto!) è nata dalla costola di Adamo. Volete credere all’evoluzione, ma scherziamo?
E senza evoluzione, niente biologia moderna, niente biologia molecolare, niente cure avanzate. 
Ecco, i miei colleghi hanno ragione ad incazzarsi.  E voi, amici miei, state attenti. Perché se non ci sono i miei colleghi, il paese è destinato a sprofondare. Però che ci importa, l’importante è finanziare le scuole della Chiesa (andare a Messa è un optional, basta dare soldi, no?), fare la “moratoria” sulla legge sull’aborto, proibire di fatto la fecondazione in vitro, negare irragionevolmente ai malati terminali di morire con dignità. E sentire ogni Domenica dai nostri telegiornali genuflessi il tizio che pontifica da San Pietro su affari che non gli competono.
 

 


 
 

Ghost in you

So long, Bill…

 

 

 

…angels fall like rain
and love is all of heaven away
inside you the time moves
and she don’t fade
the ghost in you
she don’t fade…

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corrente elettrica                        2-200 k (da duemila a duecentomila Ampere)
temperatura elettronica                30.000 K (trentamila gradi)
diametro della colonna di plasma    10-50 cm 
carica elettrica totale                    5-10 C
differenza di potenziale                1-10 x MV (da 1 a 10 MegaVolt)
 

Questo è quanto. Solo un fulmine. 

 

 

 

*

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Why can’t we just play the other game?
Why can’t we just look the other way?

 

Stardust

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Television-Marquee Moon 

 

 

“Si ritiene che il Sole e i pianeti si siano formati da una nebulosa di gas interstellari in contrazione, in un periodo di tempo compreso tra 4.6 e 4,6 miliardi di anni fa.”

Il nostro sistema planetario deriva da una nebulosa che si è condensata in una stella (il sole) e nei pianeti,   a causa  dell’azione della forza gravitazionale.
Secondo le attuali teorie, la nebulosa primordiale  era costituita da idrogeno, da elio, da una grande varietà di elementi chimici più pesanti e da polveri.
A sua volta, la materia nella nebulosa è stata emessa dall’esplosione di un’altra stella. Il fatto che nella Terra siano presenti elementi chimici pesanti, come Argento, Oro, Piombo, via via fino all’Uranio fanno ipotizzare che la Stella “genitrice” sia una Supernova. Le Supernove, di diverso tipo, sono stelle molto grandi (molte volte più del Sole) in punto di morte. Nel loro ultimo “respiro”, generano elementi pesanti,  a seguito di processi di fusione nucleare. Attualmente, le Supernove sono le uniche sorgenti conosciute di questi nuclei. Quindi, gli atomi che costituiscono il sistema solare, la Terra, ed in ultima analisi, noi stessi, provengono dall’esplosione di una stella, probabilmente da una supernova.
Noi SIAMO polvere di stelle.  Come canta Joni Mitchell in “Woodstock”:

We are stardust.
Billion year old carbon.
We are golden
Caught in the devil’s bargain
And we’ve got to get ourselves back to the garden.
(To some semblance of a garden)

Presi nel baratto del diavolo, suoniamo rock’nroll… 

My X’mas lecture

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Sulle banconote da 20 Sterline inglesi è effigiato Michael Faraday, un eminente scienziato dell’800. Oltre al suo ritratto, vi è il particolare di una stampa dell’epoca, con la scena di una delle sue Christmas Lectures, organizzate dalla Royal Institution. Michael Faraday ha dato dei contributi fondamentali alla fisica e alla chimica. Basterebbe citare la legge con il suo nome che spiega il fenomeno dell’induzione elettromagnetica, dove elettricità e magnetismo vengono combinate insieme, alla  base del funzionamento dei motori elettrici, della dinamo, e di moltissimi altri congegni, tra i quali mi piace menzionare la chitarra elettrica. Faraday era anche un uomo di indubbia statura morale: rifiutò svariati premi ed onoreficenze, nelle quali non credeva, e non volle contribuire allo sviluppo di ordigni esplosivi da utilizzare nella guerra di Crimea. Non ebbe una educazione molto  buona perché di umili origini, e le sue cognizioni di matematica non erano particolarmente approfondite. Ciononostante, era un grandissimo sperimentatore, e anche un eccezionale divulgatore. Le Christmas Lectures, tenute ogni Natale da scienziati e studiosi britannici di fama mondiale, sono delle lezioni a scopo divulgativo, rivolte soprattutto ad un pubblico di bambini e giovanissimi. Fino a poco tempo fa, venivano trasmesse in televisione, dalla BBC prima, e successivamente da altri canali privati.
Faraday tenne delle lezioni memorabili, con dimostrazioni pratiche incantevoli sulla chimica. Ne tenne 7, un record assoluto, una ha un titolo particolarmente poetico, ” The chemical history of a candle”, e spiega i processi di combustione. Charles Dickens chiese ripetutamente a Faraday  di scrivere le sue Christmas Lectures, ma egli oppose resistenza, sulla base (giusta, a parere mio) che le lezioni difficilmente sono adattabili ad uno scritto. Alla fine acconsentì alla pubblicazione di resoconti stenografici,  disponibili oggi anche su internet. Tutto ciò fa molto Dickens, molto Natale, molto inglese. Non ho mai visto una Christmas Lecture, nonostante abbia vissuto in Inghilterra per molto tempo, perché ho scoperto questa nobile istituzione solo di recent. E mi piacerebbe fare qualcosa di simile nella mia Università. Per quest’anno, mi accontento di scrivere una breve poesiola, e di pubblicarla qui. Che Faraday mi perdoni.

Luce sulle rètine
incanti di cristalli
suono sui timpani
risonanze di fili bronzei
che scuotono magneti
e cavi inossidabili
e scatole tonanti
su vortici di folle,

fioriti desiderii. 

Fasce sui capelli, sudore mancino
di King Jimi,  sue scintille elettriche
da Sir Michael sognate.

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 Jimi Hendrix-Foxey Lady

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Buone feste.
 
P. S. Ho visto ieri i video delle sue lezioni. Si chiama Walter Lewin ed insegna al MIT di Boston. Grandissimo. Qui  dimostra che il tempo impiegato da un pendolo per compiere un’oscillazione completa non dipende dal peso applicato. E  per dimostrarlo  ci si mette sopra, facendo contare agli studenti  il numero di oscillazioni. La Fisica funziona.
 

 

 

Blond on Black

 

 

I Police girano su loro stessi e non si guardano, non interagiscono in questo video del 1986. La loro storia è già finita. Intorno, strumenti, scene di vecchi video di concerti, colori in una sarabanda di figurine che si rincorrono, a celebrare il loro successo. Niente di nuovo da dire, la canzone scorre in una nuova versione, è “don’t stand so close to me”, le memorie (o fantasie) di Sting, giovane insegnante di liceo. Sono freddi, distanti, biondi algidi vestiti di nero, ma la musica è un ciclone, la batteria di Stewart Copeland percuote l’anima, i riff di Summers scavano il cuore. Il nero delle storie che finiscono, il biondo delle nuove vite. Addii pieni di rancore, occhi rossi dalle lacrime trasparenti, guerre senza vincitori. Le rinascite hanno sempre bisogno degli addii. Il rancore è una legge di natura, o solo un contorno non necessario? Non lo so, camminare sul filo sopra le tempeste è difficile. Impossibile, non mi sentirei di dirlo. Il dopo può essere meno proibitivo.
 

 

Chirality-reality

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Blur-Out of time
 
 
Roberta non vuole vedere l’amico morto nella camera ardente. Entra in obitorio, ma si ferma prima, si appoggia al muro, e vede un’altra immagine: il suo amico che saluta tutti i convenuti, stringe le mani, abbraccia e le sorride da lontano. Lei ha Saturno contro, si droga, è vitale e svitata. Mancina, penso, mentre vedo il film di Ozpetek, che mi irrita un po’. Ma la figura di Roberta mi piace. Controcorrente per certi versi. E questo mi fa pensare al concetto di chiralità.
χειρ vuol dire mano, in greco. Abbiamo una mano destra ed una sinistra. E NON sono uguali. E’ raro trovare ambidestri. Esistono i destri (la maggioranza) ed i mancini. Un tempo, si dice, l’umanità era mancina, poi si è cambiato mano. Personalmente, sono destro, ma per certe azioni uso la sinistra. Perché siamo così asimmetrici? Il nostro organismo distingue tra destra e sinistra. In natura esistono delle sostanze chimiche che sono costituite da molecole uguali in tutto, tranne che nella loro simmetria. Destra o sinistra. Queste molecole vengono dette chirali, ecco un esempio.
 

 
 
Le due molecole che vedete girare sono uguali, ma diverse. Una è il riflesso speculare dell’altra, così come la mano sinistra dovrebbe essere il riflesso della destra. Dico dovrebbe, perché in realtà le due mani non sono esattamente uguali. E  non è nemmeno uguale l’effetto sul nostro organismo se assimiliamo una molecola “destra” o “sinistra” di alcune sostanze. Infatti, queste sostanze possono essere utili o inutili (se non dannose) a seconda dell’enanziomero (così è chiamato). Quindi, intrinsecamente, il nostro organismo è destro, o mancino, perché le molecole organiche che lo costituiscono distinguono tra enanziomeri. Ovviamente il fatto di essere destri o mancini non incide sul tipo di molecole accettate, che è lo stesso per tutti. Però, però…. Non ci dovrebbe essere questa differenza, a rigor di logica. E invece c’è. Perché la natura è intrinsecamente asimmetrica. Lo sono anche le leggi fisiche. Ne ho già scritto qui. Ad esempio, esiste la materia e l’antimateria. Per ogni particella (o quasi) esiste una antiparticella. Se le due si incontrano, annichiliscono. Niente più materia o antimateria. L’energia liberata dal processo si trasforma in radiazione. Se greg incontrasse un anti-greg, ed i due si toccassero, si distruggerebbero mutuamente. Questo succede, ma raramente, perché fortunatamente l’antimateria è presente in piccolissime quantità. Quindi, esiste uno sbilanciamento, un’asimmetria intrinseca nell’universo e nelle leggi che lo regolano. E questo è la nostra fortuna, per certi versi, altrimenti tutto sarebbe molto più instabile, no? Si pensa che l’asimmetria del nostro organismo (che distingue ed usa molecole destre invece che mancine) abbia a che fare con l’asimmetria delle leggi dell’universo, ma al momento è solo un’ipotesi. Quello che è certo, è che io amo i mancini. Ed il concetto di essere mancino. Abbiamo bisogno di mancini, noi destri. Io stesso sono un po’ mancino. E vorrei esserlo di più. 
 
Where’s the love song to set us free
too many people down, everything turning the wrong way round

and I don’t know what love will be
but if we stop dreaming now, lord knows we’ll never clear the clouds

and you’ve been so busy lately
that you haven’t found the time
to open up your mind

and watch the world spinning gently out of time

Feel the sunshine on your face
It’s in a computer now
gone to the future, way out in space

and you’ve been so busy lately
that you haven’t found the time
to open up your mind
and watch the world spinning gently out of time

and you’ve been so busy lately
that you haven’t found the time
to open up your mind
and watch the world spinning gently out of time
Tell me I’m not dreaming
but are we out of time
(we’re) out of time

 

 

Luce e purezza

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La luce visibile è quella parte di radiazione elettromagnetica che impressiona la retina dei nostri occhi. Non è così per i raggi X, la radiazione infrarossa, le onde radio etc. che possono avere altri effetti, più o meno dannosi, sul nostro corpo, ma che non vediamo. La luce può essere emessa da sorgenti naturali, come il sole, le stelle e i fuochi, oppure artificiali, come le lampade. Buona parte della luce “naturale” è generata da un processo detto emissione spontanea. Un elettrone in uno stato ad alta energia genera spontaneamente un quanto di radiazione, un corpuscolo detto fotone, cede parte della sua energia e va ad occupare uno stato con energia più bassa. I motivi per cui l’elettrone si trovava in uno stato eccitato possono essere vari: ha assorbito energia da un fotone (assorbimento), ha partecipato ad un legame chimico che si forma con una reazione violenta (fuoco), il metallo in cui si trova ha assorbito calore per passaggio di corrente elettrica (lampade ad incandescenza). Nelle stelle , il calore è prodotto dalle reazioni nucleari. Frequenza, energia e colore sono la stessa proprietà. Ad una certa frequenza corrisponde un colore, ed un valore di energia determinato.

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L’emissione spontanea è un processo a carattere probabilistico. L’elettrone emette quando gli pare a lui. Tutti questi elettroni nella materia quindi generano fotoni, cioè luce in maniera assolutamente casuale, spesso su frequenze diverse, perché sono tanti e si trovano ad energie differenti.
Però c’è un altro processo  di emissione, detto emissione stimolata. Se un fotone si trova a passare vicino ad un elettrone, in uno stato ad alta energia, può stimolarlo a decadere, e a emettere un fotone con la sua stessa frequenza. Quindi alla fine del processo ci troviamo due fotoni con la stessa energia, cioè la stessa frequenza. QUesto processo, anch’esso probabilistico, è però determinato dal primo fotone. E dà fotoni tutti uguali. Cioè luce dello stesso colore, e con fotoni che risultano da processi ben scanditi temporalmente. Viene detta radiazione coerente.

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I LASER sono basati sul processo di emissione stimolata:
– prima cosa, si eccitano gli elettroni della materia con cui è fatto il laser tutti ad uno stesso stato
– alcuni di questi elettroni decadono spontaneamente. I fotono prodotti stimolano altri decadimenti, in un processo a cascata, all’interno di un sistema dove si trova il materiale, detto cavità ottica,  che è un’intercapedine fra due specchi, che riflettono la luce.
– la luce va avanti ed indietro, e continua a stimolare. Una parte esce dalla cavità e diventa fascio laser.

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I LASER non sono  sorgenti di luce naturale, ma qualcosa di inventato dall’uomo. La luce è molto, molto intensa e purissima, nel senso che il colore è ben determinato. Inoltre viene emessa in una direzione ben precisa.
Adoro i LASER per questo. Sono un prodotto dell’intelletto umano, che fornisce una luce completamente diversa da quella generata dalle sorgenti naturali.  Purezza come prodotto dell’intelletto umano. La natura di per sè non è così pura, non lo è mai.  

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Chrissie’s eyes

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Cuoio scuro sulla pelle, voce morbida, chitarra al braccio, cosa c’è di più sexy di una ragazza che suona rock’n’roll? Riff degli anni ’70-’80 nelle orecchie e nel (cuore, sì, mi tocca scriverlo), gli occhi da gatta di Chrissie che mi guardano dalla copertina, mentre sono impegnato a cercare di capire qualcosa da delle strane formule, oggi come allora, quando ero studente. Cercare di capire, è la mia attitudine professionale, no? E così mi affanno a cercare spiegazioni per ogni cosa. E credo che per ogni singolo evento, fatto, fenomeno, sensazione ci sia una causa, un meccanismo. Spesso complicato, difficile. Ma più passa il tempo e più mi convinco che niente è fuori dalla nostra portata. But, hey, is it worth? Vale la pena, vale la pena di comprendere tutto, anche ciò che fa più male, ciò che fa soffrire? O forse è meglio lasciare perdere? E’ un’attitudine e una condanna. Soffia, la voce di Chrissie, mostrami il significato della parola. E parla di qualcuno che viene dalla via lattea con occhi innocenti. Mentre io mi tuffo su fax che non arrivano, formule e fenomeni che non capisco, e che capirò. Un giorno, sia domani o fra dieci stagioni. Forse è questo il vero motivo per cui scrivo da tre anni, compiuti proprio oggi.
 
Time is up, listen and read:

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Pretenders-Show me 
 
Show me the meaning of the word
Show me the meaning of the word
‘cause I’ve heard so much about it
They say you can’t live without it

Welcome to the human race
With its wars, disease and brutality
You with your innocence and grace
Restore some pride and dignity
To a world in decline

Welcome to a special place
In a heart of stone that’s cold and grey
You with your angel face
Keep the despair at bay
Send it away, and

Show me the meaning of the word
Show me the meaning of the word
‘cause I’ve heard so much about it
I don’t want to live without it
I don’t want to live without it
Oh, I want love, I want love, I want love

Welcome here from outer space
The milky way still in your eyes
You found yourself a hopeless case
One seeking perfection on earth
That’s some kind of rebirth, so

Show me the meaning of the word
Show me the meaning of the word
‘cause I’ve heard so much about it
Don’t make me live without it
Don’t make me live without it
Oh, love, I want love, I want love, I want love

 
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Where the weather suits my clothes

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Camminando, mentre la nebbia si alza, i ragazzi intorno chiacchierano, davanti ai portoni degli istituti.
Fumando l’ennesima sigaretta sulla scala di sicurezza, parlando in romanesco col mio collega.
Leggendo alcune note sul waveguiding, una cosa complicata sul funzionamento dei  laser, con la loro luce così pura.
In laboratorio, riavviando gli strumenti.
Niente è troppo importante, dopo tutto. Il sole arriva, finalmente, il grigio resiste, ma mi sento così leggero, oggi. E questa splendida canzone, scrivo solo per farla sentire.
Sì, mi sento, mi sento di andare dove il tempo è giusto per i miei vestiti.

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Everybody’s talking at me
I don’t hear a word they’re saying
Only the echoes of my mind

People stopping staring
I can’t see their faces
Only the shadows of their eyes

I’m going where the sun keeps shining

Thru’ the pouring rain
Going where the weather suits my clothes
Backing off of the North East wind
Sailing on summer breeze
And skipping over the ocean like a stone

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Contact

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Gli occhi azzurri di Jodie Foster si illuminano, quando riconoscono il suo papà nell’essere extraterrestre che lei così tanto ha ricercato. Sulla spiaggia dalla sabbia candida, con sopra un qualche evento cosmico di colore rosso acceso, il “contatto” è dunque con noi stessi, con la nostra vita, la nostra memoria. E i nostri dolori incancellabili, le persone perse nelle spirali e nei tunnel dei nostri viaggi ci fanno compagnia, mentre andiamo avanti, la mattina, col sapore del caffè in bocca, in una giornata di sole splendida. Le corazze di nanotubi di Carbonio, gli space shutlles che ci decollano accanto, le chimiche del nostro cervello in un incessante andare e tornare, mentre i tasti dei computer si illuminano al nostro tatto. Non dimentico, e accarezzo.
 

weekend

 

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No, non voglio lasciare queste pagine con il testo di una canzone malinconica. Just a big smile, look at the sky, think about space shuttles, stars. Strade da percorrere, oggetti ed idee da scoprire, fuori e dentro. And a little bit of rock’n’roll. Città che ci aspettano, passanti che ci sfiorano, traiettorie che si toccano. Film su schermi enormi, goals impossibili che si realizzano, piatti deliziosi da gustare.  Con gli sguardi, con la bocca, con le mani. And love.

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Boeing 707

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In the early morning rain
With a dollar in my hand
With an achin in my heart
And my pockets full of sand
I’m a long way from home
And I miss my loved ones so
In the early morning rain
With no place to go
Out on runway number nine
Big seven-o-seven set to go
But I’m stuck here in the grass
Where the cold wind blows
Now the liquor tasted good
And the women all were fast
Well there she goes my friend
Well she’s rollin down at last

Hear the mighty engines roar
See the silver bird on high
She’s away and westward bound
Far above the clouds shell fly
Where the mornin rain don’t fall
And the sun always shines
She’ll be flyin o’er my home
In about three hours time

This old airports got me down
It’s no earthly good to me
cause I’m stuck here on the ground
As cold and drunk as I can be
You can’t jump a jet plane
Like you can a freight train
So I’d best be on my way
In the early morning rain

 
 
…missing flights
 

Knights

 

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Dai miei schermi, in tutti questi anni che ho seguito le corse di F1, sono due le immagini mi hanno colpito di più. In un GP a Spa (quello dove Coulthard e Schumacher si tamponarono, con scazzottata susseguente ai box) la board camera inquadrò il campo visivo di un pilota sotto la pioggia. Era un’impresa impossibile guidare, l’acqua era spessa e scura, una luce rossa si intravvedeva appena, davanti, così lontana e terribilmente vicina, la vettura in testa. “Sono degli eroi”, gridò occhioni scuri. L’altra scena è lo svestimento ed il peso dei tre che vanno sul podio, alla fine del vortice immaginifico, ipertecnologico, globale. Si levano i caschi multicolori, si sfilano gli auricolari  e i passamontagna, rovesciando i capelli miliardari fradici di sudore, gli occhi spalancati dall’adrenalina. E ieri, al di là di tutto, crederci, fino in fondo, fino allo spasmo. Non c’è niente, nessun miliardo o mercato o trucco, o circo multimediale, i cavalieri sono lì. Nessuna folla li può raggiungere, il frastuono assordante è dietro, lontano. I gioielli che cavalcano, splendidi e gelidi, pezzi del nostro mondo asssemblati con dura precisione, cambiano e non contano poi tanto. Cavalieri ancora bambini.

Domani

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Domani sotituiremo le lampadine a incandescenza con i LED, per risparmiare energia. E avremo tante belle luci colorate (il blu, soprattutto, che piace tanto a me). Domani potremo costruire dei computer con logiche diverse: non più solo 0 o 1, oppure sì o no, ci saranno altre opzioni, utilizzando i principi della fisca quantistica, e le sue stranezze. E saranno sempre più piccoli, e potenti.  Domani useremo (compagnie petrolifere permettendo) auto ad idrogeno, ad emissione zero. Domani andremo su Marte, e lo colonizzeremo, costruendo tante piccole casette trasparenti a forma di bolle. Domani forse chiederò di fare l’astronauta, oppure di andare per un po’ a lavorare Barcellona, o a Berkeley. Domani pioverà. Domani tornerò a Liverpool, e respirerò il vento del mare d’Irlanda. E sorriderò un po’ di più, e farò sorridere voi un po’ di più. Domani scriverò qualche poesiola, o qualche storiella, e forse le farò leggere ad occhioni blu. Domani starò meglio, anzi a scrivere queste cose mi sento già meglio. Jane Birkin, o Brigitte Bardot, o Jane Fonda mi sorrideranno. E prenderò un Campari con Dick Feynman, che mi racconterà una barzelletta. E’ un buon inizio di giornata, con le corde che diventano fili di seta iridescenti. E adesso scappo, che devo tenere una lezione. Sono fatto così, e non posso farci niente. Perché forse il domani è già ora. Sun on you.

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Wormhole Antonioni

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“Da cosa stai fuggendo?”
“Guardati dietro.”
E’ una lunga strada alberata, Lei si volta e allarga le braccia, sporgendosi dalla decappottabile, sorridendo, mentre i capelli ribelli le volano tutt’intorno. E’ una scena di Professione reporter, che ho visto qualche giorno fa. E’ un altro universo, quello che ho visto. Un altro spazio tempo. C’era, sì, c’era. E un wormhole mi ha trascinato, ingoiato, risucchiato. Wormhole: “è una ipotetica caratteristica topologica dello spaziotempo che è essenzialmente una “scorciatoia” da un punto dell’universo a un altro (o tra universi paralleli), che permetterebbe di viaggiare tra di essi più velocemente di quanto impiegherebbe la luce a percorrere la distanza attraverso lo spazio normale.” Ipotetica, non provata. Ma io immagino che esista, stanotte, mentre penso alla vita che è venuta, alla vita che è. Al mondo, gigantesco vortice di immagini facce, situazioni affastellate una sull’altra. Non è nostalgia del passato, no, è solo una sensazione di vertigine, di perdimento. Quello che ero, che respiravo, semplicemente non c’è più. Tutt’intorno a me, altre storie ora.  Tutto un altro vivere, fuori e dentro. Televisioni che mostrano situazioni diverse, parole diverse per strada. Il pane e le rose? Cosa sono, dove sono? Altro. Pensieri di un universo diverso, la mia zattera naviga nel mare dal quale sono emerso all’improvviso senza accorgermene. Alla radio dicono che per i giovani il rock’n’roll è roba che non va, predicatori con la barba minacciano la fine del mondo in intenet (internet????).  Luoghi stravolti,  fatti stravolti. E’ un altro universo, con cose buone ma aliene. A me. Stanotte. Il wormhole mi ha trascinato senza accorgermene, in un universo parallelo. Così simile, continuo, ma la vaniglia non c’è più. Groppo in gola, dico le cose col loro nome. Poi metto su un sorriso vago, e continuo a navigare. Aspettando il messaggio  in  bottiglia dall’universo sparito.

Another Albert

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REM-The great Beyond
 
Ieri hanno dato l’annuncio del premio Nobel per la fisica, assegnato ad Albert Fert e a Peter Gruenberg. Beh, per me è come se la mia squadra avesse vinto la Champions League, perché lavoro nello stesso campo, più o meno. La scoperta della “Magnetoresistenza gigante” (per la quale i due esimi hanno alzato la Coppa) ha avuto un impatto tecnologico notevole, nella capacità di memorizzare dati sugli hard disk dei computer. Uno degli scopi delle mie ricerche è di trovare materiali nuovi, assemblati un po’ come si preparano nuovi piatti di cucina, per aumentare sempre di più la capacità dei dischi. Ho visto Fert ad un congresso a Stoccolma, lo scorso luglio, parlare dei suoi nuovi esperimenti. Quel congresso, di cui ho scritto qui, mi ha dato una carica grandissima.
Non c’è niente nella mia manica, come cantano i REM, e quello che faccio forse ha un senso. Mi sono posto molte domande, l’estate scorsa, sotto il sole di Minosse. Su di me, sul senso della vita (ma va? non era un film dei Monty Python?) e non è che abbia trovato molte risposte. Ma  devo continuare a chiamare cose e persone col loro nome, senza nodi alla gola.    Non c’è niente che noi non possiamo fare, niente. E anche se i grovigli che abbiamo dentro rimangono, non è poi così essenziale dipanarli. Adesso prendo i miei libri, il mio computer e vado a spiegare a tre ragazzi cos’è un semiconduttore. Tenendo a mente che l’importante è trasmettere, non dire. Sono sicuro che sarà una bella lezione. E prima o poi vedrò le luci blu.

 I’m breaking through
 I’m bending spoons
 I’m keeping flowers in full bloom
 I’m looking for answers from the great beyond

 

Lonely Albert

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Albert Einstein pubblicò la teoria della Relatività Ristretta nel 1905, a 26 anni. A 36, nel 1915, pubblicò la teoria della Relatività Generale. Ricevette però il premio Nobel nel  1921 per un altro suo contributo alla scienza, e cioé per l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico. Le cellule fotoelettriche sono presenti in molti dispositivi di uso corrente. La luce colpisce un certo materiale, e si genera una corrente elettrica. La spiegazione di questo effetto risiede nella fisica quantistica. La luce è composta da corpuscoli detti fotoni, che hanno una determinata energia, legata alla frequenza (cioè al colore) della luce stessa. La fisica quantistica dà una visione del mondo completamente diversa da quella deterministica, diciamo così, della fisica classica, ed è basata sull’indeterminazione, e sulla probabilità. Non si può mai prevedere in modo assolutamente esatto come evolverà un certo fenomeno. Se ne può solo calcolare la probabilità. Einstein contribuì a questa nuova visione del mondo, con il suo lavoro sull’effetto fotoelettrico, ma ne rifiutò le conseguenze filosofiche. Sua è la celebre frase “Dio non gioca a dadi”, e spese gli ultimi vent’anni della sua vita per trovare una teoria più completa di carattere deterministico. Una teoria del tutto, bella come potevano essere quelle relativistiche. Ma Einstein fallì in questo suo sforzo epico. La fisica quantistica funziona, eccome.  La scienza, la tecnologia e l’industria l’hanno accettata per quello che è, e la applicano felicemente. I nostri dispositivi elettronici (PC, televisioni, gameboy etc.) ne sono la testimonianza più concreta. Certe volte ci si convince che il mondo, che le persone non possano andare in una certa direzione. Ma loro ci vanno, e non c’è niente da fare, tutto funziona lo stesso. Si rimane seduti, a contemplare quella che dovrebbe essere una catastrofe, e non lo è. Non ci resta che sorridere, e magari suonare il violino, come faceva Albert, anche se una coda del grande dolore che abbiamo provato rimane sempre. Ma l’abbraccio, l’amore per noi stessi e per chi prende strade diverse non deve mai mancare. O forse basta il semplice fair play. 
 
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REM- Imitation of life
 
This lightning storm
This tidal wave
This avalanche, I’m not afraid
Come on, come on, no-one can see me cry
 

A blogger song

C’è una canzone legata indissolubilmente al mio blog. Oggi l’ho sentita alla radio, in Condor. Beh, eccola qui. Sun on you.

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Paul Weller-Thinking of you
 

P.S.: e nel mio autocommento (risposta a .) c’è scritto perché… 

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Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere. Io non te lo permetterò.
(Cormac McCarthy, La Strada) 
 
Sorgerà ancora…

…and this?

 

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….Dunque, immaginate di trovarvi davanti un muro, e volete andare dall’altra parte. Non c’è storia, o vi arrrampicate, oppure lo saltate. Se il muro è perfettamente liscio, e non ce la fate ad arrampicarvi, dovete saltarlo. E se non avete l’energia necessaria, nè strumenti adatti, non c’è speranza. Potete sbatterci solo la testa contro. E’ proprio così? No, non è così. Se voi foste una particella piccolissima, diciamo, un elettrone, e le pareti del muro non fossero troppo spesse, POTRESTE passare. C’è una possibilità, certe volte neanche troppo piccola, che si possa passare. Questo è l’effetto tunnel….

(happy Birthday, Mr. Aka, qui

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…and on with this…

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……Per inciso, è l’equazione di Dirac, una delle piu’ belle equazioni mai scritte, per me. Descrive il moto di particelle infinitamente piccole (tipicamente elettroni) a velocità elevatissime, vicine a quelle della luce. E’ elegante, completa. Splendida. ….. E’ come un gol di Ronaldinho. Ne fa alcuni bellissimi, che sembrano semplici, ma non lo sono. Ed io sono convinto che lui abbia faticato moltissimo per potere riuscire a fare quelle cose straordinarie…..

(Ho sempre sognato…., qui

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…and back to this…

 

 

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….Elaine legge un libro seduta sulla spiaggia di Santa Barbara, ha davanti il mare, si intravedono le Channel Islands attraverso la foschia. Edo la riconosce subito, è come tuffarsi nell’ oceano, si avvicina camminando sulla sabbia calda  con le scarpe in una mano ed un pacchetto in un’altra, gli occhiali da sole un po’ storti. Elaine percepisce la sua presenza quando è vicino, sorride senza guardarlo. E’ abbronzata, i capelli biondissimi più corti, un po’ ingrassata, forse. “Eddy boy, he crossed the ocean for me…”,  canticchia sorridendo, guardando le isole lontane. Edo si siede accanto a lei, senza parlare….

 

(Long Kiss Goodbye, è su Splinder, qui)

…went on with this…

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….”Ogni tanto vengo a vederla, l’ultima volta ci ho portato mio figlio qualche settimana fa. E’ rimasto senza fiato, come me quando venni qui la prima volta con mia madre.”
Dom prese la mano ruvida di Horst, lo sguardo ancora verso il busto.
“E’ bellissima”, mormorò, con un filo di voce. “non… non ho parole.”….

(Horst et Dom, qui

Polvere vitale

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Bowie-Life on Mars
 
Ho sempre guardato con un certo distacco alle scienze della vita, soprattutto a causa della mia ignoranza in materia. Di biologia molecolare, genetica, evoluzione etc. ho pochi ricordi confusi che risalgono al liceo, scarse nozioni impartite da  docenti poco motivati e molto poco bravi. Ma ovviamente sbaglio. Sotto il sole di Minosse, ho letto un libro straordinario sull’origine e l’evoluzione della vita sulla Terra, dalle prime reazioni chimiche di molecole organiche che hanno incominciato a riprodursi e organizzarsi fino alla mente umana. L’autore (Christian De Duve) è un professore belga, premio Nobel della Medicina. Non ne sapevo niente, o quasi, dell’immensa quantità di argomenti che tratta, e qualche volta la mia scarsa attitudine a ricordarmi termini e nomi mi ha messo in difficoltà. Ma ne ho tratto molte, moltissime lezioni. La chimica è alla base di tutti i processi e le funzioni negli esseri viventi, e questo lo sapevo già. Non sapevo invece che la selezione naturale avviene già per le reazioni chimiche della “protovita”. Le molecole si assemblano, reagiscono, cambiano, e solo le reazioni più funzionali si perpetuano. Fino a quando, casualmente, avviene in modo spontaneo una reazione più efficiente, che rimpiazza le precedenti. Le mutazioni spontanee che avvengono nelle specie viventi, compresa la nostra, funzionano nello stesso modo. E’ come un gigantesco Lego, che si costruisce e piano piano si complica sempre di più. L’ambiente esterno, la Terra con le sue catastrofi e le sue crisi indirizza il gioco. E “la vita si adatta ai margini del caos”, come riporta il libro (la frase è di un altro scienziato, Kauffman). La  teoria di Darwin della selezione naturale, alla base dell’evoluzione delle specie,  è una delle più grandi conquiste del pensiero umano, a mio parere. E sembra incredibile, impossibile che ci sia ancora chi non l’accetta.  Anche se per un verso posso capirlo, perché inquieta anche me. Tutto questo ha un senso? Noi siamo una fogliolina sull’albero della vita, con la peculiarità di possedere una coscienza di noi, e soprattutto della nostra morte. Ma siamo arrivati grazie ad una miriade di piccoli passi successivi casuali. L’universo sembra freddo ed inospitale, completamente alieno da ciò che è la Terra, la nostra culla, a volte neanche troppo confortevole. Ci sono altri pianeti come i nostri, sicuramente, ed altre forme di vita, anche intelligenti, ma al momento le probabilità di individuarli, e di mettersi in contatto con loro sono estremamente poche. Se esiste un orologiaio che ha assemblato tutto ciò, sembra averlo fatto alla cieca. Già, un orologiaio cieco (la definizione è di uno scienziato che si chiama Richard Dawkins). E così, nella nostra fredda solitudine, continuiamo il viaggio. Ma è un viaggio meraviglioso, e anche se “è tutta chimica”, le emozioni, le speranze, le idee che riempiono la nostra mente fanno brillare l’orologio, che scandisce lo stupore, la bellezza, l’amore.

The singular adventures of w

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Traffic- Freedom Rider
 
Questa foto ritrae il posto dove lavoravo quando incominciai a scrivere, quasi tre anni fa. Sono pochi, tre anni? A me questi sono sembrati una vita. Non sto a spiegare cosa c’è nell’immagine, un laboratorio con strumenti complicati. Acciaio, elettronica, ottica, computer. Quello che sembra un caos, ha ragione di essere così com’è, e ogni oggetto sta al suo posto, ha la sua funzione. Autodisciplina, rigore, entusiasmo e tanta pazienza. Fatica.
Non contiamoci balle, per ottenere bisogna lavorare. E ci sono prezzi da pagare. Ma qualche volta ci si interroga sugli obiettivi. E’ quello il momento topico, non si può sfuggire alle domande che ci si pone. E non sempre si trova subito la risposta. Però c’è sempre, sempre un retrogusto dolceamaro nel mio essere, dovuto alla consistenza dei miei sogni. Una parte inafferrabile, evanescente e sempre presente, che mi accompagna nei pensieri, parole, opere e, ahimé,  omissioni. Forse è questo che mi salverà, perché la logica ed il pensiero non sono sufficienti per vivere. Quel piccolo pezzo di DNA, che non so quale sia, non lo sa nessuno,  fa sì che io, noi,  qualche  volta respiriamo un’ossigeno diverso, ma vitale. Che consistenza hanno i sogni?
 
Pubblicato in Greg

Professor Helga

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Traffic-Every Mother’s Son
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Arrivo in ritardo al tuo seminario, l’aula è già piena di colleghi e studenti seduti, attenti, riflessi dello schermo sugli occhiali, serietà di sguardi e intensità di menti. Come sempre, mi metto in fondo. Hai già incominciato a parlare, nel tuo tailleur blu con delle strane code, di taglio indubbiamente nordeuropeo. Ci siamo scambiati dei mail più di un anno fa, pensavamo di collaborare su un progetto di ricerca, poi siamo stati travolti dalle tante cose da fare, io anche dai miei pensieri, trascinato dall’inerzia della mia malinconia. Nell’ultimo messaggio, mi hai scritto con orgoglio della tua nuova posizione, una cattedra in un’università prestigiosa, “l’unica donna professoressa nella nostra materia della Ollanda“, il solo errore di ortografia, non sei italiana, ma hai vissuto e studiato a Roma, dove ci siamo conosciuti in un tempo che sembra la favola di un’altra dimensione. Fumavi allora, e mi guardavi con i tuoi occhi azzurri tedeschi, mentre parlavavamo del più e del meno sulla terrazza dell’Istituto, nelle pause del lavoro di tesi, con lo sguardo sui pini marittimi. Ci siamo incontrati  dopo, in altri paesi e città, conferenze, esperimenti, nella nostra vita un po’ randagia. E adesso risplendi, ci spieghi magie di motori fatti da molecole che fanno salire le gocce d’acqua all’insù per piani inclinati, e quando ci fai vedere il video dimostrativo è un “ohh” di meraviglia. Mi chiedono di accompagnarti a pranzo, e chiacchieriamo di lavoro e famiglie, della tua casa che immagino sotto un cielo grigio, con un bel prato verde, la stai sistemando per avere spazio per i tuoi nipoti.  Poi mi spieghi di pesci con piccoli magneti nel naso che li guidano nelle loro rotte. I tuoi occhi sono un po’ più liquidi, un po’ più tristi. E il peso del successo, il prezzo del lavoro mi sembra così evidente, ma forse non lo è. Telefonate che ti raggiungono mentre discutiamo, ti riaccompagno nell’ufficio del grande capo. Ti saluto, ma mi sorprendi, vuoi parlare ancora un po’ con me, nonostante tu abbia un’agenda senza spilli. Nel mio studio mi chiedi scusa di non avermi più scritto, e sei sincera. Occhi azzurri, tailleur blu, quando ti abbraccio mi fai pensare al nostro tempo, e all’irreversibilità, ai cerchi che non si chiudono mai, perché è impossibile. Fuori il cielo è plumbeo, i fiori del vaso sono secchi.
 
 

Resonance 5

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Supponiamo che un bambino vada in altalena. L’altalena oscilla, su e giù, mentre il genitore la spinge. Per fare aumentare l’altezza massima a cui arriva il bambino, non è necessario spingere con molta forza. Basta dare delle spintarelle piccole, sempre alla stessa frequenza, che è quella con cui l’altalena sale e scende. Ogni struttura meccanica ha una propria frequenza di risonanza. Cioè oscilla ad una determinata frequenza caratteristica. Se la si sollecita dall’esterno con la stessa frequenza, facendola vibrare, le vibrazioni saranno sempre più intense, e la struttura rischia di rompersi.
I ponti possono crollare (è successo) se le onde del mare, o dei fiumi che si frangono su di loro hanno la frequenza giusta. La risonanza è un fenomeno che avviene in altri casi, ad esempio i circuiti e le reti elettriche. Recentemente ho letto di una teoria, secondo la quale le reti neurali (cioè le reti formate dalle cellule nervose nel cervello) possono andare in risonanza, ovvero rispondere a sollecitazioni “giuste”, dando sentimenti di piacere intenso, o di benessere. Il libro che ho letto dava questa teoria  solo come una ipotesi, ma ognuno conosce questo tipo di sensazione. Leggere alcuni post nell’ultimo anno mi ha dato delle risonanze, mettiamola così. Ovviamente esistono risonanze più intense, non lo nego. Ho comunque deciso di scegliere e di segnalare 5 post (come fa il protagonista del romanzo “Alta fedeltà”, di Nick Hornby) che mi hanno fatto risuonare le reti  neurali. L’elenco è in ordine alfabetico.

1) Aka racconta una storia (vera) di separazione in una guerra vicina nel tempo e nello spazio, rimossa e dimenticata. Qui

2) Cleo traffica in saponette nell’isola della rivoluzione. Qui.

3) Egidio (bambino?) lancia sassi e guarda gatti. Qui.

4) Un lungo addio raccontato da Ju. Mi ha toccato moltissimo, per esperienze simili. Qui.

5) Nina, Miss Dior ed il pesce dei poveri. Struggente e lucido. Qui.

Sotto il sole di Minosse, vi ho pensato. E vi ringrazio.

 
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Paul Weller- Wishing on a star

Greg goes meltemi

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Soffia il meltemi e il turchese, lo zaffiro e lo smeraldo si infrangono in infiniti brillanti, mentre il sole di Minosse picchia senza tregua sui tatuaggi dei turisti nordici e sulle rovine di tremila anni. Minosse e Dedalo si rincorrono nella mia mente, sullo scoglio dell’isola di Chrissi. Dedalo é l’ingegno, il padre di tutti noi che usiamo il multiforme ed ambiguo intelletto umano per studiare, investigare, scoprire, progettare. Il labirinto funzionava, cazzo. Funzionava.  Teseo ha trovato la via d’uscita. Le ali funzionavano, bastava non avvicinarsi al sole. Ma come sempre accade, c’è qualcuno che non guarda il manuale di istruzioni, o che  semplicemente se ne fotte. Dedalo, tu sai che noi fisici moderni abbiamo un peccato originale. La  Meccanica Quantistica e la teoria della Relatività, i nostri gioielli più splendenti, hanno prodotto questo:

235U + n → 236U instabile → 144Ba + 89Kr + 2/3 n + 211,5 MeV (fissione nucleare, bomba A)

2H + 3H → 4He + n + 17,6 MeV (fusione nucleare, bomba H)

Dal 1940 al 1945 quasi tutti i più importanti scienziati che vivevano in America, parteciparono al progetto Manhattan, il quale realizzò con successo i primi ordigni nucleari. Fermi, Oppenheimer, Feynman, Teller, e così via, tutti contribuirono. Perfino Einstein, che scrisse una lettera al presidente Roosevelt per perorare la causa della bomba. I miei maestri. Se avessi vissuto in quel tempo negli USA, e fossi stato bravo, che avrei fatto? Dedalo, gli uomini sono così, tu lo sai. Per ogni buono c’è un cattivo, nella stessa natura, nello stesso DNA. Non siamo lupi, e nemmeno agnelli. Siamo aggressivi, ma ce ne rendiamo conto, perché coscienti. Cadiamo nel mare perché la cera delle ali si scioglie, dopo esserci avvicinati al Sole. Ma sopravviviamo, o meglio, la specie sopravvive. E quello che produciamo è splendido, però può essere terribile. Il mio “può” è ottimista. Vuole esserlo. Anche se il senso di tutto ciò non lo trovo, e forse non lo troverò mai.

 
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Bob Dylan- The times they are a’ changing

 

Nonsense universe

Forse è vero che l’Universo è senza senso. Forse è vero che noi siamo solo una fogliolina dell’albero dell’evoluzione, che cresce a caso, irripetibile nel cosmo. Forse. Ciò che è certo, è che spesso il vuoto può ingoiarci. Ma basta un attimo, un solo fottuto attimo perchè la luce arrivi, calda e densa. E l’inverno del nostro scontento si stemperi in un sopracciglio alzato. “What’s the fuss about it? Just live.”
Un cameriere invece di servirci giocava con un bambino, sotto il platano più antico nell’isola più antica. Just live.

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Jonathan Richman- Roadrunner  

 
 
 

Minoan sun

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No, non c’è più molto rock’n’roll nella mia vita, e le mie sopracciglia si sono infoltite.  Capito, o meglio, visto. And I REALLY don’t know what I’ll do.  Ma, ehi, neuriti e dendriti continuano a cercarsi, le sinapsi non sono consumate e il braccialetto è ancora al polso. E ancora voglio godere, dei bianchi sassi riarsi, del meltemi che infrange il turchese, del Daiquiri sorseggiato guardando il faro.
(Minoan) sun on you
 
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Neil Young-Lotta love
 

Michelangelo ed Erwin

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Ho rivisto Blow-up la scorsa notte. Non voglio fare una celebrazione di Antonioni e della sua opera. Però il suo film mi ha fatto molto pensare al concetto di realtà, e della sua percezione. Il protagonista scopre  un omicidio in un parco attraverso le sue foto, trova il cadavere dopo una successiva visita notturna al luogo del delitto, ma poi tutto scompare, si dissolve: le foto ed il morto. Il film si conclude magistralmente con una partita a tennis immaginaria tra due ragazzi vestiti da clown, senza racchetta e senza palla. Il protagonista assiste alla partita, e partecipa alla finzione, rilanciando la palla immaginaria che è uscita dal campo.
Penso alla realtà, ed alle leggi fisiche che esprimono il comportamento della materia, della natura. La realtà è percepita attraverso i nostri sensi, in primis la vista, ed elaborata dal cervello. Esiste una realtà oggettiva, “altro” dalla nostra elaborazione, cioè indipendente dalla nostra esistenza? Se io muoio, la Terra continua a girare intorno al Sole? Le informazioni che ci scambiamo attraverso il linguaggio, o le espressioni gestuali, portano ad una base comune, ad una oggettività, appunto. E qui c’è il primo passaggio spinoso. Soprattutto ora, che lo scambio di informazioni avviene sempre più in maniera indiretta, attraverso strumenti quali giornali,  telefono, radio, TV, internet e quant’altro. Non è detto che ciò che viene condiviso sia reale. Però in qualche modo lo diventa, nella nostra mente. Scopro l’acqua calda, ma è così. La Terra gira intorno al Sole, ma in antichità si pensava il contrario, perché noi vediamo il Sole muoversi. Il senso comune, in questo caso, fallisce. La “morte- non morte” in Blow up mi ha fatto pensare alla realtà della Fisica Quantistica, dove le particelle seguono leggi a carattere probabilistico, e non deterministico. Una particella può essere in uno stato dove una sua caratteristica particolare (ad esempio, il suo spin) ha il 50% di probabilità di essere in un modo ed il 50% di probabilità di essere in un altro. Se effettuiamo una misura per determinare questa caratteristica, potremo ottenere un risultato, o l’altro. Si può arrivare addirittura a dei paradossi, quali quello del gatto di Erwin Schrodinger (uno dei fisici che ha  gettato le basi della Fisica Quantistica). Mettiamo un gatto in una stanza. Prendiamo una particella soggetta ad un processo di decadimento, che emette radiazione. La radiazione attiva un congegno letale per il gatto. Ma il processo di decadimento segue leggi probabilistiche, proprie della fisica quantistica. Può decadere oppure no. Se chiudiamo la stanza, con dentro la particella, il congegno letale ed il gatto, non sappiamo che succede a quest’ultimo. Può essere vivo o morto. Il suo stato dal punto di vista fisico è “né vivo, né morto”. Oppure tutte e due le cose. E’ un po’ quello che succede in Blow-up, no? Forse non  è esattamente la stessa cosa. Però  la realtà cambia, perché non è detto che la nostra percezione sia corretta, non è detto che lo scambio di informazioni che porta alla fondazione della realtà oggettiva sia avvenuto bene, e  non è detto che i risultati delle osservazioni siano certi e ripetibili. Forse sono banalità quelle che scrivo. Però il film è splendido, e le scene, i dialoghi, le situazioni sono affascinanti. E l’aspetto “glam”, la bellezza delle modelle e delle attrici che vi compaiono lo fanno risplendere di una luce magica, contrappasso alla serietà delle questioni che affronta.
 
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P.S.: L’esperimento del gatto di Schrodinger è  puramente concettuale, un paradosso. Non è mai stato compiuto. Per motivi tecnici, non è possibile realizzarlo. Anche se lo fosse, nessuno lo farebbe con un animale per motivi etici, io per primo, in quanto ho due gattini adottati da poco.Dopo questa precisazione, vado in ferie più tranquillo.
 

 

 

A (super) brief history of time

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Stephen Hawking non me ne voglia, se parafraso il titolo di un suo celebre libro divulgativo, che per inciso non ho ancora avuto il piacere di leggere (il titolo in italiano è “dal Big Bang ai buchi neri”). Dunque, in principio è stato il Big Bang. E’ avvenuto, secondo alcune misure astrofisiche, circa 13,7 miliardi di anni fa. Dal “punto singolare dello spazio-tempo” l’universo ha incominciato ad espandersi. E’ nata la materia primordiale, calda e densa, che seguiva delle leggi fisiche molto diverse da quelle di adesso. Prima diramazione: gravitazione da una parte, forze unificate dall’altra. Le forze unificate obbediscono ad una teoria detta del modello standard. La materia era molto diversa da quella che conosciamo noi. Il modello standard unifica le forze nucleari e quelle elettromagnetiche. Qualcosa si è rotto (in particolare, una determinata simmetria), e la materia ha cominciato ad essere composta da particelle elementari. Queste hanno dato luogo agli elementi più semplici (idrogeno ed elio) che costituiscono il carburante delle stelle, fornaci nucleari. Le stelle formano le galassie, che via via sia allontanano fra di loro, sempre di più, mentre l’universo si espande. Nel nostro sistema solare si sono formati i pianeti, compresa la Terra, e gli elementi chimici sempre più complicati (che so, carbonio, ferro, silicio etc.), poi l’acqua, poi il brodo primordiale, e le molecole organiche composte prevalentemente da carbonio, idrogeno ed ossigeno. All’interno di questo brodo reazioni chimiche tra queste molecole  hanno generato la vita nella sua forma più semplice, in organismi monocellulari. Questa via via si è evoluta, dalle alghe fino alle moltissime specie viventi, fino a noi. Più o meno. Non è escluso che questo sia successo in altre parti dell’universo, anzi, sono  certo che questo sia il caso. Da una decina d’anni a questa parte gli astrofisici stanno scoprendo che esistono sistemi di pianeti in altre stelle. Perché la vita non dovrebbe svilupparsi in altri posti? L’universo è grande, immenso, anche se finito. Quindi, credo che esistano forme di vita extraterrestre, anche intelligenti. Da un punto singolo, la singolarità spazio temporale del Big Bang, si è arrivati a qualcosa di molto complicato. Più che l’universo, il quale segue leggi relativamente semplici (anche se difficili da studiare e spiegare) intendo che si è arrivati alla vita, ed all’essere umano, che ne è cosciente. Che cosa ci dà la coscienza di noi stessi? L’anima? Mi dispiace, ma non credo  nell’anima. Quand’ero piccolo, immaginavo che l’anima fosse un oggetto fisico risplendente, dentro di noi, a forma di lisca di pesce, o di penna d’uccello. Sorrido al pensarci. Lo stato di coscienza, ed il pensiero, devono obbedire a delle leggi fisiche. Ma sono complicate. E ancora non le conosciamo. Ciò che è buffo della coscienza, è il fatto che grazie a questa siamo consapevoli di quello che accade intorno a noi, ma non sappiamo ancora perché questo succeda. Comunque, in questo modo penso di avere spiegato perché penso che in origine erano le equazioni, e poi il caos. O meglio, la complessità. Che risplende nel nostro mondo, nei nostri pensieri, nelle emozioni. E che, mano mano, più studiamo, più approfondiamo, e più troviamo difficile da comprendere. Ma la comprensione di ciò che accade è la nostra sfida, e noi dobbiamo accettare il guanto, e giocarcela. Fino in fondo. Fino a quando esisteremo, come individui e come specie. E’ la nostra missione, quasi una condanna. Non possiamo sfuggire. Fino all’ultimo rantolo. E adesso, un bel drink. E fra un po’ un tuffo nel mare blu, da dove veniamo. Sun on you.

 

 

Vola vola, farfallina

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La teoria matematica del caos affascina. La parola stessa evoca molte suggestioni. Una volta vidi casualmente un programma  TV per bambini nel quale una  presentatrice, una bella ragazza indiana, mostrava un esperimento semplicissimo per fare comprendere il concetto di moto caotico. Nel film “Jurassic Park” Jeff Goldblum,  in occhiali da sole e giubbotto di pelle nera, interpreta il ruolo di un matematico molto estroverso. Nel corso di una scena spiega alla paleontologa Laura Dern cos’è il caos matematico, facendole scendere una goccia d’acqua dalla mano lungo il braccio e dicendo: “anche se la goccia parte dallo stesso punto, non percorrerà mai la stessa traiettoria”. Bravo Jeff, che cita anche l’effetto farfalla: il battito d’ali di una farfalla può scatenare una tempesta da un’altra parte del mondo. Ci prova un po’, Jeff, con Laura. Spiegare la teoria del caos è un metodo per rimorchiare le ragazze? Chissà. In realtà, un fenomeno caotico è abbastanza semplice da spiegare (spero):

 

è un fenomeno governato da delle equazioni che descrivono una evoluzione nel tempo imprevedibile,  ed  è molto sensibile a piccole variazioni dello stato iniziale da cui parte.

 

Esempio (di wiki, non mio):
“…il fumo di più fiammiferi accesi in condizioni macroscopicamente molto simili (pressione, temperatura, correnti d’aria) segue traiettorie di volta in volta molto differenti.”

Se la goccia d’acqua scende in modo differente sulla pelle, è perché le condizioni iniziali da cui parte non sono mai esattamente le stesse. Basta pochissimo per cambiare la traiettoria. E cambia sempre,  comunque. Non sappiamo che strada farà, non possiamo prevederlo. Il butterfly effect, (termine introdotto da Ray Bradbury, scrittore di fantascienza, pensa te) spiega esattamente questo: basta cambiare poco all’inizio perché tutto cambi in seguito, molto drasticamente. E ciò che mi sorprende è che non si può sapere in anticipo cosa accadrà, anche se si conoscono (in linea di principio) le equazioni matematiche che governano il fenomeno. Questa è la cosa più strana. Non sono un esperto, so solo del caos un po’ per sentito dire, un po’ per letture superficiali, ma da fisico sono abituato al fatto che date delle equazioni che descrivono un fenomeno, se queste si risolvono si sa cosa succede in futuro. Nella teoria matematica del caos, questo non avviene. Imprevedibilità. Mi attira, ma mi inquieta un po’.

Spesso si dice “in principio era il caos”. Non è vero, almeno per me. Non è così. In principio erano delle belle equazioni, e poi è successo il caos. Nel quale sguazziamo, più o meno felicemente , più o meno consapevolmente.
Quindi, occhio alle farfalle. Un po’ di punk rock non guasta, visto l’argomento. Do you like Siouxie and the Banshees?

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Senza tempo, senza spazio

 
 
 
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The Clash- Brand new Cadillac
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L’auto-similitudine è un concetto matematico. Un oggetto “auto-simile” assomiglia a se stesso su qualunque scala lo si osservi. Cioè, tu lo vedi prima ad occhio nudo, poi con una lente di ingrandimento, poi con un microscopio ottico, poi con un microscopio elettronico. Sempre uguale. Pensa ad un abete. Il tronco, i rami, le foglie. Sono autosimili. Anche le coste viste dal satellite, le guardi, poi fai uno zoom, ed i golfi, le calette e le piccole insenature, una dentro l’altra,  si ripetono. Si possono fare un sacco di esempi di questo genere. Questo tipo di struttura si chiama frattale. Il concetto di frattale ha avuto un grande impatto nel mio campo, la fisica, e anche nelle altre scienze. Ma la cosa più sorprendente è l’estetica delle strutture a frattale. Di nuovo, la natura ci fornisce un senso del bello particolare, che ci spiazza, ci sorprende. La sensazione che si prova di fronte alle immagini frattali è di qualcosa di comprensibile e misterioso al tempo stesso. E ci si perde dentro, perchè la scala, le dimensioni fisiche non hanno più importanza. Cosa vuole dire essere grande o piccolo se sei in un frattale? Niente. Fantastico, vero? E in parte noi siamo fatti così, perché il mondo è anche così. E’ come un viaggio senza tempo e senza spazio. Buon viaggio, allora. Nel mondo che si ripete e si ripiega all’infinito.

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Talking infinity

 

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Santana-Corazon espinado

 

Here we are

talking infinity

with the blonde girl

sitting in the bar 

close to me 

and universe is a small olive

in my Martini.

Chit chat

neurons falling off my nose 

when neutrinos crossing

my Armani suit 

feeling them 

hearing breath of

stars curving space time

while Niels Bohr

sings salsa

with Dick Feynman

playing congas

in a folding grace.

Heart just pumps

relentless life 

brain does the job.

 

(w, 2007) 

 

 

Play it for me

328817bfa58adff77b88817aacc6ec3b.jpgSabato ho visto questo quadro. Non sono un grande appassionato d’arte, so che si tratta di un’opera di un pittore della scuola di Delft, Jacob Ochtervelt, contemporaneo del grande Vermeer. L’immagine non rende giustizia, è la sola che ho trovato. Sono stato a lungo in piedi, davanti a questa deliziosa opera. Il vestito rosso così luminoso, la grazia della figura che mi dà le spalle mi hanno affascinato. Ho pensato solo una cosa: suona per me. Per lenire la stanchezza di questo periodo. Per incantarmi. Per farmi sorridere. Per farmi continuare, a vivere e sognare. Per trovare il bello che c’è sempre. In ogni singolo attimo in cui gli atomi oscillano, le molecole reagiscono, i corpi si muovono ed interagiscono, le piccole scariche elettriche generate e ricevute dai nostri neuroni  si trasmettono, e gestiscono le nostre sensazioni. I nostri pensieri. I nostri sentimenti. Play it for me.

 

Pubblicato in Greg

And you?

 

 
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Yes- And you and I 
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Chissà se avrete il tempo e la pazienza di sentire questo splendido pezzo. Beh, trovatela, vi prego. Barocco, ridondante, fantasmagorico, perfetto, anche nel suo fruscio di vinile trentennale. Dura 10 minuti e passa. Mezza facciata. Come si diceva un tempo. Sogni, sogni verdi come la copertina del disco, opera di Roger Dean. Oggi mi è venuto in mente, anzi poco fa. Non ho resistito. Chitarre acustiche di Steve Howe, armoniche ed accordi. Un piccolo battito e poi, puff, incomincia. Il sintetizzatore di Richard Wakeman, il basso di Chris Squire, la voce di Jon Anderson. Gli Yes. A me piace un po’ tutta la musica, e questo disco, QUESTO disco l’ho comprato usato da un mio amico. E’ stato sciocco a vendermelo. E’ una reliquia, un tesoro. Sogni verdi, luci blu. E la voce di Jon (sì, senza h) è come un fiore che sboccia dalla terra arsa dei ricordi. La arerò di nuovo, e la innaffierò, perchè così deve essere. Per me. Così sarà. La vita piena di fiori è fantastica. Quella vita. Che ritornerà. And you?

Sull’acqua del Nord

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The Cure – just like heaven

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Ward sale sul piccolo palco delle presentazioni. Greg lo conosce, anche se lui non ricambia la conoscenza. Greg ha letto i suoi articoli, ed ha visto le sue presentazioni a diversi congressi. E’ un professore americano, importante nel suo campo. Rispetto all’ultima volta che l’ha visto, è invecchiato un po’.Occhiali e barbetta, ha un abito chiaro, elegante per lo standard degli scienziati americani , che sono soliti fare le presentazioni in blue jeans, magari con il codino, come capita all’autore di un esperimento bellissimo, di cui ho messo un’immagine in questo post. Il meccanismo del congresso, articolato si diverse sessioni parallele che si svolgono contemporaneamente, fa sì che non siano presenti moltissime persone,  ma l’aula è abbastanza piena. Siamo in 1800, qui a Stoccolma, e veniamo da tutto il mondo. E? un appuntamento triennale. Ma quest’anno si vedono cose assolutamente innovative, e possibili dettagli del futuro.  Ward introduce l’argomento della sua esposizione, che non spiegherò, perché è troppo difficile. Però, prima  della parte tecnica, diciamo così, fa qualcosa di straordinario, che tipicamente in questo tipo di incontri non si fa, o si fa molto poco. Si pone delle domande di carattere filosofico. E le pone a noi. Grosso modo,il succo è questo: secondo Ward, la scienza e la tecnologia stanno attraversando una rivoluzione. I fenomeni fisici che studiamo, e che sfruttiamo per i futuri oggetti che costruiremo per vivere, lavorare, e divertirci, sono complessi. Il mondo è complesso. Il sistema dei neuroni nel nostro cervello è complesso. I futuri dispositivi elettronici basati su, che so, su molecole organiche (compreso  il DNA), nanotubi di carbonio o nanofili di semiconduttore sono oggetti complessi. E l’approccio “riduzionista” della fisica del ventesimo secolo non serve. Cos’è il riduzionismo? E’ spiegare il funzionamento della natura attraverso il minimo numero di equazioni, ridurre il problema all’osso, scarnificarlo. Tutto viene dalle interazioni tra le particelle subatomiche, studiamo quello e abbiamo in mano tutto. Einstein aveva un approccio riduzionista, per esempio. E Greg l’ha sempre pensata più o meno in modo riduzionista. Ward dice che insegnamo in questo modo nele aule universitarie, ma poi quando facciamo ricerca, è tutta un’altra cosa. Perché il riduzionismo non basta più. E lo studio sistematico (quello che fa Greg nel suo laboratorio) è utile, ma non è sufficiente. Perché per trovare  delle cose veramente nuove bisogna avere le idee, e bisogna ragionare con la parte destra del cervello, e non la sinistra, che è riduzionista: Ward usa proprio questo esempio. Greg sobbalza. E’ colpito nel vivo. Il discorso di Ward dura 10 minuti, gli altri 20 sono per l’esposizione delle sue ricerche.

Più tardi, Greg è su uno dei punti di approdo dei battelli di questa bella ed un po’ asettica città nordica, la città dove si assegnano i premi Nobel. E’ un pomeriggio luminosissimo, come solo al Nord possono essere. La gradevole cantilena scandinava si mischia alle altre lingue, di turisti ed immigrati. La città storica sull’acqua, i marciapiedi puliti, le biondine che vanno e vengono con le borse dello shopping, l’orecchio al telefonino, o all’auricolare. Greg riflette su quello che ha sentito. Ward ha parlato, in un certo senso,  di libertà, e di fantasia. Embrace complexity, abbracciate la complessità, è uno dei suoi slogan. La piccola Dharma in me sorride.

Landing…

 
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The Cure-Friday I’m in love
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Adamo ed Eva mangiarono serpente in un ristorante cinese chiamato Conoscenza, e conclusero quella cena con litchi e biscottini della fortuna. Adamo ne aprì uno e lesse:”Eccoti le equazioni dell’universo. A te i calcoli, e buona fortuna!”.
Eva ne aprì un altro, dove c’era scritto: “Non credere a nulla di quanto ti racconterà quest’uomo”
Ecco come ebbe inizio la storia del nostro mondo! 
 
(Robert Laughlin, premio Nobel per la Fisica) 
 

Taking off…

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Oasis-Talk tonight

 

Poco ancora… In aria, di nuovo, finalmente… E per me non c’è niente di più bello. Annusare città diverse e sentire lingue che non capisco. I would like to speak any language, see all of you.

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sun on you. 

 

 

Pubblicato in Greg

Rock’n’sun

 
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 They might be giants- Why does the sun shine?

 

 

Vi propongo questa piccola lezione rock’n’roll su come funziona il sole. Geniale. Un mio collega me l’ha fatta sentire. Non potevo non metterla su. E il testo è assolutamente corretto, dal punto di vista  scientifico. Oddio, non so se gli atomi di Ferro sopravvivono a temperature così alte. Dopo le onde del post precedente, un po’ di sole. 

 

The sun is a mass of incandescent gas
A gigantic nuclear furnace
Where hydrogen is built into helium
At a temperature of millions of degrees

Yo ho, its hot, the sun is not
A place where we could live
But here on earth thered be no life
Without the light it gives

We need its light
We need its heat
We need its energy
Without the sun, without a doubt
Thered be no you and me

The sun is a mass of incandescent gas
A gigantic nuclear furnace
Where hydrogen is built into helium
At a temperature of millions of degrees

The sun is hot

It is so hot that everything on it is a gas: iron, copper, aluminum, and many others.

The sun is large

If the sun were hollow, a million earths could fit inside. and yet, the sun is only a middle-sized star.

The sun is far away

About 93 million miles away, and thats why it looks so small.

And even when its out of sight
The sun shines night and day

The sun gives heat
The sun gives light
The sunlight that we see
The sunlight comes from our own suns
Atomic energy

Scientists have found that the sun is a huge atom-smashing machine. the heat and light of the sun come from the nuclear reactions of hydrogen, carbon, nitrogen, and helium.*

The sun is a mass of incandescent gas
A gigantic nuclear furnace
Where hydrogen is built into helium
At a temperature of millions of degrees

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E’ proprio il caso di dirlo. Sun on you, miei cari. 

 

Solitude waves

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Ludovico Einaudi- Le Onde

 

Ho scritto spesso delle onde. Per certi versi, la natura si può considerare , nei suoi molteplici aspetti, un enorme, gigantesco, ammasso di onde che vanno, vengono, collassano, interferiscono. Onde di materia, in fisica quantistica. Collassate in oggetti macroscopici, come quelli sulla nostra scala. Onde di radiazione, che viaggiano nello spazio tempo, onde sonore, liquide e di gas, in mare, in cielo ed in terra. Energia che si propaga, viaggia, si insinua. Riceviamo e trasmettiamo. Interagiamo. Abbiamo bisogno di ricevere, abbiamo bisogno di trasmettere. E’ un bisogno disperato, proprio perché coscienti. Coscienti della nostra solitudine, che possiamo attenuare solo in trasmissione e ricezione. E Greg, oggi, sente questo brano musicale, che trasmette. Oh, se trasmette. Musica diversa da quella che è abituato a sentire. Niente chitarre elettriche, basso, batteria.  Solo questo piano acustico, che lo catapulta in un giorno freddo, luminoso sulla riva di chissà quale mare. Si stringe il cappotto e guarda, il su ed il giù, l’avanti e l’indietro, gli occhi semichiusi, dall’aria pungente, dalla luce perlacea. Senza parlare. E si chiede quando occhioni blu suonerà questo pezzo per lui. C’è da aspettare, ma lo farà, ne è sicuro, così come è certo che l’energia si conserva sempre.

 


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P.S. e se volete leggere qualcosa di veramente bello su Einaudi, andate da Ju. Qui.

 

Still there?

Greg, ci sei ancora? Io dico di sì.  La corda può sempre diventare seta iridescente. Il sole ancora scalda. Braccialetto di rame al polso, guardi il seminario del prof. venuto da Berkeley, che ti spiega cosa si può fare con degli oggettini mirabolanti che si chiamano nanotubi di Carbonio. E nella tua testa è tutto un “ohh, ahh…” di gioiosa meraviglia. Still there, Greg? Vedi il video di Joe Jackson, e bum, bum, la Dharma che in parte tu sei batte colpi proprio lì, sotto lo sterno, nell’organo che pompa sangue. Il caos è meraviglia, la curiosità è gioia. Le città invisibili più vicine.  E alla fine, indosserò il soprabito nero, mi metterò il cappello e raccoglierò la rosa, proprio come Joe, mentre esco nelle luci blu.

 

 

 

 Joe Jackson- Steppin’ out

 

Human

Oh sì, voglio annegare in questa acqua, la pioggia che si mescola col sangue etereo della memoria. Quegli orecchini così grandi, quelle labbra così rosse. Il mio braccio si abbandona sullo schienale del  divano blu. Human. Born to make mistakes. Gli occhi sul soffitto bianco, l’ennesima paglia sulle mie labbra sorridenti. Glam 80’s, vi amo, dio come vi amo. Vivere, solo vivere. Allora. Dormirò con questa sciocca musica nelle orecchie. E i miei occhi si apriranno su un sole dietro una nebbia purpurea. Voglio drogarmi dell’assenzio della falsa-vera giovinezza. Reality is true, damned, hard and silly. Cullami, cullami, acqua che cade dalle nubi di dolce, stramaledettamente dolce memoria. Goodnight, silly boy.

 

And you, just watch.

 

 

Est-West

 

d1ceb43627af2dcea46c73bbd2f594e0.jpgU-Bahn. Il treno giallo viaggia veloce e perfetto, sotto l’Est, e illumina le stazioni abbandonate, le scritte gotiche riaffiorano dai finestrini. I dipinti multicolore sul Muro che divide a metà la strada, nella sua lunghezza, nel silenzio domenicale del Checkpoint Charlie. Il bunker di Hitler abbandonato nella terra di nessuno, sterpaglie sul tumulo seminascosto. Neve nera su Kreuzberg, le strade con i negozi turchi, uomini magri coi baffi neri, occhi da Mediterraneo, rincasano in palazzi cadenti. Luci a Ku’damn, vetrine sfavillanti di articoli con estrogeni. Mercedes nere sulle autostrade cittadine che scorrono sopra il silenzio di casette grige ordinate ed uguali. Soldati russi in libera uscita, facce da bambini e zigomi alti, cappotti grigi sempre troppo grandi, Unter -den -Linten, di là. Dove le macchine sono scarse, piccole e colorate. Turiste sovietiche con i denti d’oro in fila per accedere alla torre della televisione. Che si vede, di qua, nella spianata dove gli immigrati tengono il loro mercatino. Era  Potsdamer Platz? Quella Potsdamer Platz? Alexander-Platz a scacchi bianchi e rossi, falce, martello e compasso sul palazzo basso di vetro. Prigione per un uomo solo,  Rudolf Hesse, nella caserma inglese di Spandau. Una ragazza bionda di Kiel mi scrive il suo nome scandinavo sulla sabbia di Krumme Lanke, in una giornata afosa. Le tre di notte, rincasando con la bicicletta sgangherata nel mio quartiere anonimo, accanto alle caserme americane. Wenders aveva ragione, se c’è un posto dove possono esistere gli angeli è Berlino, venti anni fa. (Però mi piaceva tantissimo).

 

(sull’onda delle memorie generate da “Le vite degli altri”)

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Smiling V.

Seduta sui tuoi piedi
scruti la sabbia
piccole dune
di dolore e di allegria.
Lacrime bagnate di salsedine
cadono, e mescoli
con un bastoncino.
Un piccolo castello
sorgerà
cementato con parole
piene di ironia.
Cuori cancellati dalla risacca
che porta conchiglie
di verità,

tu con le braccia tese
verso la linea dei due blu.

 

 


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Tamura on Monday

e4b0911c6816916334072a939790f306.gif Così si chiama questo fuoco artificiale giapponese. E’ bellissimo. Non so cosa voglia dire la parola Tamura.  Le nuvole sono grigie, oggi. Ed è Lunedì. Ho pensato di iniziare la mia settimana con Tamura. L’avevo già fatto vedere, un anno fa. Non ho molte parole dense di significato da spendere, sapete? Solo una speranza. Che le luci diventino blu, che  i miei occhi possano vederle, che possa fare sorridere voi e altri come voi. Che arrivi la festa. Una festa qualsiasi. Che la tazza di caffé che ho davanti riscaldi la mia anima, solo un po’. Che i vostri ed i miei pensieri siano un po’ più leggeri. Che i nodi si sciolgano bene. Che le azioni “carezze e baci” abbiano un incremento sostanziale, nelle borse di tutto il mondo, e non sia una bolla speculativa, per nessuno. Tamura on Monday, bring us something good.

 

P.S.: Tengo Tamura ancora un po’. Per la bella notizia che qualcosa si è mosso contro la vergogna della giornata dell’orgoglio pedofilo. 

 

 Stereophonics-have a nice day

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Invisible city-2

4932b12b162453db946fe7793aeeddf3.jpgCan I go for it? Will I go for it? Oggi ho fatto un primo, piccolo passo. Verso la città invisibile. Lascia che sanguini. Lascia che scorra. Lo space cowboy arriverà. La freccia del tempo punta lì. Mi viene da ridere, al pensiero. Mi tocco i polpastrelli. E poi stringo i pugni, solo un po’. Devo imparare una nuova lingua, e faticare come Adamo. Lì, precisamente lì. Su quel mare che non ho ancora visto. Dove voglio bagnare i mie piedi, e risciacquare la mia faccia.

 

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Watch the stars

 

Può succedere. Può succedere che oggi non mi senta tanto bene, e che torni a casa dal lavoro prima del tempo. Può succedere che piova, e che provi a passare con la mia bici tra una goccia e l’altra, con scarsi risultati. E che nel parco  vicino casa veda una ragazza bionda, giovane e carina, vomitare, forse perché è incinta, o forse perché è una tossica  che ha combinato qualche guaio su di sé (propendo, ahimé, per la seconda ipotesi). Può succedere che mi senta molto stanco, di questi tempi. E che la realtà faccia veramente schifo. Ma è veramente così? La mia risposta é NO. Forse i miei occhi hanno ripreso a funzionare,  come un po’ di tempo fa. Ieri ho scoperto che hanno commercializzato dei dispositivi con laser a luce blu. Una cosa impensabile pochi anni fa. Blu, il colore del paradiso. Ho anche scritto un post su questa faccenda. Adesso sto a casa e mi sento questa canzone. E’ una vecchia ninna nanna inglese, bellissima in questa versione dei Pentangle.  Questo è un nonsense post, ma il sole è tornato, ed i miei gattini stanno bene, dopo che uno dei due ha rischiato di morire per un virus.  Per oggi basta questo, domani si vedrà.

 

Watch the stars see how they roam
watch the stars see how they roam
you know the stars roam down
at the setting of the sun
watch the stars see how they roam

watch the wind see how it blows
watch the wind see how it blows
you know the wind shall blows
when the sun goes down
watch the wind see how it blows

watch the moon see how it glows
watch the moon see how it glows
you know the moon is gonna glow
when the sun goes down
watch the moon see how it glows


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Ziggy and earth

 

Suona Ziggy, per noi. Il fuoco indimenticabile non si spegne mai. Giù e su, su e giù. Succhiamo dalle tue labbra, accarezziamo i tuoi capelli. Ziggy il mancino. Con te siamo mancini. Blow-up! Minigonne vertiginose, capelli lunghi, nuove percezioni di realtà. Self-destruction, if necessary. Ma la terra gira sempre, ti tocchi i polpastrelli, e dici, cazzo, la realtà esiste. L’ego, forse, non più. Watch the stars, and see how they run. La gente si tocca sempre, Ziggy suona mancino, ed io torno giù, mentre mi ravvio i capelli, e stringo gli occhi sulla mia tazza da caffé. Life is what you touch.

 

David Bowie-Ziggy Stardust

 

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Diffraction

 

 

La diffrazione è un fenomeno tipico delle onde. La luce, visibile e non, è costituita da onde di radiazione elettromagnetica. Un’onda diffrange quando incontra un ostacolo sul suo cammino. Prendete la luce che filtra attraverso una persiana. Osservate il gioco di ombre e luci, che so, su un pavimento. Parte illuminata, parte scura, dovuta  all’ombra della persiana. Guardate bene. Il confine non è così netto, vero? SI osserva sempre una zona di mezzo, un grigio diffuso. E’ dovuto alla diffrazione. Le onde si insinuano, diffrangono. Negli  ultimi tempi, sto (ri)studiando le applicazioni della diffrazione per onde dovute ai raggi X. La diffrazione dai raggi X permette lo studio e la determinazione di molecole ed atomi nei cristalli. Gran parte della struttura delle molecole, anche quelle complesse, come il DNA, ad esempio, è stata determinata attraverso il fenomeno della diffrazione dei raggi X. Con molta precisione. La struttura è fatta così, gli atomi disposti in questa maniera e così via. Personalmente, sto cercando di capire come si dispongono gli atomi di una particolare specie sulle superfici dei cristalli. E sto analizzando i dati che provengono da esperimenti di diffrazione dei raggi X. Dunque: Le onde eludono, aggirano gli ostacoli, creano zone “grigie”, indeterminate. Noi le guardiamo, le studiamo e determiniamo con grande accuratezza la posizione di oggetti piccolissimi. Dalle sfumature, chiamiamole così, alla misura  di precisione. Sembra un paradosso, ma avviene in questo modo. Nella vita è tutto il contrario. Le sfumature non portano a niente, o meglio, solo suggestioni ed emozioni. Parole sfumate, indeterminazione nelle posizioni. Niente è netto, se non si vuole che lo sia. Bellissimo, il discorso “sfumato”. Ma ti lascia sempre l’incertezza. E non sai mai, alla fine, che razza di interpretazione dare. A me affascina lo stesso. Però, vuoi mettere con un bel numero. Questa cosa è fatta così e non cosà. Il tale oggetto si trova lì, non da un’altra parte. C’è sempre un margine di errore, ma puoi ridurlo, o sperare di ridurlo.  Dove porta questo discorso? Forse da nessuna parte. Mi piace la suggestione, la sfumatura, l’evocatività. Ma è meraviglioso che un fenomeno così sottile, “sfumato”, come la diffrazione delle onde porti ad una certezza, fino a prova contraria. E che noi siamo in grado di interpretarlo. 

 

Aggiunta: l’italiano di questo post non è granché. L’ho sistemato un po’. E per essere evocativi, ci metto:

David Bowie, Life on  Mars

 

 

 

 

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*

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Ineludibile
Indelebile
Inevitabile
Indispensabile
Indisponibile
Inessenziale?
Inamovibile
Intollerabile
Inaccettabile?
Pain and joy
At the same time.
Kiss

 

 

 

David Bowie: The man who sold the world
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Beautiful day

Mi piace, questo video. Mi fa pensare ai vari aeroporti in cui ho stazionato. Bruxelles, in particolare, ed i suoi cioccolatini, che adoravo e compravo sempre per portarli nelle due case, qui e Liverpool. E dividerli, con gli altri. Dividiamo un po’ di Neuhaus, ne vuoi? Sorrido, mentre apro la scatola, e te ne porgo uno.  E poi, oggi è veramente bellissimo. Ho sentito gli U2 anche prima, quindi, perché no? Pure Joy. Under a cruel and gentle sun. Cammino.

 

 

 

 

 

Ciao Bill

 

Ciao Bill. Ho scritto di te e di Scarlett un po’ di tempo fa. Beh, la scintilla scocca proprio qui, no? Quando lei fa il Karaoke su “Brass in Pocket”, dei Pretenders, in parrucca rosa. E tu le rispondi con “More than this” dei Roxie. Il cuoio lucido e morbido di Chrissie Hinde contro la  cravatta stretta di Brian Ferry. E Tokyo è tutta una pazzia, di cui non comprendete la ragione, ma che vi avviluppa in un piccolo vortice di sentimenti. Non scopate, no, tu le massaggi i piedi e le dai una carezza. E io tifo per te, Greg-Weller mette su gli striscioni e da’ fiato alle trombe, mentre il gatto gli dorme accanto, in una serata di bora nera sul Carso. Bill in fase “acquisto Porsche”, perché tu i denari ce li hai. E sei bello, terribilmente divertente. Sei americano, ma ti preferisco inglese.  Ciao Bill, ripenso a te due anni dopo. Mi scappa da ridere, mi fumo l’ultima sigaretta, tifo ancora per te-me, e ho un po’ di nostalgia dei miei occhi di due anni fa. Solo un po’. Perché tanto lo so che ritornano. E adesso di gatti ne ho due. 

Plat du jour: The Pretenders, Brass in Pocket

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Under a cruel and gentle sun

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Vorrei che i miei occhi tornassero quelli di prima. Lev, tu mi dici che forse c’è una  possibilità che questo avvenga senza fatica. Che la freccia del tempo perda l’orientazione. Che punti di nuovo all’indietro. Ma il Bingo non l’ho mai vinto. E allora, il viaggio deve continuare. E la  fatica del cammino è tanta. Ma basta incominciare. One step after the other. Slowly, painfully. Under a cruel and gentle sun. L’importante è sorridere. E sapere nuotare, per attraversare i fiumi. In termodinamica, percorrere un ciclo chiuso costa sempre fatica. Ma la fatica dà il sapore al vivere. One step after the other. Verso il mare, verso i miei occhi.

Plat du jour: Jimmy Cliff, Many Rivers To Cross
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Red wine

Birmingham, Manchester, Leeds, Sheffield, Newcastle, Liverpool. Sono lontani anni luce dalle West Indies. Dal sole della Jamaica, di cui posso solo immaginare i raggi che forse arrivano come delle frecce. Il primo CD che comperai, dopo una sterminata collezione di vinili,è una raccolta degli UB40, una band interrazziale di Birmingham, disoccupati organizzati che invece di mettersi a fare spogliarelli, come i protagonisti di Full Monty, suonavano un reggae dolce e orecchiabile. Penso ai bicchieri di Rioja di bassa qualità bevuti da Keith’s, il wine bar a due passi da casa mia, con i miei improbabili vicini, uno scozzese ed un marocchino (che certo non rispettava i dettami del Corano) mentre ammiravamo le bionde studentesse alticce che si sedevano in gruppi loquaci nei tavoli accanto al nostro. L’estate di Liverpool può essere dolce e risplendente, in alcuni periodi. Bevo il vino rosso  stasera, e brindo al mio passato, al mio presente ed al sole di domani. Con gli UB40 in sottofondo. Oggi ho preso due micetti in adozione, Red e Luna, e ne sono orgoglioso. Brindo anche a loro. Plat du Jour: Red red wine. 

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Forever

1) Oggi Greg ha rimesso il giubbotto jeans, da lui gelosamente conservato e riconquistato dopo una strenua battaglia con sua sorella, che indossava quando aveva 16 anni. Complice il suo dimagrimento. Greg è fatto così, conserva. Nel cuore e nella testa.
2) Oggi la giornata è splendida, la gente sembra avere un’aura intorno.
3) Occhioni blu era di buon umore.
4) Greg ama vedere commedie americane a lieto fine. Ad esempio, “Il matrimonio del mio migliore amico” con Rupert Everett, che in quel film è grandioso. Colonna sonora di Burt Bachrach.
6) Greg ballava le canzoni di Burt Bachrach, quand’era bambino. Gli piacevano, e gli piacciono anche adesso.
7) Greg canticchia: “Forever, forever, you’ll stay in my heart…”, e pensa che per lui  è così, ma non scrive altro.
8) Greg oscilla, su e giù, ma oggi è un su, decisamente su.
9) Greg finirà presto la storia di Sasha, l’italiano-sloveno che va in bici sul Carso , ma oggi ha voglia di scrivere cose allegre e sciocchine.
10) Il viaggio di Greg continua, e questo diventerà sempre più un audioblog. Plat du Jour: “Say a little prayer”, di Burt Bachrach (appunto) in versione reggae, cantata da Diana Krall. Deliziosa. Per i Pearljam, Patty Smith, i Cure, etc c’è sempre tempo, no?
Che il sole splenda su di voi.
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Ventiminuti 3 (revisited)

Mi è venuto in mente questo vecchio post. Per la musica e per domani. I know why.

La scorsa notte ho dormito tre ore. Capita. Il mio umore non era dei migliori stamattina. Poi il rush per accompagnare mia figlia a scuola. Sbrigati, sbrigati, sbrigati… la parola più usata da me negli ultimi tempi. In tempo, sì, in tempo, raramente facciamo tardi. Gli zainetti multicolore entrano, io mi volto e ritorno alla macchina. E i ventiminuti dalla scuola all’ufficio, sempre quelli. Ieri, oggi, domani. La radio locale che sento da quando vivo e lavoro qui mi regala questa perla. Why can’t we live together. I colori cambiano, i fiori risbocciano, il sole splende più vivo. L’organo a scatti, le percussioni, che meraviglia. Tutto assume un altro aspetto. Ed io che mi dico: adesso la metto su, non posso farne a meno. E’ quello che ho fatto. Buongiorno miei cari. Love, w

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Strada Jack Kerouac

 

 

Così si chiama un pezzo della pista ciclabile che ho percorso. Quando ho letto l’iscrizione, non ci volevo credere. Il mondo è meraviglioso. C’erano alcune sue  citazioni sbiadite su alcune targhe, qua e là, tra alberi di ciliegi, campi con le balle di fieno già formate,  casette con giardini in fiore, fabbriche alimentari, capannoni industriali. Segni della periferia che divora spazio e tempo in ogni parte del mondo, e  non risparmia niente. Automobili e camion che passavano nelle strade accanto, così vicini e lontani al tempo stesso. Sfrecciavano, piccoli astronavi di gente nelle loro orbite quotidiane.
Un sole sfolgorante, urlava la sua gioia. Il vento traverso mi rallentava, le colline che sembravano così vicine, verso le quali stavo andando, erano lontanissime, per le mie capacità ciclistiche. Qualche rezdora con la borsa della spesa, ciclisti vestiti di tutto punto che andavano nella direzione opposta. Direzione opposta alla mia, come se avessi sbagliato orario. Ma per me l’orario era perfetto. E’ così la mia  vita? Ho sbagliato orario? Controfase. Sì, forse sono in controfase. Al ritorno del mio giro, mi sono fermato su una panchina, e mi sono fermato proprio in quel tratto lì, dedicato a Jack. Mi sono seduto su una panchina, e mi sono acceso una sigaretta, in suo onore. Alla faccia del wellness. Ho letto “Sulla strada” a sedici anni, l’ho riletto a quaranta.  Non cambio mai, vero? No. Non cambio. Niente mi cambierà. Questa giornata ventosa, questo piccolo viaggio nascosto, è stato un balsamo di gioia e dolore. Non  di pace. Domani insegnerò, scriverò formule, lavorerò col computer, farò esperimenti, costruirò i miei soliti castelli. Il dolore e l’inquietudine che provo in questi tempi riprenderà. Ma questi momenti, così particolari, così intimi, mi resteranno dentro, come un sasso pesante che mi spinge giù, mi lega al mio essere vero, ammesso che esista. Tornerò sulla strada Jack Kerouac, in allegra compagnia. Ma il viaggio di Greg continua. In solitario.

The only people for me are the mad ones, the ones who are mad to live, mad to talk, mad to be saved, desirous of everything at the same time, the ones who never yawn or say a commonplace thing, but burn, burn, burn, like fabulous yellow roman candles exploding like spiders across the stars and in the middle you see the blue centerlight pop and everybody goes.“Awww!”

Il viaggio di Greg

Domani Greg non va al lavoro. Domani Greg prende la bici. Stacca il cellulare. Computer nemmeno a parlarne. Ancora non sa dove va. Tutto il  giorno via. Non lo sa nessuno, né occhioni scuri, né occhioni blu, meno che meno i colleghi. Solo Greg e voi. Spera di trovare un bell’albero sotto il quale riposarsi. Mangiare un panino, o qualcosa per strada. E Dharma è sempre parte di lui. Indelebile. Un po’ di dolore in meno, forse.  Molto sole in più.

Here comes the sun…

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Hope…(per la redazione)

Vorrei spendere alcune semplici parole per i miei amici bloggers che hanno difficoltà con la nuova piattaforma. E’ nuova, e come le cose nuove un po’ avanzate tecnologicamente bisogna un po’ abituarcisi. Però alcuni hanno SERI problemi. Non riescono nemmeno ad accedere ai loro blog. Ora, è come per certi versi non potere più rientrare a casa propria. Alcuni/e di loro hanno dei blog bellissimi, tra i più visitati della piattaforma. Notimetolose, Lareginapigra, Cleopa, tanto per citarne solo alcuni. Gente che scrive, e non riempie il proprio spazio di farfalline, cuoricini, testi di canzoni sdolcinate etc. Per carità, ognuno è libero di scrivere e fare ciò che vuole dello spazio a disposizione, ma insomma, a ME PIACE LEGGERE QUESTO TIPO DI BLOG. Un po’ di attenzione e cortesia in più nei confronti di questi/e bloggers sarebbe gradito. Mi avete dato la coccardina, tanto carina, e vi ringrazio. Forse avreste potuto impiegare il tempo speso per darmi la coccardina a risolvere i loro problemi. I know, life is hard. Ma se si continua così, la piattaforma sarà piena solo di coccardine, farfalline etc. Tanto per ripetermi. Se siete contenti così, basta che ce lo scrivete. Prenderemo atto. Ho messo su un’immagine a me molto cara, intitolata Hope. Vedete voi. Sun on you 

Pubblicato in Greg

Stream

 

Stream of consciousness

Life is, after all, just like that.

Giochiamo sulla spiaggia, al tramonto, purpureo come il nostro sangue che scorre, sgorga, per non dimenticare. Mai. Di essere vivi. Sorrido e scappo dietro la duna. Mi ritroverò. Ancora. E ancora. E bacerò tutti sulla fronte. Perchè tutti lo meritano, nessuno escluso.

Non dimentichiamo chi siamo, vediamo l’aria attraverso i nostri corpi, atomi in moto casuale e determinato al tempo stesso. Le senti, le risate dei bambini? 

…dedico queste sciocche righe ai miei amici bloggers. Ecco.
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Where

Cammino sotto il sole di Maggio che sembra Luglio. Ho ripreso la borsa di pelle, e lasciato lo zainetto a casa. Il braccialetto di rame no, quello sempre con me. La città lattiginosa, le macchine altere ed indifferenti. Non sono qui, no, sono nel deserto di Zabriskie point, forse, o sul pack artico.

Dolori vicini che sembrano lontani, la freccia del tempo che mi
spiegano non cambiare mai direzione, nè verso.
Forse solo colore.
Dov’è l’amore? Dov’è?
Il peso del mondo è sulle nostre spalle, ma non ce ne accorgiamo.
Solo quando vediamo con occhi chiari, con mente sgombra e vulnerabile.

Allora le mani si giungono, chiniamo la testa e la luce ci riscalda la nuca scoperta.
Dov’è l’amore? Ci sembra di saperlo. Solo in quel momento.

 

Invisible city

Voglio vedere un mare che non ho mai visto
Parlare una lingua che ancora non conosco
Vivere qualcosa che non ho ancora vissuto
Sedermi sotto un albero di cui non conosco il nome
Lavorare in un laboratorio che si deve ancora costruire
La città l’ho scelta, anche se non ci sono mai stato
La testa ad est, il cuore ad ovest
I piedi sul sud, la memoria a nord

Keep the torch aflame, plus perdu.

Pubblicato in Greg

Mi corazon

Grasso sulle mie mani. Di bulloni. Ci ho messo due settimane, a fare funzionare quel cazzo di strumentino. E poi è andata. E ci ho messo tre ore, a fare questo sciocco esperimento con la mia macchina. Gesso sulle dita. Sei mesi a scrivere formule alla lavagna. Due computer su cui scrivere strane storie, pixel che mi pungono il cuore. Colorati, evanescenti, ammiccanti, incantati. E poi un po’ di viaggi, qua e là. Desolazione della periferia estrema di Roma, dove senti l’odore del mare e vedi i pini marittimi accanto ai cantieri in costruzione, sotto il sole famigerato e contro il vento leggero. Pettino i capelli di occhioni blu, bacio mia cugina dai capelli corvini, neri e lucidi come non ne ho MAI visti. Non la vedo da sei anni. Que hora son mi corazon? Non ha importanza. Keep on dreaming, keep on writing. Keep on loving. Don’t stop living. Kiss Greg.

… me gustas tu….
…je suis perdu?

Stato di grazia-2

(Occhio, Alice cambia il blog dal 9 Maggio. Leggete qui)

… Jed una volta mi ha scritto “fa’ di me quello che vuoi”, ed io giro questa richiesta a tutti voi, semplicemente. Penso in particolare a quelli che conosco da più tempo, ed anche ad una persona che mi ha scritto che non voleva più avere contatti con me per un motivo che non sto qui a dire. Fa’ di me quello che vuoi, rimani sempre nel mio cuore, assieme agli altri. May the sun shine on you all, miei cari….

Ho scritto queste frasi sciocchine un po’ di mesi fa. Sorrido, mentre le rileggo. Le cambierei, oggi che lo stato di grazia non c’è più? No, non le cambierei. Adesso preparo la cena, mi fumo una sigaretta e continuo a vivere. Sono così, e non posso farci niente. Vostro Greg (un po’ Dharma)

… e lo stato di grazia tornerà….

…Chiederò un altro drink?
Eviterò il light fandango?
Troppo bella da sentire, a prescindere.
La faccio vedere, perché oggi, con questa strana febbriciattola che ho, così mi va.
E ancora, e ancora.
Non c’è fine a certe cose. E’ in questo la loro bellezza.
Mi chiedo se arriveremo a quel pianeta, 20 anni luce di distanza, che hanno scoperto ieri.
Voglio credere di sì.
Click on image…

Max

Questo post è per te. Un neo ti ha portato via un anno fa. Una volta, ad una presentazione, facesti vedere una foto di Julie Christie. Una volta ringraziasti Greta Scacchi alla fine di un articolo scientifico. Una volta mimasti una scena di “Miracolo a Milano”, mentre lavoravamo di notte. Oggi ho pensato a tre film che vorrei vedere con te:
Sliding doors, con Gwineth che piange davanti alla porta che si apre e chiude continuamente.
The wedding singer, con Steve Bushemi che canta True degli Spandau Ballet alla festa di matrimonio.
Shakespeare in love, con Gwineth che bacia il Bardo.
Lo so, non sono dei capolavori, ma mi piacquero, e mi fecero stare bene. Occhioni blu era appena nata, ero molto Greg e poco Dharma, ma, beh, ero contento. Fidati, ti divertiresti. Non credo nello spirito, abitualmente, ma stasera voglio crederci. Poggia una mano sulla mia spalla, amico, e guidami nel mio vagare, in questo viaggio senza partenza e senza ritorno, iniziato molti mesi fa. Sentiti Elvis Costello, mentre bevo l’ennesima Heineken alla tua memoria, sorridendo e pensando a qualcosa di leggero.

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Farfisa hypnosis

Il tuono del re lucertola, il Farfisa Organ sotto. Ipnosi, ipnosi. Al Pere Lachaise volevo venire a trovarti, e come spesso mi succede, non ce l’ho fatta. Ma in questo pomeriggio sfatto, col sole che batte sulla mia scrivania, sono per te. L.A. è nel mio cuore anche per te. E come il maledetto fumo, anche se smetti, prima o poi ricominci, perché ti piace. Ricomincio a sentirti. Il Farfisa forma degli anelli dorati intorno alla mia testa, la tua voce mi trapassa, come i tuoi occhi. Right there. Nel punto esatto sulla fronte. Perché è lì che succede tutto. Scrivo “cuore”, ma quello pompa solo sangue. E tu lo sai. Colori l’asfalto, respiri il deserto. Il caldo, il caldo mi fa stare bene. Ipnotizzami, Jim, portami dove sappiamo io e te. E forse qualcun altro.

Frozen water (from my keyboards)

Niente Gran Risa quest’anno. Poca neve, poco tempo. A me piace scendere per questa splendida pista dopo pranzo, poca gente intorno. E’ difficile, ripida, ma affidabile, come una vecchia amica. Mi manca, come molte altre cose, di questi tempi. Lei è lì, la sogno, l’aspetto. Il primo muro, sempre pieno di gente che si affanna, poi una deviazione, e ci siamo, in mezzo al bosco. Tutta d’un fiato, se ce la fai, se gli sci tengono e se la neve è buona. Verde scuro di abete, rosa di dolomite, bianco della materia, quella vera: FROZEN WATER. Ogni curva un sorriso, uno sbuffo. Pochi minuti di paradiso, di essenza. Ultimo muro, lasciati andare a uovo, se no devi racchettare. All’anno prossimo, amica mia. Mi sei mancata, mi mancherai. Gli appuntamenti qualche volta saltano. Ma il sogno rimane.

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Ode alla (mia) bici

Sparisce l’asfalto tormentoso
sparisce la bruma di dolore
meccanica e levità
distorci il reale
in gioia ed essenza
di musiche conosciute
volare non è mai impossibile
con te, nella fatica della fibra
di muscoli qualsiasi.

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Una vodka con Lev

OK, Aka mi sfida, e ci ricado. Scrivo sulla termodinamica. Ne ho già scritto, in realtà. Ma ci riprovo, perché ne ho dato una visione un po’ parziale. Quindi mi tolgo gli auricolari dell’i-pod, mi levo la giacca, mi rimbocco le maniche, spezzo il gessetto e scrivo alla lavagna, come mi piace tanto fare.
I principio: l’energia si conserva sempre. La materia scompare, succede, sapete? Le particelle si annichiliscono, ma la massa è energia, e quindi viene liberata sotto forma di energia. Ci sfreghiamo le mani, consumiamo un po’ di energia (meccanica, i nostri muscoli) che si trasforma in calore, e attraverso l’attrito, ci scaldiamo le mani, aumentando la temperatura sulla loro superficie. L’energia si conserva sempre. Lo ripeto, perché è importante. Il primo principio ci dà speranza, è ottimista. C’è qualcosa, qualcosa che non può essere distrutto. Assume forme diverse. Solo, bisogna capire dove va a finire. Non si può creare, ma il tutto è energia, perché lo è la materia.
II principio: L’energia nei sistemi complessi, chiamiamoli così, come noi siamo, non può essere sfruttata completamente. Non è possibile assorbire il calore del mare e convertirlo in energia per fare andare le navi. Cristo, qui cominciano i guai. I fenomeni non evolvono spontaneamente come vorremmo noi. Questo sancisce irreversibilità, impossibilità di utilizzare energia completamente per i nostri scopi. Ma è proprio così? Sì è no. Quando ero studente, mi fecero adottare i libri di testo di un grande fisico che si chiamava Lev Landau. Landau era incredibile. Si fece un po’ di anni di galera sotto Stalin, e morì in seguito ai postumi di un incidente di motocicletta. Come tutti gli scienziati russi, era tosto. E i suoi libri di conseguenza. In uno dei libri di Landau c’è un punto interrogativo, ed è l’unico. Proprio sull’irreversibilità e su una grandezza che è associata al II principio, e che si chiama entropia. L’entropia evolve spontaneamente verso valori sempre più grandi, e poichè è un indice del disordine, il disordine aumenta. Questo fissa una freccia nel tempo. Ma poiché le leggi della fisica della materia microscopica sono reversibili, ed è il numero delle particelle a determinare la statistica e l’evoluzione dei sistemi complessi, c’è una contraddizione. Landau si chiede se da qualche parte, in qualche tempo, l’entropia non diminuisca spontaneamente. Cosa che statisticamente può succedere. A trovarlo, quel punto nello spazio e nel tempo, sarebbe meraviglioso. Come fare un bingo colossale.
III principio. Il meno nobile dei tre, per certi versi, ci dice che ad una temperatura esatta (lo “zero assoluto” al di sotto del quale non si può andare) la grandezza entropia ha un valore fissato per qualsiasi sistema, sempre lo stesso. Tutto è congelato, niente disordine. DI fatto, lo zero assoluto è irraggiungibile. Non esistono frigoriferi che permettano di raggiungerlo. Il terzo principio è anche dimostrabile matematicamente, e quindi non è unvero principio, che invece è una legge fisica dimostrabile solo con osservazioni, ma un teorema (teorema di Nernst).
Questo è quanto. Adesso torno a sentire i Doors. E ad ammalarmi di malinconia, come i russi. Se ci fosse Lev, andrei a bere Vodka con lui. Sun on you

Oggi

Oggi è un giorno duro. Ho avuto molto da fare, ed in fretta. Pesante, già, pesante è la parola giusta. E nei brevi momenti di pausa, rifletto un po’. Tra le altre cose, il mio blog. Sono più di due anni che scrivo. Prima del blog non tenevo un diario, non scrivevo niente. Nemmeno gli appuntamenti sull’agenda. E invece qui ho scritto di tutto. Delle specie di recensioni cinematografiche e musicali, storie inventate, autobiografiche, poesiole, testi di canzoni, considerazioni sulla fisica e sulla mia visione del mondo, ammesso che ne abbia una. Ho aggiunto immagini, video, musica, che è sempre stata importantissima in questo spazio. Ho letto molto i blog degli altri, che mi hanno influenzato. Ho amato e odiato il mio blog. Una volta l’ho perfino cancellato. Mi ha fatto stare bene, ma anche male. E’ stato partecipe ed anche artefice di molti cambiamenti dentro di me. E adesso? Adesso non so. Non so proprio. L’ho scritto molte volte, basta, almeno per un po’. Non lo scrivo più. Però faccio fatica a continuare. Può essere solo un periodo. Magari domani riscrivo. Però ieri sera volevo, e non ce l’ho fatta. Non m’era mai successo prima. Come metterla, non lo so. Quindi la chiudo qui. Pasqua incombe, e vado via per una settimana. Parto domani, e non avrò occasione di scrivere, credo, da dove vado. Non la cercherò. Poi vedremo. Lascio questo brano, perché è bellissimo. E aggiungo un’immagine bella, di un’attrice del passato che piaceva molto ad un mio amico che non c’è più da un anno. Perché non so quando tornerò a scrivere. Sun on you

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Occhioni blu

Oggi occhioni blu ha suonato. Era una favola in musica, recitata, suonata e cantata davanti a tanti bambini. Occhioni blu stava poco bene, un po’ di febbre, non era andata a scuola negli ultimi giorni, ma niente al mondo le avrebbe impedito di suonare. Quando è arrivata al “punto lettura” (una piccola biblioteca di quartiere) saltellava per la contentezza. Niente emozione o paura, lei è così. Ha suonato benissimo, come sempre. Alla fine, c’era il sole dopo una settimana di pioggia. Nel prato fuori della biblioteca, la figlia di un mio amico ha raccolto tante margherite. Questo piccolo post è dedicato a occhioni blu. Perché il mondo è bello. Perché lei esiste.

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Hope…

…to feel better… ANYWAY.

P.S.: e quelli del post precedentente sono i MIEI sandali ed il MIO braccialetto di rame.

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Bill

Spirito ti fai chiamare
mi dicesti ho perso il cuore
e il dolore che sprigiona
in scintille nella notte cittadina
stempera in risate leggere
di piogge di Aprile.
Vai nel sole della gente
spirito non sei
nelle mie sere meno solitarie.

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T.

Felino parlante, graffiami di musica
rhytm’nblues nella chitarra di una bimba
con una valigia sfavillante.
Può “legge” e “cuore”
essere un pensiero unico e leggero
come quel palloncino che mi vola sulle idee
di questo pomeriggio al Nord
verso il Sud della tua passione.
Das liebe is nur fur dich.

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Diam

Fiamme ai tuoi piedi
sali sorridente e ciarliera
non più lacrime salate
non più quel male distorto.
Il cammino può chiudersi
il ritorno diventare
andata senza fine
nella casa di bolle
soffiate dalla tua anima.

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Aka

Dioscuro vestito lucido
sapere e sentire nel tuo cortese sorriso
parola spedita nello spazio.
Che importa se l’io è dominante
quando offerto con grazia.
Occhi, orecchie, mani che cercano
domande in oceani mentali.
L’oriente vicino è radice
della tua benevolenza.

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Cleo

Sole sulla città amara
cammini nervosa, lo sguardo si stringe
dentro al groviglio
di io, tu, noi.
Mare di acqua dolce
profondo in quella parola
che dà la forza al sentire.
I grazie che mando come baci
non saranno mai abbastanza.

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Yle

Nervi sensati
lucide stanze in disordine
piccole punture
benedicenti.
Agro e dolce nel pixel
sfumato in risate sagge.
E’ la mente che comanda lo stupido sentire
nelle droghe autoprodotte
da fantasmi inesistenti.

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Dans la Seine

Quand on n’a plus rien en soi – Quand on n’a plus de refuge
Quand on ne peut plus fuir – Quand on ne sais ou courir
Noir comme la nuit – Oui noir comme mon ame
Noir comme les eaux – Dans lesquels je sombre

And in the waters I sink and in the waters I drink
Until I rise to the top which in truth is not
It’s the same as below with a put on as show
To make you feel your alright, to make you feel theres no fight

Joe & Moe

Joe e Moe si abbracciano sulla scaletta che porta alla nave. I razzi stanno per accendersi, Joe ha il suo casco sotto il braccio. E’ tutto pronto. Gemelli, insieme tutta la vita, ora le loro strade si biforcano. Joe parte, e andrà molto, molto veloce, su su su, anni luce lontano. Moe rimane a terra, nella sua villetta con giardino, moglie, bambini e cane compreso. Stessi occhi, stessi studi, stesse ragazze. Poi, un giorno, in Joe è scattato qualcosa, e ha deciso di diventare altro, mentre Moe diceva sì all’altare e metteva l’anello. Joe in occhiali scuri, testimone di Moe, guardava Barbara in abito bianco, sorridente, Dio come l’amava ancora. Joe entra nella nave, si mette il casco, pensa, ma come hanno fatto a realizzare questo gioiello che viaggia quasi alla velocità della luce. I razzi si accendono, le rampe cadono, fuoco tutt’intorno, Moe osserva la scia bianca contro il blu dalla terrazza sopra il cosmodromo, con Barbara stretta intorno a lui. Tutto sotto controllo, nella grande sala gli ingegneri applaudono, Joe perde i sensi, come previsto, mentre pensa alle lacrime di Barbara dopo avere fatto l’amore quell’ ultima, dannata volta che lo specchio si è infranto.

La vita di Moe è un fiume placido, con dei vortici sotto la superficie, piccoli gorghi che trascinano la sua anima. Moe nella sua villetta con giardino, i suoi barbecue con gli amici, gli alti e bassi con Barbara, i figli ormai grandi, il cane vecchio. Moe, la notte, guarda quei puntini luminosi in alto, una birra dopo l’altra, le rughe agli angoli degli occhi sempre più profonde, i grilli cantano le notti d’estate, ma le crepe si aprono, i gorghi lo risucchiano e lo risputano, mentre il fiume placido va.

Cinque minuti di Joe sono cinque mesi di Moe, il tempo è relativo, è il cosiddetto paradosso dei gemelli, il tempo rallenta per chi viaggia. Einstein l’ha scritto, la teoria è confermata. E così, il viaggio che per Joe dura poche ore, per Moe dura una vita. Chissà se i due gemelli si rivedranno, forse Moe non ce la farà, sotto sotto Moe spera di non farcela. Lo specchio si è infranto, tanti anni prima per Moe, pochi mesi prima per Joe. Il coyote ulula, canta per le stelle di Joe, mentre Moe tracanna l’ennesima lattina, in veranda, contemplando l’ultima crepa che si è aperta.

Past

Past is past. Now is now. Will future be? Bit of a smiling mask, as usual. Tears behind, breeze on my hair. Dreams floating all over, of green eyes and sunny showers.

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Light cone

Mi piacciono i film corali, quelli alla Altman, per intenderci, come Nashville, o America Oggi. Il film che mi piacque di più, l’anno scorso, fu Crash-contatto fisico. Sono difficili da realizzare, e qualche volta difficili da seguire. Anche Magnolia mi piacque moltissimo. Tutte quelle storie che si intrecciavano a Los Angeles. Storie che si intrecciano, è così che va, nella vita. Molto spesso non ci accorgiamo degli intrecci. Un punto, nello spazio-tempo, viene definito evento, secondo la relatività. Un punto preciso ad un tempo ben definito. Ad ogni evento è associato un cosiddetto cono di luce, che divide lo spazio tempo intorno all’evento in due regioni separate.

L’evento descrive una traiettoria, dentro il cono. Istante per istante, noi siamo eventi che formiamo una traiettoria. Le nostre traiettorie descrivono delle linee curve, e possono avvicinarsi ed allontanarsi. Ed ogni punto successivo, ogni evento successivo, ha il suo cono di luce. E’ una visione un po’ poetica della teoria della relatività ristretta. Siamo scie nello spazio-tempo, che forse possono interagire, e cambiare le loro traiettorie per le interazioni. Ma le cambiamo veramente? Io non credo. Le nostre scie procedono parallelamente, allontanandosi o avvicinandosi. E curviamo impercettibilmente lo spazio tempo intorno a noi, inclinando il nostro cono di luce, per la nostra materia, che genera gravità. Magnolia, e gli altri film bellissimi, mi fanno venire in mente queste strane idee. Infine, questa canzone, colonna sonora del film. Il testo.

It’s not
What you thought
When you first began it
You got
What you want
Now you can hardly stand it though,
By now you know
It’s not going to stop
It’s not going to stop
It’s not going to stop
‘Til you wise up

Gli attori, coralmente, la cantano nelle loro situazioni. No, non si ferma, non voglio mettere giudizio, lo penso stasera, mentre torno in bici a casa, al tramonto.

Entanglement

Entanglement in inglese vuol dire intreccio. Legacci, corde, nodi che ti legano a qualcosa, da cui è difficile divincolarsi. Nella fisica quantistica, esiste una situazione, un fenomeno che prende questo termine. E’ come una magia, un effetto paradossale che creò,e crea, grattacapi a scienziati molto illustri, a cominciare da Einstein, il quale ebbe grossi problemi nell’accettare la visione della realtà che la teoria quantistica ci offre. Esistono infatti degli stati, nella realtà quantistica, in cui le particelle sono intrecciate, legate. E continuano ad essere legate anche se si trovano molto, molto distanti, separate anni luce di distanza. Ma la cosa incredibile, è che se prendiamo due particelle in uno stato “entangled” (legato), le separiamo, e poi riveliamo attraverso delle misure lo stato di una delle due particelle, lo stato dell’altra sarà determinato automaticamente. Il punto è che, in linea di principio, non si sa come sta la particella 1, chiamiamola così, anzi, è possibile al 50% che stia in un modo o nell’altro. E in base alla misura dello stato della particella 1, lo stato della particella 2 è dato di conseguenza. Cioè a seconda di come Bob misura la sua particella 1, Alice trova una risposta diversa dalla misura della sua particella 2, che dipende da Bob e dalla particella 1. Un’azione a distanza, istantanea. Questa situazione disturba la nostra idea di realtà, e di come avvengono i fatti. Recita wikipedia:

L’entanglement quantistico costituisce una difficoltà… in quanto è incompatibile con il principio apparentemente ovvio e realistico della località, per il quale il passaggio di informazione tra diversi elementi di un sistema può avvenire soltanto tramite interazioni causali successive, che agiscano spazialmente dall’inizio alla fine. Ad esempio, secondo il principio di località, il mio pugno può arrivare al tuo naso solo se io sono abbastanza vicino a te, o se sono in grado di mettere in moto meccanismi che, passo dopo passo, giungano fino al tuo naso.

Molti anni fa, lessi un libro di un grande fisico inglese che si chiama Roger Penrose. Mi fu regalato da un mio collega italiano che lavorava in quel tempo a Liverpool, col quale dividevamo insieme gioie e dolori dell’emigrazione. Un libro affascinante e difficile, che si pone il problema della “fisica della coscienza”, cioè delle leggi fisiche che potrebbero portare ad una descrizione accettabile della nostra coscienza, di come funziona la nostra mente. Tra le moltissime informazioni, teorie ed idee esposte in questo libro, c’è questo passo, a proposito dell’entanglement:

Fin quando questo intreccio quantistico persiste, non è possibile considerare, a rigore, ogni oggetto dell’universo come qualcosa a sé stante. Ciò non è soddisfacente, dal mio punto di vista… Perchè non considerare l’universo come un casino di oggetti intrecciati quantisticamente, che non ha nessuna relazione col mondo “classico” che noi osserviamo?

Per mondo classico, Penrose intende una visione deterministica della realtà, causa ed effetto, dove due oggetti lontani non possono essere intrecciati, uno da una parte, uno dall’altra, a meno di una interazione che si propaga passo passo, veloce o lenta che sia. Però la fisica quantistica funziona, siamo noi ed il nostro senso comune che non la accettiamo, o non ne siamo nemmeno consci. E questo “little piece of magic” che è l’entanglement fa parte della realtà. Ma cosa è la realtà? O meglio, perchè noi percepiamo una realtà così diversa da quella della fisica quantistica? Non c’è risposta. Ma il senso di mistero e di fantastico che permea il mondo in cui vivono e muoiono le particelle è incredibilmente affascinante. E nella situazione di entanglement trovo un pizzico di romanticismo, che non mi dispiace affatto.

Something about Richard

Il disegnino che vedete sopra si chiama “diagramma di Feynman”. Sembra uno scarabocchio carino, ma ha un preciso significato. In parole povere, descrive l’interazione fra due particelle, due elettroni in questo caso, attraverso scambio di radiazione elettromagnetica. Le linee diritte stanno ad indicare, più o meno, gli elettroni che viaggiano, ad un certo punto da uno dei due parte una linea ondulata (radiazione) che arriva all’altro, e poi i due se ne vanno per fatti loro. Come due giocatori di calcio che si muovono sul campo, si avvicinano, si scambiano la palla e poi si allontanano. Dov’è la bellezza di questo grafico? Sembra banale, ma non lo è. Ogni linea, ed ogni punto dove le linee si incontrano corrispondono ad un termine di una formula matematica, che ci dà la probabilità che questo fenomeno (lo scambio della palla) avvenga. E la formula è molto lunga, e difficile. Chi inventò questo modo semplice e diretto di rappresentare delle formule complicate era un genio. Infatti prese il premio Nobel. Si chiamava Richard Feynman, uno dei più grandi fisici di tutti i tempi. Personalmente non utilizzo i diagrammi di Feynman, perché lavoro in un campo diverso della Fisica. Ma li ho studiati, e li ho sempre trovati affascinanti. Sono di fatto degli ideogrammi, come quelli della lingua cinese, ad esempio:

sta a significare amore, “ai” (da buon romanticone, ho scelto proprio questo). Questo carattere è complesso, ed è composto da tre ideogrammi. Dice la spiegazione che ho trovato sulla rete:

“Al centro del carattere troviamo infatti il simbolo per il cuore “xin” racchiusa dall’ideogramma “respiro” (nella parte superiore) e dal concetto di “movimento aggraziato” nella parte inferiore. L’amore quindi nella cultura cinese e’ una fonte inesauribile d’ispirazione che soffia la vita nel cuore e dona grazia e armonia all’intero corpo umano.”

Mentre i diagrammi di Feynman sono disegni semplici, che però indicano formule e concetti complicati, gli ideogrammi cinesi sono complessi da disegnare, ed esprimono soprattutto parole e concetti comprensibili a tutti. Ma per me c’è un senso dell’estetica in tutte e due le rappresentazioni grafiche, che le accomuna: la bellezza della descrizione della natura e del pensiero, la bellezza della mente umana.
Richard Feynman era un grande uomo. Un grande professore, adorato dai suoi studenti, al Caltech di Los Angeles, e spiegava la fisica, anche quella più semplice, in modo eccezionale. Suonava le congas, partecipò più volte alla sfilata del carnevale di Rio, era affascinante (donnaiolo) e simpatico. Insomma, un mito. Questo è un estratto dal suo libro di testo, ovviamente straordinario, e ben diverso dai noiosi manuali universitari:

“….perchè la Natura è così vicina alla simmetria? Nessuno ha idea del perchè. L’unica cosa che potremmo suggerire è un qualcosa di simile: Vi è una porta in Giappone, a Neiko, che talvolta è chiamata dai giapponesi la porta più bella di tutto il Giappone: fu costruita in un’epoca in cui c’era molta influenza da parte dell’arte cinese. Tale porta è assai elaborata con gran quantità di timpani e belle sculture…… Ma quando si guarda attentamente si vede che nel disegno elaborato e complesso di uno dei pilastri uno dei piccoli elementi del disegno è scolpito a rovescio; altrimenti la cosa è completamente simmetrica. Se si chiede perchè è così, raccontano che fu scolpito a rovescio affinchè gli dei non fossero gelosi della perfezione dell’uomo. Sicchè a proposito s’introdusse lì un errrore, in modo che gli dei non fossero gelosi e non si adirassero con gli esseri umani. Anche le leggi della Natura non sono simmetriche. Ci potrebbe piacere di capovolgere l’idea e pensare che la vera spiegazione della quasi simmetria della natura sia questa: che Dio fece le leggi soltanto quasi simmetriche in modo che non fossimo gelosi della Sua perfezione.”

Johnny Johnny

Due anni fa scrissi un post su questo video, e sulla sua canzone. Gosh, il tempo passa. Era quasi un’altra vita. La mia parte Dharma non c’era quasi più, era rimasto solo Greg. Che faceva avanti ed indietro con la macchina tra due città distanti più di 300 Km ogni settimana, ed aveva un vecchio stereo col mangiacassette, che non sentiva quasi mai. Notizie alla radio, cellulare, sei arrivato? ancora no, ingorghi a Mestre e così via. Poi ricominciai a sentire le cassette. E spuntarono fuori i Prefab Sprout. Dharma ne fu felice, e battè i primi colpi. Il video, già. Molto romantico, un po’ retrò, con gli spezzoni di un film sentimentale degli anni ’60, in bianco e nero, che non riconosco. Non riconosco nemmeno gli attori. Buffo, no? Vi faccio vedere un video degli anni ’80, con dentro un film degli anni ’60. Tutto così dannatamente all’indietro. Ma il testo della canzone ha un messaggio molto chiaro.

La vita non è completa
fino a quando il tuo cuore non perde il battito
e non puoi fingere
non puoi far girare indietro l’orologio.

E’ un po’ come l’infinite loop, il simbolo matematico dell’infinito che metto a chiudere i post. Una curva chiusa, sembra che si ritorni indietro, ma non si può. Perchè l’infinito è avanti. E il tempo vola. Si può curvare, la gravitazione lo fa, lo distorce. La nostra mente vuole addirittura farlo tornare indietro. Ma la freccia punta solo in una direzione. Me lo devo ripetere più spesso. Qualcuno me lo ha ricordato, recentemente. Solo in questo modo Dharma e Greg possono fare la pace .

Light

Non mi stancherò mai di elogiare la mia bici. Leggera, elegante, mi ha portato oggi pomeriggio in giro per la città. E leggera è stata questa giornata di precoce primavera. Una canzone dei Prefab Sprout, gradevole e agrodolce, con un pizzico di ironia, mi ha accompagnato.

Cruel is the gospel that sets us all free,
then takes you away from me.

Ho usato gli occhiali scuri, sì, ma solo perché c’era un sole splendido. Sorseggio un bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo, stasera, e penso ai prossimi viaggi, al giorno in cui rivedrò il Liverpool Waterfront, ai colori del mondo che mi riempiranno lo sguardo e alla musica che continuerà a fluire nelle mie orecchie. Sun on you, miei cari, vorrei che vedeste coi miei occhi.

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Quando

Quando la pianterete di litigare? Quando tornerete a baciarvi? Quando sarete di nuovo tutt’uno? Quando vedrete con gli stessi occhi? Quando i vostri occhi non saranno più nascosti dagli occhiali scuri, nelle mattine di sole o di pioggia che siano? Vi amo, tutti e due. Non fatevi male, permettete che io respiri. Che possa vedere il mondo come prima. Che la notte non morda più. Che il mattino sia leggero.

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Chalk’n’talk

Queste sono le equazioni di Maxwell. Sono quattro equazioni nelle quali sono condensati elettricità e magnetismo. Uno studente di Fisica, Ingegneria o Chimica le dovrebbe conoscere alla fine del secondo anno dei suoi studi. Riassumono molti fenomeni, quali il passaggio di corrente elettrica, la propagazione della luce, o l’attrazione/repulsione delle calamite. Motori elettrici, lampadine, bussole, dighe, stazioni radio FM. Alla base di tutto ci sono loro. Un capitolo di un libro di testo americano mostra la foto di Jimi Hendrix che suona a Woodstock, e spiega come funziona la sua chitarra elettrica, una Fender Stratocaster candida, in base ad una delle quattro equazioni. E sono il primo esempio di unificazione di forze e fenomeni che sembravano essere molto diversi tra di loro. Ovviamente non sono solo nate dalla mente di James Clerk Maxwell, il matematico scozzese che dette loro il nome, alla fine dell’ottocento. Sono il risultato di un secolo di esperimenti e fatica di signori che, per interesse (anche economico) e per passione, trovarono legami e relazioni precise tra elettricità e magnetismo. A me piace scriverle alla lavagna, come sono qui raffigurate. Gessetto e parlare, chalk’n’talk, il bel modo antico di fare lezione che piano piano si sta estinguendo. Dopo questa unificazione e semplificazione (anche se queste formule non sembrano affatto semplici) ne sono venute delle altre, che hanno portato ad una visione unitaria di quattro delle cinque forze fondamentali che regolano la natura. La quinta (la gravitazione) ancora sfugge. Perché scrivo questo? Perché la vita, gli accadimenti, non sembrano affatto “unitari”. E’ tutto così frammentato, caotico, spezzettato. E ciò che succede intorno a noi sembra diverso e multiforme. Noi stessi siamo divisi e dispersi in mille rivoli di atti e sentimenti spesso contraddittori. E’ questo il grande paradosso. Che non ha spiegazione, almeno apparente. Tutto ciò che si fa, si dice, succede mi appare sempre frantumato. Poi, rileggo i libri di Fisica e mi accorgo che sì, il caos esiste, ma è governato da qualcosa di elegante e semplice. Semplice, ovviamente, dopo anni di studi. Che logica c’è in tutto questo? Non so dare una risposta. So solo che al fondo, al fondo dei tormenti, delle esplosioni, delle divisioni e dei conflitti, del caos che scandisce l’esistenza e la complessità dei fenomeni che avvengono intorno a noi alcune persone hanno trovato la semplicità della sintesi. Un dono divino, ma umano al tempo stesso. Un dono di amore verso noi stessi.

Move on up

Ok, il governo è caduto. Ok, è un periodo che ho degli alti e bassi veramente molto, molto intensi. Ok, sto diventando, diciamo di mezz’età? Ok, sono un po’ brillo. Mi vedo questo film sul calcio e sugli angloindiani, una commediola cosmopolita semplice e deliziosa (Sognando Beckham), e ho nostalgia dell’Inghilterra e della sua multirazzialità, dei ristoranti etnici indiani, cinesi, messicani, dei pubs e dei cabs. E del loro calcio, del loro tempo schifoso, dei mattoni rossi, dell’eterna luce estiva e dei loro parchi. Soho, a Londra, Toxteth, a Liverpool, Renshaw, a Manchester. E in Sognando Beckham, ad un certo punto, durante una scena dove le ragazze della squadra di calcio si allenano, si sente ‘sta gran musica, Move on up di Curtis Mayfield. Il sangue mi scorre nelle vene. E domani è Venerdì, e perchè lasciare il blog con una canzone triste durante il fine settimana? Quindi, beccatevi Move on up, e state bene. E basta con le (mie) cazzate. E cascasse il mondo , Mercoledì prossimo vado a giocare a calcetto con i miei amici. Baci da Greg.

A case of you

Cammino sui coriandoli, di sera, alla fine di una giornata molto faticosa, con la cravatta slacciata. Occhioni blu e il cous cous della signora che mi aiuta in casa mi aspettano. E penso alla storia di oggi. Negli ultimi due giorni, ho fatto esami per conferire il titolo di dottore di ricerca a undici giovani scienziati. Eravamo in tre, ad esaminarli, due mega prof. ed il sottoscritto, che faceva da segretario, cioè, in pratica scriveva i verbali. Siamo stati lì, ad ascoltarli, dopo avere letto le loro dissertazioni su argomenti vari. Seduto sulla mia sedia, guardavo questi ragazzi vestiti più o meno bene esporre i loro risultati mirabolanti. E sono mirabolanti per davvero. Poi l’occhio mi è caduta su una dissertazione. Ci capivo poco dell’argomento, la tesi descrive come funzionano certe membrane cellulari, e cerca di ricostruire il meccanismo di passaggio di ioni attraverso queste membrane, mediante delle simulazioni (cioè calcoli) al computer. Una roba complicata di cui so pochissimo. Ma ecco, ecco ciò che mi ha colpito: all’inizio di ogni capitolo, erano scritti i versi di alcune canzoni, e tra gli altri ho riconosciuto subito questi:

Oh tu sei nel mio sangue come vino santo
Sai di amaro e di dolce
Oh potrei bere una cassa di te mio caro
E starei ancora in piedi
E starei ancora in piedi

Oh you’re in my blood like holy wine
You taste so bitter and so sweet
Oh I could drink a case of you darling
And I would still be on my feet
Oh I would still be on my feet

Altra canzone bastarda, di Joni Mitchell. Il dottorando parlava delle sue membrane cellulari, e io, dietro la mia cravatta, sotto la mia faccia seria, seduto accanto ai miei sapientissimi colleghi, sono volato su, su per l’aula, e sono andato via con quell’oggetto che mi sta sulle spalle, e che tendo ad usare troppo, o troppo poco. Comprai “Blue” di Joni Mitchell, il disco dal quale è tratta questa canzone, quando avevo 16 anni. Mi sa che ci ho anche baciato la mia prima ragazza con quella musica in testa.

Maledizione, ma perché sono fatto così. Perché ho questa memoria, perché non butto via tutta questa roba che ho ancora dentro, mi sono chiesto. E poi ho capito che quel ragazzo, con le sue membrane cellulari, sente come me. E alla cerimonia finale, rivestito con la toga ed il tocco, gli ho stretto la mano un po’ più forte per le congratulazioni di rito, e l’ho guardato nei suoi occhi timidi, incorniciati da occhiali spessi. Mi hai ripetuto la solita lezione, amico, che tendiamo a dimenticare troppo spesso. Al di là dei nanotransistor, al di là delle membrane cellulari e delle altre meraviglie, al di là delle nostre intenzioni e delle nostre azioni, mi hai detto chiaro e forte che bisogna bere il vino degli altri, dolce o amaro che sia, per usare la testa, e per potere andare avanti, e capire come funziona il mondo e la natura . Quel vino ha una denominazione. Ve la scrivo in inglese, perchè così mi piace di più: LOVE.

Happy Birthday, mr. Aka

“Caro il mio Piero Gennadji Ulianov Angela, non essere preda dei tuoi stessi pensieri, ma fai che ti tengano compagnia.”

Questa è quella che gli accademici chiamano una “prolusione”. Rompo il mio silenzio (neanche tanto silenzioso) per celebrare in anticipo il compleanno dell’uomo più saggio del blog: Akamotasan , il più grande generatore di haiku di Virgilio. Nelle “prolusioni”, un qualche professorone un po’ rincoglionito viene chiamato durante una cerimonia accademica dal rettore o qualche altro pezzo grosso, si alza dal tavolo dove è placidamente appisolato, si aggiusta la mantella, si rimette dritto il tocco e tiene una lezione per la disperazione dei presenti, pronti ad avventarsi al rinfresco successivo. Beh, mi sono autoarrogato il diritto di farla io, la lezione. Oddio, il post di Marihellen per celebrare il compleanno di Aka dell’anno scorso, con immagine qui presente

forse è più gradito all’uditorio, ma, ahimè, a chi passa di qui tocca sorbirsi una piccola lezione sull’effetto tunnel. Aka gradirà, lui ha di queste perversioni mentali (parole sue). Dunque, immaginate di trovarvi davanti un muro, e volete andare dall’altra parte. Non c’è storia, o vi arrrampicate, oppure lo saltate. Se il muro è perfettamente liscio, e non ce la fate ad arrampicarvi, dovete saltarlo. E se non avete l’energia necessaria, nè strumenti adatti, non c’è speranza. Potete sbatterci solo la testa contro. E’ proprio così? No, non è così. Se voi foste una particella piccolissima, diciamo, un elettrone, e le pareti del muro non fossero troppo spesse, POTRESTE passare. C’è una possibilità, certe volte neanche troppo piccola, che si possa passare. Questo è l’effetto tunnel. Il tutto perchè quando si va su scale molto piccole, le leggi fisiche cambiano. Non c’è più causa ed effetto, c’è solo la probabilità. E noi, che siamo molto più grossi di elettroni, siamo letteralmente dei grovigli molto concentrati di onde di probabilità. Onde. Bello essere onde, eh?! Quando si è onde si è un po’ dappertutto, si è “estesi”, “delocalizzati”. E si possono “tunnellare” i muri. proprio così:

E se questo vi sembra un concetto un po’ astruso (lo è, lo è…) sappiate che molte memorie mobili dei dispositivi elettronici che utilizziamo tutti i giorni sfruttano l’effetto tunnel: le penne USB, e le memorie delle fotocamere digitali, ad esempio. Aka, amico mio, non pensare che i muri del tuo ufficio intorno a te siano invalicalibili. Puoi sempre sperare di “tunnellarli”, anche se è più facile vincere al superenalotto. Ma tu già lo pratichi l’effetto tunnel, con la tua mente, la tua fantasia che genera storie deliziose che molti di noi leggono con piacere, ed alleviano la vitaccia cagna di tutti i giorni. Sun on you, ed eoni di questi giorni w

Stufo (su PACS, commenti ed imbecilli)

Oggi ho ricevuto un commento da una blogger: mi ha scritto che è costretta a moderare i suoi commenti, dopo avere pubblicato un post molto ben fatto e documentato sui PACS. Il post è in home page, tra i cinque più votati. Era continuamente oggetto di insulti e schifezze varie. Ovviamente anche perchè è una ragazza, e scrive chiaro come la pensa, su questo ed altro. La cosa mi ha colpito molto. Sono più di due anni che scrivo su questa piattaforma, e non è la prima volta che sento di queste storie. Sono stufo di sentirle. Così come non mi piace vedere in giro blog con gagliardetti, fiamme tricolori, asce bipenni e armamentari varii. Ognuno ha le sue idee, io le mie. E lo scrivo. Metto su un bel simbolo della pace, e spero che sterilizzino prima o poi la proverbiale mamma degli imbecilli. Anche se la speranza è vana.
P.S.: ovviamente sono FAVOREVOLE ai PACS, e trovo che la Chiesa ed i politici che sono contrari alla loro introduzione abbiano una posizione BIGOTTA, IPOCRITA ed ARRETRATA. W Zapatero! Continuiamo: Sono antiprobizionista, sono favorevole all’eutanasia come si pratica in Olanda, sono stato contrario alla guerra in Irak, sono per il ritiro delle truppe italiane dall’Afghanistan, sono per la tolleranza ed il rispetto delle culture degli altri (sì, inclusi i musulmani, proprio loro), sono per il voto agli immigrati, sono per la libertà sessuale (quando non significhi violenza e pedofilia), sono antifascista…

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Goodbye, Mr. Nice Guy

Quando metto su Hopper, le cose si mettono male. Per me. Nessun motivo particolare. Nessuno da incolpare. Dharma e Greg si mordono. Si prendono a calci. E’ così. Mr. Nice Guy non è così nice. Nessuno è mr. Nice Guy. La stanchezza mi forma dei cerchi sopra la testolina da prof. che pretende di sapere. E che invece non sa un bel niente. Di se stesso, soprattutto. Passerà? Ma certo che passerà. Bit of a smiling mask, nel frattempo. E sotto la maschera, le occhiaie, i rimorsi, i punti neri in fondo agli occhi. Mr. Nice Guy si prende una vacanza. E io aspetto che ritorni, con le sue musichette e le sue parole soffici. E Dharma e Greg faranno la pace. Quando? Difficile dire. Sorry.

Ultimo minuto: mail arrivato mentre scrivevo il post.

“…Mi scuso per la dimenticanza dettata da dimenticanza….”

troppo bello, no?

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Urquhart weeping


Ti porterò sul Clyde, o sul Firth of Forth. Vedremo l’erica, e raccoglierò un cardo per te, le nuvole che scorrono sopra le Highlands verde bruno. Giocheremo a nascondino dietro i muri dell’Urquhart Castle, accanto al Loch dal colore plumbeo. I gabbiani sulle montagne di Skye, il mare che insegue il cielo e le rocce grigie. Saluteremo l’Edinburgh Castle con la mano sulla fronte, ci struggeremo davantti alle ciminiere di Glasgow. Shortbreads a colazione, mia cara, o marmalade di Dundee. Ci ammaleremo di whisky e malinconia, prima che il sole colpisca oltre le Ebridi. Il cielo di Scozia si apre, per sorriderci, ma solo un momento, prima di riprendere a piangere.

Black is the color of my true love`s hair
Her lips are like some roses fair
She has the sweetest smile and the gentlest hands.
And I love the ground whereon she stands

I love my love and well she knows
I love the ground whereon she goes.
I whish the day it soon will come
When she and I can be as one

I go to the Clyde to mourn and weep
For satisfied I’ll never can be
I’ll write her a letter, just a few short lines
And suffer death ten thousand times

Black is the color of my true love`s hair
Her lips are like red roses fair
She has the sweetest smile and the gentlest hands.
And I love the ground whereon she stands

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L’uomo delle cartoline


L’uomo si rassettò la cravatta davanti allo specchio, si pettinò velocemente, prese l’impermeabile ed uscì dalla stanza d’albergo. Il portiere sonnecchiava dietro il banco della reception, davanti al televisore che bisbigliava notizie in inglese. L’uomo fece un cenno di saluto senza risposta, e la porta girevole lo spinse nella serata nebbiosa della città. Camminava velocemente sull’asfalto umido, pochi passanti frettolosi, macchine che scivolavano accanto. Fece cenno ad un taxi, che procedeva dalla parte opposta. La vettura nera fece inversione ad U e gli si fermò accanto, con il motore diesel che vibrava sommessamente. Al buio, il conducente aspettava. L’uomo entrò e dette l’indirizzo del ristorante, che si trovava nel centro della citttadina. Il taxi partì, mentre l’uomo guardava fuori dal finestrino, le luci dei lampioni attenuate dalla nebbia scorrevano davanti al suo sguardo fisso. Il viaggio fu più breve del previsto, il tempo non invitava la gente ad uscire, in quella triste serata infrasettimanale. L’uomo pagò e scese, ma quando arrivò davanti al ristorante lo trovò chiuso. Rimase interdetto, fissando la vetrina buia. Frugò dentro le tasche, trovo il pacchetto di sigarette e se ne accese una, col suo accendino di acciaio lucido. Incominciò a camminare, cercando un altro locale, a caso. Il suo sguardo si posò su una insegna al neon blu elettrico. Incuriosito, si avvicinò. Era un bar, con “attrazioni locali”, come strillava un manifesto accanto alla porta di legno scuro. Niente cibo, ma dopotutto non aveva tanta fame. Avrebbe cercato un take away dopo, quelli chiudevano sempre per ultimi. Un drink in mezzo ad un po’ di gente non gli sarebbe dispiaciuto affatto. Suonò, uno spioncino della porta si aprì per un attimo, e la porta si spalancò. Scese una rampa di scale, e si trovò in una sala scarsamente illuminata, tranne che in un lato, dove sorgeva un palco. Si avvicinò al bancone del bar e chiese una lager. Si sedette sullo sgabello, dette uno sguardo ai tavoli, occupati da altri uomini soli e da qualche coppia. C’era gente, ma non troppa. All’improvviso, una musica gitana proveniente da un complessino ai lati del palco avvolse tutta la sala, un faro illuminò le quinte e lei uscì. Un’acrobata, con uno strano costume arabeggiante, si inchinò, fece qualche passo di danza, e salì su una fune in alto, stesa da un lato all’altro del palco. Incominciò a camminare sulla fune, sorridendo a tutti, e lanciando baci. Si fermava, ritornava indietro, si girava seguendo le note della canzone. A lui sembrò che lei lo guardasse, e che il sorriso si facesse più dolce. La osservò, con il bicchiere in mano, la musica che gli girava in testa. L’acrobata terminò il suo numero, scese dalla fune, e ringraziò con un inchino, i capelli biondi rovesciati in avanti. Lui si era spinto in avanti, quasi a ridosso del palco, per applaudirla. Lei si rialzò, i loro sguardi si incrociarono, e gli mandò un bacio. L’uomo non seppe dire quanto tempo passò, prima che lei si voltasse e scomparisse dietro le quinte. Tornò al bar, finì la sua birra e chiese il conto al cameriere. Chiese anche l’indirizzo dell’acrobata, che gli fu dato dietro una generosa mancia.
Più tardi, nella stanza d’albergo, con la cravatta allentata, prese la sua cartella in pelle e ne tirò fuori una scatola piatta. La aprì, prese una cartolina che mostrava una spiaggia ed un mare blu turchese. La rigirò incerto, scrollò le spalle e si sedette davanti ad un basso tavolino, incominciando a scrivere sul retro della cartolina. La mise dentro una busta, la sigillò e ci scrisse sopra l’indirizzo, sorridendo a se stesso.
Dopo qualche giorno, ricevette un messaggio dal portiere dell’albergo. Lo lesse, e se lo mise in tasca fischiettando. Doveva andarsene il giorno stesso, non aveva tempo di ritornare al locale. Per lavoro doveva spostarsi continuamente. Sarebbe ritornato nei prossimi mesi. Nella stanza d’albergo, tirò fuori un’altra cartolina dalla sua scatola magica: in questa era raffigurata una città da sogno ripresa di notte, con luci vivide e multicolori. Ci scrisse sopra qualcosa, la imbustò e la portò alla reception.
E tutto questo si ripetè sempre più spesso, in ogni albergo dove andava, riceveva messaggi, rispondeva con le cartoline, sempre più belle. Posti da sogno, da ogni parte della Terra. I messaggi erano sempre più lunghi, vere e proprie lettere. Ogni lettera, un bacio, un sorriso ed una cartolina. Deserti, montagne, città, isole contro parole sempre più dolci. Un giorno, lui scrisse su una cartolina “per sempre”. Il messaggio di risposta fu “ora”. Quando lo ricevette, lui lesse una piccola agendina scura, e scosse la testa. Non poteva, ora. Tirò fuori la cartolina più bella che aveva, un tramonto sfolgorante sul mare, scrisse “non ora, ma per sempre” e la spedì. Questa volta la risposta arrivò con qualche giorno di ritardo. La lettera era più corta. Meno baci, meno sorrisi. Lui fece una smorfia, lesse l’agendina, e scosse di nuovo la testa. Prese un’altra cartolina, e la spedì. Aspettò più a lungo, una settimana intera. Ancora qualche mese, e sarebbe potuto tornare. Ma non ora, non ora. Scrisse un’altra cartolina. La risposta non arrivò. L’uomo incominciò a preoccuparsi, aveva bisogno dei suoi messaggi, dei suoi baci, dei suoi sorrisi scritti. Ed incominciò a spedirle tutte le cartoline che poteva. Ogni tanto riceveva qualche risposta, ma ormai l'”ora” era passato. Tempo scaduto. Ancora scrive, l’uomo, una cartolina al giorno, spera in una risposta, e sogna che al ritorno in città, il locale sia ancora aperto, con l’acrobata lì ad aspettarlo. Ma il tempo fugge, e qualche volta “Ora” è più importante di “Per sempre”.

Blue light

Colori. I colori sono l’impressione sulla nostra retina di emissione luminosa. Cioè emissione di radiazione elettromagnetica, o meglio, di una parte di essa. Ai colori noi umani associamo sensazioni, emozioni, ricordi. Rosso, passione. Giallo, invidia. Verde, speranza. Blu: il colore del cielo, lo associo al paradiso, all’estasi. Estasi fredda, ghiaccio. LED e LASER sono due tipi di strumenti, che possono essere basati sullo stesso tipo di dispositivo elettronico, e che emettono luce di un certo colore. Vengono realizzati con materiali particolari, chiamati semiconduttori. In realtà, di LASER ce ne sono di molti altri tipi (gas, liquidi, etc.), ma io recentemente ho approfondito lo studio di LASER che sono costruiti con lo stesso materiale dei LED. C’è una grossa differenza, però, tra LED e LASER. I LED emettono luce di un certo colore, determinato, ma questa luce, per così dire, non ha la stessa qualità di quella dei loro “cugini”. I LED emettono un po’ dappertutto, e la loro luce serve solo per segnalare se uno strumento è spento, o acceso, o per segnalarci qualche piccola informazione. E’ giusto che sia così. Ho un curioso ricordo associato ai LED. Il detective privato Harrison Ford, a caccia di replicanti in Blade Runner, aveva una enorme pistola con un piccolo LED rosso acceso, quando la brandiva, puntandola contro la preda che aveva appena fatto fuori, la bellissima Joanna Cassidy. Le pistole non avevano, e non hanno ancora, LED che ne segnalino il funzionamento. Fantascienza anni 80, superata. Era una bella idea, però, e mi piacque, dal punto di vista estetico. I LASER, però, hanno un altro tipo di qualità. Sono basati su un principio, detto emissione stimolata. E’ come se la luce all’interno del LASER si autosostenesse, prima di essere emessa. Difficile da spiegare, in parole povere. Ma la luce, prima di uscire, si “autoorganizza” e ne esce purissima, pressocchè perfetta. Colore perfetto, direzione perfetta, intensissima. Sono quasi cinquant’anni che esistono i LASER, e ce ne sono di tanti tipi. Alcuni sono comunemente usati in medicina, o nelle telecomunicazioni, ed in altri aspetti della vita quotidiana. Quelli a semiconduttori sono i più compatti ed economici. E quelli che emettono luce blu con questo tipo di materiale, si stanno incominciando a costruire solo ora. La luce blu perfetta è difficile da realizzare. Solo con altri tipi di LASER, molto più costosi. Ma piano piano, con molti sforzi e molto ingegno, i LASER blu stanno per arrivare, più economici. Luce blu per tutti. E io mi auguro: paradiso per tutti, estasi per tutti. Su questa terra. Love, w

You

Non scrivo molto di questi tempi, qui, ma ti penso.

Ti conosco da più di due anni, che è un tempo lungo. Sempre in contatto. Ti sei raffigurata come un leopardo. Metto la testa nelle tue fauci, mi morderai un po’, forse. Ma so che lo fai per me.

Sei bravo, una sfida intellettuale. Grazie della tua amicizia, e dei tuoi haiku.

Mia cara, sono stato vicino a te, sei stata vicina a me. Questo basta.

Sei un po’ pazza, ma sei forte. Ti ho spedito un messaggio per il nuovo anno. Grazie.

Pensavo fossi più distante, ma io sono molto, molto tardo. Chiacchieriamo ancora un po’ del tempo, dai. Come gli inglesi.

Siamo stati vicini. Ci siamo allontanati. Colpa mia. Ti penso, comunque. Mi piace immaginare che ogni tanto passi da queste parti, come faccio io con te. Mi piace immaginare che i tuoi occhi non siano così tristi, solo verdi. E che riesca a darti il libro che ti ho promesso.

Riservata, in apparenza, ma ti piacciono gli Who. Auguri per tutto. Keep in touch.

Auguri anche a te, fiammella destra. Stai passando uno dei momenti più belli della tua vita. E mi fai ricordare il mio.

Hai raccontato il tuo inferno, e mi hai commosso. Ma riesci anche a farmi ridere. Come pochi. So che stai bene, e forse hai ritrovato il cuore. Ne sono contento. Sei un collega, e io stimo i miei colleghi.

Sei come il caffè, mi tiri su. E non sei cinica, no no no.

Se non ti cito, non ti ho dimenticato. Ho solo poco tempo.

Tu che passi regolarmente e mi saluti.

Tu che passi regolarmente e non lasci scritto. Non ha importanza. Va bene lo stesso.

Tu che sei arrivato qui la prima volta, grazie.

Ti dedico questa canzone. Mi piace pensare che la senti a volume alto, al lavoro o a casa. E che metti le tue braccia davanti e le agiti su e giù, a tempo. Come nelle feste, quando si cazzeggia un po’. Se non ti piace la musica, o se non riesci a sentirla, beh, leggi questi versi, li ho tradotti per te. Parlano di un uomo un po’ matto, che crede nell’impossibile. Li hanno scritti i REM.

Voglio i colibrì, voglio gli orsi danzanti
I più dolci sogni di te
Guarda dentro le stelle
Guarda dentro la luna

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Neil

Due anni fa, durante i miei frequenti viaggi in macchina, lo risentii alla radio. Era un po’ che non sentivo Neil il giovane. Neil Young ha accompagnato la mia adolescenza. Il suo splendido album “Harvest” ha significato moltissimo per me. E quando lo ricomprai e lo risentii in CD, fu una magia. Rocker tenero e duro al tempo stesso, chitarrista con un sound molto particolare. Tengo un piccolo pezzo della mia vita cucito alle sue canzoni. Alcune le sapevo suonare alla chitarra e cantare, i miei amici mi dicevano “Ah Se’, facce Neil Young”, e io pronto eseguivo. Lui ancora suona, ed è bello saperlo. Heart of Gold, con la sua armonica, mi scalda, mi gira dentro. Cerca il cuore d’oro, Neil il giovane, come tutti noi. Scava, va a Hollywood, attraversa gli oceani, gli oceani della vita. Non lo trova, e c’è un pizzico di ironia nei suoi versi. Uno dei grandi meriti della mia pazza e lunga stagione blog è quella di avermi rimesso in gioco con la musica, sentirla, accarezzarla, sognarci dentro. E di pensare alla ricerca del cuore d’oro. Oggi c’è un sole splendido, chissà, forse la ricerca sarà più dolce per tutti.

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Palmland

Sono steso sul letto, vestito, lucina accesa. Lui è lì fuori, flottante nel buio del cortile. Mi aspetta, come un cane fedele. Sorrido nella penombra, spengo la luce, trovo la tenda, la tiro, apro la finestra. Lo tocco, il mio tappeto di seta viola, scavalco e ci salto sopra. Si affloscia leggermente, ma non come due anni fa, quando pesavo di più. Il cuore non è dimagrito, il resto sì. Lo accarezzo, gli dico qualche parolina e lui parte. Vola sopra la città nebbiosa, sopra la pianura silente, sopra il fiume di macchine dell’autostrada. Case, fabbriche, gatti sui tetti, uccelli addormentati, vi saluto. Lontano, lontano dai dolori e dagli affanni vacui, dalla gente che scassa l’anima tutto il giorno, dalle donne e dagli uomini di buone intenzioni e di buona volontà. Niente spirali, niente angoli, niente picchi e valli. Onde sotto, nuvole sopra. Verso Palmland, dove il caldo è più caldo, ma lo senti meno. Sulla spiaggia, a sgrovigliare fili coi denti e contare con le dita, aspettando che le noci di cocco cadano sulla sabbia. Guardando il blu attenuato dal corallo rosso. Vuoi venire con me?
(Gennaio 2005, perso e riscritto Gennaio 2007)

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Blow up

Domani il mio centro di ricerca inaugura una mostra. Immagini bellissime di cose molto, molto piccole. Qui trovate un po’ di esempi.Oggi ho partecipato alla presentazione, e mi sono emozionato. L’immagine che ho messo sul post, che fa parte della storia, ormai, non è nel catalogo, ma rende bene l’idea. Sono cose che fabbrichiamo, studiamo, ci giochiamo anche un po’. Per un paio di giorni, a Febbraio, farò lo scienziato pazzo che le spiega. La scienza ha una sua estetica, un po’ particolare. Ma straordinaria. Ne ho scritto, una volta, a Giugno. Il mondo è splendido, basta guardarlo, anche se costa un po’ di fatica. Se vi capita, passate da noi. E’ anche gratis. Merita. Qui le informazioni.

tick tock (prima di dormire)

Piccole mani
stringono, afferrano
strane idee confuse
scintille nella nebbia
passanti mormorano
tick tock in stanze vuote
sdraiarsi nel letto freddo
e dirsi click, adesso stop
beauty in the garden
ain’t it good
ain’t it bad
put a brave face on
bit of a smiling mask
green eyes in my dreams
sparkling diamond
still on my brow.

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Su “soprabiti…”

Il mio penultimo post (soprabiti…) non è rivolto a nessuno in particolare. O meglio, è rivolto alle persone alle quali sono più legato alla blogsfera, ma non solo a loro. Ho utilizzato frasi già scritte, ed un’immagine che avevo già mostrato. E’ solo un modo per cominciare questo 07 da belle sensazioni dello 06. Vorrei che chi leggesse queste mie sciocche righe, ne uscisse con un lieve, lievissimo sorriso, o in generale un pochettino meglio. Non sempre ci riesco, anzi, forse quasi mai. E’ solo una mia idea pazza, probabilmente. Ma continuerò a provarci. Sun on you

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Nick

Permettetemi di chiamarlo Nick. Non sono un grande lettore, anche se ho letto, e leggo abbastanza. Più della desolante media italiana, credo. Cioè, vedo un sacco di film, al cinema e adesso più spesso, a casa, su cassetta e DVD. Ho un bel po’ di dischi, e soprattutto la magia del secolo, l’i-pod. Ma leggo sempre meno. E per qualche motivo a me ignoto, scrivo su un blog. Il che, visto che devo lavorare, stare dietro a mia figlia da solo praticamente tutta la settimana, e tutte le altre varie incombenze, leva inevitabilmente spazio alla lettura. Durante le vacanze di Natale ho letto molto per i miei standard. Un giallo di Simenon (“Maigret si sbaglia”), un piccolo, straordinario romanzo cinese (“La storia del giogo d’oro”, di Zhang Eiling), un libro scritto assieme ad altri quattro baldi giovani dall’unico scrittore che conosca personalmente (“Q”, di Luther Blissett) e poi, in un impeto di furore lettorio (non letterario, ma lettorio, perchè ho letto, appunto) ho comprato “Una vita da lettore”, di Nick Hornby, all’autogrill, mentre tornavo a casa. Lo conoscevo già, Nick. “Alta Fedeltà”, “Febbre a 90”, “Come diventare buoni”, già letti prima. E questo lo sto divorando, spesso ridendo. Ce le ha tutte, Nick, per piacermi:

a) E’ inglese, ma non se la tira troppo, e notoriamente, per chi mi conosce, questo suona un campanello in me, visto che ho vissuto in Albione per un bel po’.
b) Conseguentemente, ha quello humour inglese che a me difetta, e che io A-D-O-R-O, tanto per essere chiaro.
c) Ha più o meno la mia età (lui è più vecchio, però, eh?) e quindi sono in sintonia su molte delle cose che scrive.
d) Gli piace la musica rock. Non è che i nostri gusti coincidano, ma insomma, ci si può intendere.
e) Fuma.
g) Gli piace il calcio, anzi è proprio fissato. Peccato che tifi per l’Arsenal, che rispetto, ma io tifo per la Roma, e per il Liverpool (lo so è una contraddizione, questa, ma che ci volete fare, è così).
Quindi, qualsiasi cosa lui scriva, mi piace. Da impazzire. Anche questo libro. E’ una raccolta di articoli pubblicati su una strana rivista, The believer, credo di ispirazione religiosa. Scrive dei libri che legge, un po’ li recensisce, un po’ li analizza, un po’ cazzeggia. La sua scelta è assolutamente casuale. Di questi libri, ne ho letti soltanto uno o due, e non ne leggerò più di tre o quattro. Ma non importa. E’ bello leggere ugualmente ciò che Nick scrive su di loro. Uno spettacolo. I passi migliori:
Quando parla di “Pompei”, il romanzo di Robert Harris, uno dei pochi che ho letto anch’io, e che ovviamente tratta bene, perchè Harris è suo cognato. Lo fa spudoratamente, e compatisce sua sorella, per il tempo che il cognatino ha speso a documentarsi sulla vulcanologia e sugli acquedotti romani. Comunque a me, “Pompei” era piaciuto abbastanza.
Quando rimprovera Cechov, perché nelle sue lettere alla moglie non non fa altro che chiamarla passerotto, tesoro, orsetto, uccellino etc. (“cazzo, datti un contegno, sei un gigante della letteratura!”).
Quando si ricrede sulla sua affermazione che la letteratura vinca sempre su tutto, dopo avere visto il primo gol di Reyes, neo-acquisto dell’Arsenal, una fiondata sul sette della porta avversaria. La parola che si dice di questi tempi: mitico.

Non ho ancora finito di leggere questo libro delizioso, ma mi ha regalato veramente dei momenti esilaranti. Bei momenti. Ne avrei bisogno più spesso. E me li cercherò. E me li troverò. Leggendo, guardando bei film, ascoltando musica, e vedendo le partite della Champions League, sperando che la Roma ce la faccia col Lione. Mi sono dimenticato qualcosa nell’elenco? Certo che sì, una cosa che incomincia per S e finisce per O, ma va da sé, è la migliore di tutte. Sono sicuro che Nick, e tutti voi, siate d’accordo con me. Love, w

P.S.: Non so se a Nick piace questa canzone dei Tears fo Fears. A me sì…

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soprabiti…

Psst… ehi… sono w, ciao. Ho rimesso l’immagine dei soprabiti, perché è ora di uscire di nuovo. Ci riprovo, a essere un po’ più Dharma, e un po’ meno Greg. Ci riprovo, ad arrivarti vicino. Quest’anno, un po’ meno Nord, ed un po’ più Sud, un po’ più scirocco, un po’ meno bora. E soprattutto, più chitarre elettriche e meno violini. Scambiamo il 6 con il 7, e ricominciamo. Metti su il tuo sorriso come se fosse il tuo vestito migliore. Ne vale sempre la pena. Love, w

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Lungo Dicembre

E’ questo il titolo dell’ultima canzone dell’anno, dei Counting Crows. La metto su, la ascolto e penso all’anno prossimo. Alla voglia che ho di ricominciare a sentire linguaggi diversi, vedere facce diverse, e ritornare a viaggiare. Da questa piccola, bella e ricca città, penso ai luoghi che visto e vorrei rivedere, ed a quelli che spero di visitare per la prima volta. Forse quest’anno c’è il Brasile. Non vorrei mai fermarmi.

Berlino con i suoi palazzi alteri e gelidi
Parigi con i suoi abbracci luminosi
Liverpool con i suoi tramonti sfolgoranti
LA con le sue palme svettanti su un cielo rosso fuoco
E chissà quante altre.

Il lungo dicembre sta per finire,
un altro giorno sul Canyon,
un’altra notte a Hollywood
è tanto che non vedo l’Oceano
penso che dovrei.

Buone feste, miei cari, sole su di voi w

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Respiro

Slaccio la cintura ed esco dall’auto, l’aria fredda che respiro mi apre i bronchi intasati dalle tante sigarette che sto fumando in questo periodo. L’anno tramonta, i suoi tardi bagliori colpiscono i miei occhi. Mi porto la mano sopra la fronte e guardo in là, con un mezzo sorriso che piano piano spunta dal gelo. Imparo ed insegno come funzionano i laser, scrivo strane storie su due computer, sei mesi bene, sei mesi male. Ingrasso, dimagrisco come mai mi era successo. La schiena non mi fa più male. Sento, e respiro, come non mi accadeva da ere geologiche. E’ questo il lascito, l’eredità. Per sempre. Il mezzo sorriso diventa intero, incomincio a camminare come ogni mattino con il lettore acceso, questa musica nelle orecchie. Il traffico impazzisce a Natale, bip bip, me ne curo meno del solito. L’importante è respirare, e ancora ci riesco. E miglioro. Le storie si ripetono, il loop si chiude, indefinitamente. L’anno tramonta, l’anno sorge. Tutto può succedere, e succederà in meglio. Lo auguro a voi, e a me. Respiro.

Breathe some soul in me
Breathe your gift of love to me
Breathe life to lay ‘fore me
To see to make me breathe
(Midge Ure)

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How English…

Tell her I’ll be waiting
In the usual place
With the tired and weary
There’s no escape
To need a woman
You’ve got to know
How the strong get weak
And the rich get poor
Slave to love ooh
Slave to love
You’re running with me
Don’t touch the ground
We’re restless hearted
Not the chained and bound
The sky is burning
A sea of flame
Though your world is changing
I will be the same
Slave to love ooh
Slave to love
I can’t escape
Slave to love
Slave to love
Can you help me
Can you help me
The storm is breaking
Or so it seems
We’re too young to reason
Too grown up to dream
Now spring is turning
Your face to mine
I can hear your laughter
I can see your smile
No I can’t escape
I’m a slave to love

Cityhoppers: colonna sonora

Le storie dei cityhoppers (v. post precedente) hanno una colonna sonora: ecco la lista dei pezzi che ho messo su quando le ho pubblicate. Vado a braccio, non me li ricordo tutti. Alcune di queste canzoni hanno ispirato le mie storie, con risultati incerti. Ma la musica è bellissima comunque. E’ un mio parere, ovviamente.

Horst et Dom:
Carlos Santana & Mahavishnu John Mac Laughlin – Let us Go into the House of the Lord

Jamie à Paris:
Neil Young – Lotta Love
Norah Jones – More than This
Paul Weller – Wild Wood

Lettera d’Aprile:
Prefuse73 – Before the Storm

The Waterfront Stories (Edo):
Oasis – Champagne Supernova
Paul Weller – Thinking of You
Jimi Hendrix – All Along the Watchtower
Marvin Gaye – Ain’t no Mountain
Prefab Sprout – Cowboy dreams
Badly Drawn Boy – Something to Talk About

Infinite Loop:
The Gorillaz – El Manana
Counting Crows (feat. Vanessa Carlton) – Big Yellow Taxi

Cercherò di rimettere su tutti i pezzi in questo periodo, uno al giorno (più o meno). Oggi è il turno di Neil Young. Sun on you w

Gli occhi sul mondo

Così alla fine è morto in ospedale, nel proprio letto, senza passare nemmeno un giorno in galera. Barbaro sanguinario. 91 anni, più della vita media di un uomo. Ieri ho saputo la notizia della morte di Pinochet. E meno male che hanno deciso di non fargli i funerali di stato, anche se picchiano la gente che festeggia la sua morte. Gioia? Nemmeno un po’. Provo un sapore amaro, e pena per quello che successe in Cile negli anni ’70. E ricordo:
Quando ci fu il golpe in Cile, avevo tredici anni, mio padre mi spiegò. Incominciavo un po’ a leggere il giornale, ad informarmi. Altri tempi. Vidi le immagini dell’assalto alla Moneda alla TV in bianco e nero, con i caccia che sorvolavano il palazzo. Provai subito angoscia.
Dopo pochi anni vidi i film di Miguel Littin e ascoltai gli Inti Illimani, il Cile era in qualche maniera legato a noi, struggente paese all’altro capo del mondo, tanto dolore, tanta angoscia, paura. E sangue.
Nella nostra scuola proiettarono un documentario in bianco e nero sul golpe, sul ruolo degli americani in quel misfatto. Sparizioni e torture. Vidi ragazze della mia età piangere.
Nefandezze ne sono state compiute tante, nella storia, ma questa mi ha lasciato un ricordo più di altre. Mi ha fatto aprire gli occhi sul mondo. E il mio pensiero va là, in un paese dove non sono mai stato, ma che ho riscoperto ieri essermi vicino.

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Lonely lounge

Questa canzone ed il post anticipa la storia che ho pensato e che non riesco a scrivere, per molte mancanze: tempo, concentrazione, voglia.

Infinite loop: intro
Sale di attesa di aeroporti, in Sabati invernali. Attese interminabili, seduto davanti alla vetrata che dà sulla pista, scende il buio, luci ad albero di Natale che si accendono. Gente silenziosa stravaccata, manager con la cravatta allentata bevono boccali di birra al bar, commentando le notizie che vedono alla TV nell’angolo in fiammingo, inglese, tedesco. Camerieri annoiati al banco con occhi che sognano palme. Libri tascabili spiegazzati appoggiati su poltroncine, scie di profumo lasciate da assistenti di volo che ticchettano verso le uscite. Stranded. Chiamate che sembrano non arrivare mai, mentre la sera scende sul non luogo, privo di fauna d’estate in camicie a fiori e occhiali da sole. Cioccolatini belgi, essenze francesi, elettronica cinese accatastati nelle vuote botteghe delle meraviglie. Miglia accumulate e non spese, computer portatili collegati verso l’infinito che non ascolta, chitarre elettriche che fanno capolino da auricolari inascoltati. Soli, sole, solo. La chiamata arriverà. Verso casa. Casa.

Magnolia

“Senti, ma le magnolie fioriscono a primavera?”
“Certo W, questa qui è un po’ strana, i suoi fiori sono enormi, si dischiudono molto tardi e marciscono subito, più in là ce n’è una piccola che sta fiorendo adesso.”
Vado e constato che la magnolia è proprio lì, dove ha detto mia moglie.
“Te lo ricordi Magnolia, il film? Io l’avevo visto al cinema senza di te, e poi ho comprato la cassetta.”
“Uh, oh, ah sì W, vagamente”.
“E questa canzone, Magnolia, l’hai sentita mai?”
“No, ma c’entra col film?”
“No, non c’entra niente.”
“E’ Neil Young che canta, vero W?”
“No, sono i Poco, West Coast anche loro, famosetti ai loro tempi. “
Più tardi, ad una delle tante sagre del I maggio (una per ogni paesino del Carso), i miei amici parlano delle multinazionali farmaceutiche. Odore di cevapcici alla griglia, la musica della banda, bandiere rosse. Ho visto anche quelle della Yugoslavia, appese alle finestre. I figli scorrazzano da qualche parte. Sono nell’Est, ma penso all’Ovest. Penso a Magnolia, una canzone di J.J. Cale, ma la versione nel mio cuore è quella dei Poco. Chitarre sospese, pedal steel guitar che volteggia nell’aria, arrangiamento un po’ barocco, terribilmente sentimentale. Violini e sax in finale. W si pensa su una decappottabile che va su una di quelle highways dritte come fusi verso l’infinito, non guida lui, no, lui guarda in alto il cielo e allarga le braccia per sentire il vento.
…mente a Est, cuore a Ovest…
Love, w

(Maggio 2005)

…e per chi volesse, si possono ancora sentire i Procol Harum. Basta mettere in pausa Magnolia, e accendere i Procol. Love w

Light fandango (revisited)

Ieri mi è capitato di risentire questo pezzo, stavo attraversando la strada mentre andavo in Facoltà, e l’opzione brani casuali dell’i-pod, tra i Nirvana ed i Pearl Jam, me l’ha disseppellita. Maledetto i-pod. Mi ha combinato un bello scherzo. Sentire questo pezzo è come rivedere un grande amore che hai perso, e che hai ritrovato più volte. Sai che devi dimenticare, sai che ti fa male, ma non puoi fare a meno di riincontrarlo, e di ricominciare. Mesi di deserto, questi, e i Procol Harum fanno capolino con questa canzone. E quindi la tengo su, sul mio blog, mi dimentico della storia che volevo scrivere, e ripropongo per la terza volta questo post. Non la levo, non la voglio levare. Forse dovrei, ma come quel tipo di amori là, la tengo e ci annego dentro. Certe cose sono così, indelebili, indimenticabili, perse e ritrovate, morte e resuscitate, anche se non dovrebbero, anche se fanno male. Ma alla fine fanno bene, fanno sentire vivi.

And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had

Love w
(novembre 2006)


Quando ero bambino, la musica suonata con i grandi organi a canne nelle chiese mi emozionava tantissimo. Mi ricordo almeno un caso in cui ho costretto mia madre ad accompagnarmi all’uscita, perché mi veniva da piangere. Non so il motivo, ma mi ricordo questa sensazione così intensa che mi faceva sentire in una specie di spirale che girava, difficile a descrivere. In quegli anni (il 67, per la precisione) usciva una delle più belle canzoni rock melodico di tutti i tempi (a mio modesto parere), si chiamava “A whiter shade of pale”, dei Procol Harum. L’ho sentita da bambino, probabilmente nella versione originale, sicuramente nella versione cover con i testi tradotti in italiano e suonata da uno di quei complessi che meritoriamente traducevano il beat, doveva essere l’Equipe 84 o i Camaleonti, non mi ricordo, ma ho questa memoria di un varietà in bianco e nero dove la cantavano, mi ricordo anche i versi iniziali “Han spento già le luci….” . Sicuramente l’hanno ascoltata tutti, almeno una volta. Apre la canzone un’introduzione con un organo Hammond, la musica è ispirata a quella di J.S. Bach, anche se non è un estratto particolare, sembra scendere dal paradiso, e mi fa sentire un po’ proprio la stessa sensazione di quando ascoltavo l’organo in chiesa. Poi la voce (molto soul) del cantante apre maestosamente con questi versi:

We skipped the light fandango
turned cartwheels ‘cross the floor
I was feeling kinda seasick
but the crowd called out for more
The room was humming harder
as the ceiling flew away
When we called out for another drink
the waiter brought a tray

ed è una tensione continua, quasi un duello tra la voce e l’organo, che fa continuamente capolino, poi domina, poi ritorna in sottofondo, poi fa un assolo e così via. Semplicemente meraviglioso. Di questa canzone si è parlato e scritto molto. Se mi ricordo bene, Paul McCartney la cita una sua autobiografia, dice di averla sentita per la prima volta in un locale con qualcun altro (non vorrei sbagliarmi, ma doveva essere qualcuno degli Stones) e di averla commentata come un colpo di genio. Nel film “The commitments” due protagonisti discutono sul significato del testo, mentre uno dei due la suona con l’organo di una chiesa. Già, le parole. Il significato non è ben chiaro nemmeno a chi l’ha scritto. Io penso che in questo caso siano come delle macchie di colore che impreziosiscono questo splendido dipinto sonoro. L’ho risentita recentemente, e mi sono detto che sicuramente deve essere meraviglioso innamorarsi con questa canzone. Spero riusciate a sentirla mentre leggete questo post.
(giugno 2005, luglio 2006)

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Lettera aperta a Virgy (e sua risposta)

Cari membri dello staff,
sono un vecchio membro della community dei blog di Virgilio, sia di età che di anzianità di servizio, chiamiamola così. Ho letto recentemente un post pubblicato da milenaferrari (http://blog.alice.it/mil) dove si riporta una vostra risposta ad un suo mail, nel quale credo che lei riscontrasse difficoltà e/o problemi. Nel testo si propone alla cliente di passare ad altra piattaforma a pagamento (!), e si capisce che ci saranno grosse novità sulla attuale piattaforma di Virgilio. Desidererei sapere se queste novità prevedono l’obbligo da parte della comunità dei bloggers di Virgilio a passare ad un servizio a pagamento. Permettetemi un consiglio: non lo fate. Altrimenti prevedo una emigrazione di massa da parte degli attuali utenti (compreso il sottoscritto) su altre piattaforme gratuite. E l’attuale Community dei blogger, che è molto viva ed unita verrà dispersa. Un peccato, per noi, ma anche per voi. Pubblicherò questa lettera su post, e mi auguro di rendere pubblica anche una vostra risposta positiva (per noi ovviamente).
Come spesso dico, sole su di voi.

weller60
http://blog.alice.it/weller60
P.S.: metto su anche la più bella canzone che abbia mai sentito per convincervi…

Risposta di Virgy circa 10 minuti dopo (!)

ciao

c’e’ stato purtroppo un equivoco con milena… i blog sono e
resteranno gratuiti in Alice.

Per ora il servizio non e’ del tutto pronto (fra cui
personalizzazioni e altro), lo sara’ fra qualche mese, e abbiamo
proposto a lei e agli altri che avevno sperimentato problemi di fare
intanto la’ una registrazione, e di segnalarci lo user scelto in
modo che intanto “manteniamo gratuita la registrazione”.
C’e’ scritto chiaramente nella mail che lei ha deciso di
rendere pubblica.

E’ sempre gratuito, lo sara’, ma e’ una delle
personalizzazioni che dobbiamo, per l’appunto, completare rpima
del lancio del servizio, previsto in febbraio.

un saluto dallo saff di alice community

La canzone, il post e la foto li tengo lo stesso. Love w

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Repetita…

Sono seduto in soggiorno, l’ultima sigaretta prima di andare a dormire. Guardo lo zainetto blu che sostituisce la mia splendida borsa in pelle
da professionista, buttata in un angolo sotto la scrivania. Me la sono fatta regalare, ma non ci vado d’accordo. O meglio, non ci va d’accordo la mia bici. Già scritto, mi ripeto. L’estate è andata, ma in fondo me ne sono accorto solo adesso. Adesso, che i negozi si riempiono di addobbi natalizi e di merce da regalare. Agosto, Settembre, Ottobre, Novembre, li vedo da un tubo lungo e stretto. E’ ora di ricominciare, ricominciare a vivere e scrivere un po’ come prima. E aspetto il mio appuntamento con la pista da sci della Gran Risa, una vecchia amica difficile, ma affidabile, proprio come certi amici che ti sbattono in faccia la verità. W tende ad autocompatirsi, mia sorella era bravissima a darmi gli scrolloni. Wake up, silly boy. Mi ripeto di nuovo, scrivendo di un vecchio video di Elvis Costello che ho ricordato, e che mi fa sempre pensare alla mia esperienza blog. L’ho rivisto, ve lo propongo. Mi sento come Elvis nella macchina per fototessere, la gente entra e lo bacia mentre lui canta.

I wanna be loved
I just wanna be loved

E’ un po’ il desiderio di noi tutti, no? Semplice, voglio essere amato, solo amato, sempre di più. Ce lo nascondiamo, talvolta, non ci vogliamo pensare, ma sotto sotto è così. Sorrido mentre spengo la sigaretta, seduto sul divano del soggiorno, ed il silenzio intorno mi sfuma i pensieri. Mi sto ripetendo ancora, meglio che guardiate il video.

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Here, now, again

Da oggi, e per un po’, lascio pubblicato questo post. Virgy, Alice, Matrix, vi prego, non fate scomparire tutto questo. And you, Paul, play it again, please. Love, w

“…To rise above the lies
‘Cause what we’re dealing here with today is a love thing
Right here, right now
Now listen…”

Un paio d’anni fa (circa) diventavo un blogger. Non sapevo che cosa significava esattamente. Ero in un grande laboratorio, durante i tempi morti di un esperimento. Ci sono molti tempi di attesa, negli esperimenti, ma non si può andare via, bisogna sempre stare attenti che gli strumenti funzionino. Stavo lì, annoiato, davanti ad un computer, di sera, da solo. Era un weekend. Conoscevo i blog famosi dei giornalisti, degli scrittori, ma scoprii che si poteva creare un blog con facilità, immediatamente. Curiosai un po’ tra i blogger di Virgilio, e fu come diventare un astronauta, un esploratore in altri pianeti. E mi dissi: “why not?”. Ne creai uno. E’ diventato una parte di me. Scrissi, cosa che non avevo mai fatto prima. Raccontai e racconto ancora sogni, cose che mi accadono, film che vedo, musica che sento. Ma soprattutto leggo. L’anno scorso scrissi una storia per il primo anno, oggi ho riletto alcuni post vostri. Alcuni bloggers non sono più in attività, con altri non ho più contatti, altri li ho incontrati da poco, alcuni post che ricordavo non ci sono più. Perfino un pezzo del mio blog non c’è più, per mia dabbenaggine. Ma ciò che ho letto è meraviglioso, ve ne propongo una personale selezione, in ordine più o meno cronologico. Non è esaustiva, ne potrei mettere molti altri, ma non ce la faccio più a rileggere, per ora basta così.

Jed dalla dentista:
qui

Cleopa a spasso per la sua città:
qui

Law & Religion:
qui

Il pranzo di Matu:
qui

La domanda di Marihellen:
qui

Le notti stellate di Kuccimol:
qui

L’arrivederci di Lara (che dolore…):
qui

L’amore di Pietro:
qui

Her Majesty gets Closer:
qui

La pasquetta de paura di Est:
qui

Ana fa flop (flop):
qui

Le piccole magie di Nina:
qui

L’Inghilterra mia e della gattina del Cheshire:
qui

Gli intrecci della dea:
qui

Le cose che piacciono a Emma:
qui

I fraintendimenti della Iena:
qui

Aka piccolo pescatore:
qui

L’amore di Bill:
qui

Una visita di Lenin72:
qui

L’ultimo di Ju, veramente difficile scegliere e scelgo questo. Tutti emozionanti:
qui

Questo è quanto, grazie per i momenti che mi avete regalato. Il sole splenda su di voi. Love w

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Gunn

In questo un periodo ho scritto più del solito. Perché? Per esorcizzare qualcosa. Mi fa piacere scrivere, ma non sto esagerando? Sto pensando alle oscillazioni. A lezione ho spiegato una cosa complicata, che si chiama effetto Gunn. Non posso spiegarlo qui, a malapena lo capisco io, figurati. E’ un effetto strano, che accade in un materiale denominato GaAs, un materiale molto importante, ci fanno laser ed elettronica avanzata. Uno applica una tensione elettrica, passa corrente elettrica, placidamente, come un fiume. Ma oltre un certo livello di tensione, la corrente elettrica incomincia ad oscillare. E il materiale emette radiazione, microonde, in questo caso, sì, proprio quelle dei radar e dei fornetti con i quali ci scaldiamo i cibi. Oltre un certo livello, si oscilla. Su e giù, su e giù. E’ un periodo che oscillo anch’io, su e giù, ed emetto parole. Ma le oscillazioni non durano in eterno, si smorzano, se non c’è qualcosa che le costringe a durare. Il materiale si spegne, diventa inerte se abbandonato a sé stesso. Quindi l’inquietudine, le cause esterne ed interne, non sono di per sé un male. Le oscillazioni servono, basta non esagerare. Possono essere dolorose, questo sì. Ma il dolore, come l’allegria, sono parte di noi stessi. Ineliminabili. Questo è tutto, alla prossima oscillazione. Presto. Love, w

Here, now

“…To rise above the lies
‘Cause what we’re dealing here with today is a love thing
Right here, right now
Now listen…”

Un paio d’anni fa (circa) diventavo un blogger. Non sapevo che cosa significava esattamente. Ero in un grande laboratorio, durante i tempi morti di un esperimento. Ci sono molti tempi di attesa, negli esperimenti, ma non si può andare via, bisogna sempre stare attenti che gli strumenti funzionino. Stavo lì, annoiato, davanti ad un computer, di sera, da solo. Era un weekend. Conoscevo i blog famosi dei giornalisti, degli scrittori, ma scoprii che si poteva creare un blog con facilità, immediatamente. Curiosai un po’ tra i blogger di Virgilio, e fu come diventare un astronauta, un esploratore in altri pianeti. E mi dissi: “why not?”. Ne creai uno. E’ diventato una parte di me. Scrissi, cosa che non avevo mai fatto prima. Raccontai e racconto ancora sogni, cose che mi accadono, film che vedo, musica che sento. Ma soprattutto leggo. L’anno scorso scrissi una storia per il primo anno, oggi ho riletto alcuni post vostri. Alcuni bloggers non sono più in attività, con altri non ho più contatti, altri li ho incontrati da poco, alcuni post che ricordavo non ci sono più. Perfino un pezzo del mio blog non c’è più, per mia dabbenaggine. Ma ciò che ho letto è meraviglioso, ve ne propongo una personale selezione, in ordine più o meno cronologico. Non è esaustiva, ne potrei mettere molti altri, ma non ce la faccio più a rileggere, per ora basta così.

Jed dalla dentista:
qui

Cleopa a spasso per la sua città:
qui

Law & Religion:
qui

Il pranzo di Matu:
qui

La domanda di Marihellen:
qui

Le notti stellate di Kuccimol:
qui

L’arrivederci di Lara (che dolore…):
qui

L’amore di Pietro:
qui

Her Majesty gets Closer:
qui

La pasquetta de paura di Est:
qui

Ana fa flop (flop):
qui

Le piccole magie di Nina:
qui

L’Inghilterra mia e della gattina del Cheshire:
qui

Gli intrecci della dea:
qui

Le cose che piacciono a Emma:
qui

I fraintendimenti della Iena:
qui

Aka piccolo pescatore:
qui

L’amore di Bill:
qui

Una visita di Lenin72:
qui

L’ultimo di Ju, veramente difficile scegliere e scelgo questo. Tutti emozionanti:
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Questo è quanto, grazie per i momenti che mi avete regalato. Il sole splenda su di voi. Love w

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ventiminuti 4

E così, sono stato costretto a comprare una macchina nuova. La vecchia era morta definitivamente. Portata la figlia a scuola, ventiminuti per l’ufficio, anzi no, un po’ di più, che traffico. E non riesco a sentire la mia radio preferita, segnale troppo debole, o radio peggiore, non so. Devo fare benzina, mi fermo al solito distributore, nella via satura di macchine. La benzinaia è una donna minuta, scura di capelli, magra, occhi grandi ed espressivi. Non ha molti più anni di me, ci conosciamo già da un po’, ed è già nonna. Il marito non c’è oggi, vedo il suo cane, un boxer di nome Ettore tranquillissimo che vaga per la piazzola. Vado alla cassa per pagare, mi aspetta silenziosamente. Dietro di lei un televisore, ed un videoregistratore. Li ho visti accesi più di una volta, con su cassette di cartoni animati, per la nipotina. Spesso la tiene lei, dietro il banco, su un passeggino, o una sedia, non so, è quasi invisibile ai clienti che vengono a pagare. Le chiedo della bambina:
“Quanti anni ha?”
“Tre”, mi risponde, e fa il segno del numero con la mano, chissà perché.
“Va all’asilo, allora…”
Lei annuisce:
“Oggi però è qui, dorme, non ce l’ho fatta a portarla, devo tenere aperto, sono sola.”
Poi inaspettatamente, aggiunge:
“Venerdì mi sa che devo chiudere per forza, devo andare a Bologna, al Tribunale dei Minori…”
Io la guardo:
“Per lei?” e faccio un cenno verso dove immagino che la bimba stia dormendo.
Lei annuisce, e mi racconta la storia. La madre non la vuole, il padre la vuole dare in affidamento a un istituto. I due sono separati, il padre è in Calabria (la loro regione di origine) e ama ancora “quella donna”, come la chiama lei. Spera di ricattare “quella donna” con la minaccia dell’affidamento in un istituto, e di non farle più vedere la figlia, per farla tornare da lui. La nonna si oppone, e vuole tenere la bimba con sé. “Io le dò di più che non una marocchina”. Non capisco bene, forse intende una donna che lavora in un Istituto. Chissà perché mi racconta questo, un cliente che a malapena conosce. Ha gli occhi un po’ lucidi. Penso alla bimba, alla nonna, e mi viene un groppo in gola. Le faccio gli auguri, lei mi risponde con un “grazie” meccanico, mi volto e vado in macchina. Metto gli occhiali scuri, e penso alla storia, ed alle altre storie che sento, o leggo. Troppe storie, di questi tempi. Mi viene da piangere, parto e vado in cerca di sigarette. Il sole non mi scalda più.

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Stormer

Esco fuori sulle scale di emergenza del mio Dipartimento. C’è una formula che non capisco, meglio schiarirmi le idee con una bella sigaretta. Domani la devo pure spiegare ai miei studenti, diligenti ed attentissimi. Due ragazze sono pure carine, serie e sveglie. Mi piacciono, anche se non dovrei dirlo.
Incontro il postdoc romano. Magrissimo, occhiali spessi, ricci che avrebbero bisogno di un po’ di forbici. Timido, mi saluta. Fumiamo silenziosamente, è già un po’ buio. Rompo il ghiaccio. Un po’ di romanesco:
“Ce sei stato a Roma per er ponte?”
“No, ce so’ stato du’ settimane fa.”
“Io nun me ricordo più… Pasqua, cazzo, era Pasqua.”
“Filippo, Filippo c’è stato. Dice che era bellissimo.”
“Chi ce l’ha fatto fa’, a veni’ qqua. Er sacro foco d’a scienza, ce l’ha fatto fa’.”
Lui ride, io continuo.
“Ce potevo rimane’, a Roma. Ce penzo ancora, m’avevano preso a’a Casaccia.”
“Mi’ sorella lavora là. E’ ‘na chimica.”
” ‘Na chimica? Beata lei.”
“Beata…”
La sigaretta finisce. Ci salutiamo. Occhi un po’ nostagici, un po’ divertiti. Roma, maestosa e incantata, aleggia.
Scendo giù, in laboratorio lo studente napoletano che lavora con me mi dice:
“Fatto. Vediamo se ora funziona.”
Il “cosa funziona” è troppo difficile da spiegare. Non funziona da troppo tempo. Abbiamo cambiato una cosa, e la macchina non va. Ma domani funzionerà. Tardi. Raccolgo le mie cose, i-pod e bici. E’ buio, nel parcheggio del campus. La bici va. E’ una Nuzzi in lega, leggerissima. Volo, sì, mi sembra di volare, i fari delle macchine, i passanti, le altre bici, è un turbine. Mi alzo sui pedali, mi piace usare sempre il rapporto lungo. Svicolo, salto sulle buche e sui marciapiedi. Arrivo sulla ciclabile, nel parco. Nel buio, gli extracomunitari sulle panchine mi osservano mentre canto. Me ne fotto. Fa freddo, un po’. Ma così è bellissimo. Perché? Perché stare male? E’ ora, quello che conta. Arrivo di corsa, la signora tunisina che mi aiuta in casa è lì, che mi aspetta. Niente cous-cous, ancora non me l’ha portato. Ma me lo porterà, sono sicuro. Sorride e scappa. Mia figlia guarda la TV, la bacio sui capelli. Domani devo spiegare perché un tizio di nome Stormer ha vinto il Nobel. Domani è ancora bello.

I know it takes
To the start of forever
That’s a long time
Such a long time
To be waiting
In the sun
In the sun

Love, w

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Advice

Arrivai sulle rive del Mersey.
Ci arrivai sulle onde dei Tears for Fears.
Li cantai a squarciagola, mentre la mia macchina passava sotto le indicazioni di Penny Lane.
Ghiaccio sulla strada, vento freddo. Double deck che giravano.
Telefonai dalla cabina rossa, e vennero a prendermi.
Buio, case abbandonate.
Conobbi mia moglie, nacque mia figlia. Nella sala c’era scritto “Liverpool is the pool of life”.
Consiglio per i giovani “dentro”: presto diventeremo più vecchi.

Love is a promise, love is a souvenir.
Once taken, never forgotten, never let it disappear

Sorrido, in questo pomeriggio di Novembre. Gli anni passano, le lacrime scendono. Le canzoni sono lì, che ci aspettano.

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Legacy

Nel 1985, durante il mega concerto planetario di beneficenza Live Aid, organizzato da Bob Geldof, Elvis Costello cantò “All you need is love” da solo, accompagnandosi con la chitarra elettrica. Nella presentazione, la definì “an old northern English folk song”, una vecchia canzone folk del nord dell’Inghilterra. Sto rivedendo il filmato, è splendido per la passione di Elvis e la partecipazione del pubblico di Wembley. 1967, 1985, 2006, che importanza hanno gli anni, il tempo. Nessuna, di fronte a questo filmato, di fronte a questa canzone, di fronte al mio essere allora ed adesso. Quando ci fu Live Aid, ero a Parigi, e non potei vedere che alcuni spezzoni del concerto, in un bar. Non avevo la televisione, fuori i Parigini celebravano la festa del 14 Luglio, l’anniversario della Rivoluzione che predicava Libertà, Uguaglianza, Fratellanza. E sono le note della Marsigliese che aprono la versione originale della canzone dei Beatles. I versi sono come una filastrocca,

Non c’è niente che tu posa fare che non possa essere fatto
Non c’è niente che tu possa cantare che non possa essere cantato
Niente che tu possa dire se non imparare a giocare il gioco
E’ facile
Tutto ciò di cui hai bisogno è amore

e così via, il messaggio è chiaro, semplicissimo, la vecchia canzone folk del nord dell’Inghilterra, composta ed eseguita da quattro ragazzi provenienti da una città dura e difficile come Liverpool, riassume in sé il desiderio e la speranza non di una generazione, quella del ’68, ma di tutte le generazioni di ragazzi, e perché no, di adulti che comunque sono stati ragazzi. Ce lo dimentichiamo, gli anni scorrono, 1967, 1985, 2006, ma è tutto lì, in queste parole. Mi sono chiesto spesso, l’amore basta? E’ sufficiente? L’amore è una cosa enorme e piccolissima, facile e complicata come la canzone. Ma il bisogno c’è, e talvolta è disperato, anche se spesso facciamo finta di non accorgercene. Le maschere che indossiamo, nella vita di tutti i giorni, talvolta saltano, e in alcuni momenti possiamo vedere il bisogno scolpito sulle nostre vere facce.
I Beatles andarono via presto da Liverpool, quando diventarono delle stelle planetarie, persero anche il loro accento originario, molto forte nei loro primi filmati, quasi inesistente ora nelle interviste a Paul Mc Cartney. Forse la legacy, l’eredità dei Beatles e di tutte le loro splendide canzoni, di tutto il loro mondo, è contenuta in All you need is love, e qualcosa delle loro radici in quella città è presente, lo sento quasi a pelle. Vi traduco la seconda strofa, che a me sta particolarmente a cuore in questo momento

Niente che tu possa fare che non possa essere fatto
Nessuno che tu possa salvare che non possa essere salvato
Niente che tu possa fare se non imparare ad essere tu nel tempo
E’ facile
Tutto ciò di cui hai bisogno è amore

L’ultima volta che ho visitato Liverpool è stato nel 2002 e la città è cambiata, ovviamente, da quando ci andai per la prima volta, nel 1989. Liverpool è più continentale, sta rinascendo, ma il vento sul Mersey ed i tramonti di una luce sfolgorante sono gli stessi, così come i mocciosi dai capelli cortissimi che giocano a calcio nei parchi. Come mi ero ripromesso, ho scritto un po’ di loro, un po’ di una città difficile da amare, ma da me amata come un paio di blue jeans vecchi e comodi, e un po’ di me. Sono un po’ emozionato in questo momento, perché è la mia vita, e ve ne faccio partecipi. Adesso mi accenderò una sigaretta e mi rivedrò il video. Che il sole splenda su di voi, come spesso scrivo, all you need is love w

Revolution

Liverpool è piegata da una crisi pluridecennale, il porto è andato in malora molto tempo fa, la città non ha più una sua identità. La popolazione si sta inesorabilmente riducendo, è povera, la microcriminalità dilaga da molti anni. Vi sono quartieri fatiscenti, abbandonati. C’è un segno di rinascita e di speranza, da qualche tempo, ma gli anni 70, 80 e 90 sono stati terribili. Il resto del Nord dell’Inghilterra versa più o meno nello stesso stato, Birmingham, Sheffield (ricordate Full Monty?), Newcastle ed in parte Manchester sono in condizioni non meno gravi. Ma i Liverpudlians (così si dice) hanno un gran senso dell’umorismo, sono molto di sinistra anche se disincantati. Un prof. col quale collaboravo era un membro del Labour Party, non certo il new labour di Tony Blair, ma quello dei dockers, che usava la parola socialismo senza vergonarsene. Mi invitò ad un party assieme ad altri miei colleghi, in una grande casa bellissima e disordinata, tipica di un accademico inglese. C’era un telescopio che troneggiava al centro di una stanza, mi ricordo. Ovviamente, usò le canzoni dei Beatles come colonna sonora. La canzone che ho scelto per oggi è Revolution, un rock’n’roll di John scatenato, dai versi molto dissacratori. Parla del ’68, e della rivoluzione. E dice di stare attenti, di non odiare, di non predicare violenza. Sono d’accordo con voi, fratelli, cambiamo il mondo, ma state attenti ai maestri cattivi. Parole controverse, recitate da un cantante già ricco e famoso, ma forse non meno vere. Godiamoci il rock’n’roll, facciamo festa e pensiamo con la nostra testa. Love w

Occhi di caleidoscopio

Ho una cartolina col ritratto di John Lennon, che spunta da una stampa appesa nel soggiorno della mia casa.La stampa ritrae il waterfront di Liverpool, una vista della città dal fiume Mersey (potete vedereuna visione notturna del waterfront nella foto emblema del mio blog). Un mio zio in visita la chiamò ironicamente “il santino”. John, l’anima più hippy e dissacratoria dei Beatles, tenero e ribelle, visionario ed ironico, innamorato. Innamorato e basta. Si sa, Paul e John firmavano quasi tutte le canzoni dei Beatles, ma c’erano le canzoni di Paul e le canzoni di John. Io credo che fra loro ci fosse una specie di competizione artistica, ed una sintesi. George Harrison (soprattutto) e Ringo Starr mantenevano l’equilibrio. Ripeto, queste sono solo mie idee personali, non ho letto biografie, non mi sono documentato. Sono solo mie impressioni. John ebbe un’infanzia difficile, a quanto so, e da studente d’arte si trasferì in un appartamento, o una camera, non so bene, in un grande, vecchio palazzo che dà sulla cattedrale anglicana, imponente e minacciosa nel centro città. La cattedrale ed il palazzo storico sono su una collina dal quale si vedono dei quartieri desolati, i vecchi docks e il mersey. L’asilo nido di mia figlia era situato in un palazzo simile, molto vicino alla cattedrale, e passavo in macchina accanto a questi luoghi, quando la portavo prima di andare a lavorare, o la riprendevo a fine giornata. Quel quartiere mi piaceva, le case in stile georgiano, silenzioso, poco traffico, anche per gli standard della città. Sto divagando un po’, i miei ricordi mi portano un po’ lontano dall’argomento, che sono le canzoni di John cioè quelle canzoni dei Beatles che considero di John. Ho scelto Lucy in the Sky with Diamonds, tra le molte, per la sua poesia e le sue visioni. Immaginati su una barca su di un fiume, con alberi di mandarino e cieli di marmellata d’arancia, così recitano i primi versi. L’andamento della musica mi evoca cerchi colorati, spirali che salgono nel cielo, e anch’io vorrei cercare la ragazza con gli occhi di caleidoscopio, brillanti come il sole. Sì, LSD, droga, viaggi indotti dall’allucinogeno, ma la forza dei versi è incredibile, il refrain rock quasi ballabile, alternato ad un andamento lento ed evocativo. Era solo il 1967, ragazzi, io avevo sette anni. Ed era un ‘esplosione, una rivoluzione. Altro non riesco a scrivere, se non che spero, stanotte, di sognare di prendere un taxi fatto col giornale, e di trovarci seduta la ragazza dagli occhi di caleidoscopio. Un pensiero per John, e per George, che non ci sono più. Love w

Penny Lane

Ho incominciato a scrivere sul blog quasi due anni fa, ed uno dei primi post che mi venne in mente fu su Penny Lane. Per imperscrutabili motivi non l’ho mai scritto, ma stasera ho deciso: lo faccio. Abitavo non lontano dalla strada celebrata da una delle più straordinarie canzoni concepite ed eseguite dai Fab Four. Ovviamente ci sono stato, più di una volta. John e Paul abitavano in zona, e descrissero in modo surreale e reale al tempo stesso questo non luogo del British suburbia. Il barber shop, la banca, il negozio di fish’n’chips, era più o meno tutto lì, forse per esigenze turistiche, chissà. Ciò che mi colpì di più è che la strada non è niente di speciale. Niente monumenti, niente viste particolari, niente suggestioni. Villette e terraced houses anonime. L’unica particolarità è una residenza per studenti universitari. Non doveva essere molto diverso 50 anni fa, quando i due geni della musica pop , giovanissimi, la frequentavano. Ma la forza della canzone per me sta proprio in questo. Il luogo è anonimo, e viene riempito di emozioni e suggestioni da una canzone straordinaria, godibilissima e raffinata al tempo stesso. Orecchiabile, ma non banale. Sorridente, nostalgica ed ironica, unica. E gli arrangiamenti sono forse il punto di forza della loro musica . Nessuno sapeva assemblare canzoni come loro. Il beat dei primi tempi è ancora lì, ma c’è molto, molto di più. I caratteri descritti (il barbiere, il pompiere, il bancario in moto e la vecchietta che vende papaveri) sono un po’ eccentrici, molto british, molto tipici. Il senso dell’umorismo è molto presente in tutte le canzoni dei Beatles, in questa particolarmente. Dopo il mio lungo soggiorno in Inghilterra, comprai il CD di Sgt. Peppers, (l’album è dello stesso periodo) e riscoprii i testi. Li leggevo con occhi un po’ più “inglesi”, e sono pieni di sottigliezze che a uno straniero che non ha mai vissuto lì sfuggono. Penny Lane è una celebrazione di un mondo, una atmosfera “suburbana” molto inglese, ma universalizzata. Colorare il grigio di suburbia, passare dei pennelli vivaci e trasformare il tutto in un sogno vivido, reale, pieno di speranza e di umorismo. Questo è il miracolo di Penny Lane. Forse sono stato banale in questa piccola celebrazione, molti hanno scritto meglio di me sull’argomento, posso solo aggiungere che Penny Lane, e Liverpool tutta, è nelle mie orecchie, nei miei occhi e anche nel cuore.

Penny Lane is in my ears and in my eyes.
There beneath the blue suburban skies
I sit, and meanwhile back

Love w

Blackbird

Quando vivevo a Liverpool, passavo dei periodi in cui lavoravo molto duramente. Spesso facevo turni di notte, nel grande laboratorio dove compivamo i nostri strampalati esperimenti. Così, mi capitava di passare le sere non nei locali pieni di girls con occhi azzurri e capelli biondi, bensì attaccato a schermi di computer, o cercando di fare funzionare strumenti molto capricciosi. Durante un’estate feci una sessione di turni particolarmente pesante, per molte settimane. Arrivavo a casa quando era ancora buio, se ero fortunato, o più spesso quando era già giorno da un pezzo. Il mio appartamento era ricavato nel sottotetto di una vecchia casa, con uno splendido giardino. Una rampa di scale chiusa da una vetrata dava sul prato sottostante, ed ogni mattina un merlo si affacciava dal vetro. Eravamo diventati amici. Il richiamo alla canzone Blackbird, dal doppio album bianco dei Beatles, mi viene naturale. Il piccolo uccello che deve imparare a volare nella notte:
“…take these broken wings and learn to fly…”
Uno dice: vai all’estero, impara a volare. Scopri il mondo. Città nuove, luoghi affascinanti. Ma c’è un rovescio della medaglia: la solitudine. Un paese sconosciuto, una lingua che non è la tua (e vi assicuro che capire l’inglese dei liverpuliani non è facile). La solitudine mi accompagnò a lungo, nei miei soggiorni all’estero. E se lavori tanto, è dura. Orari irregolari, stanchezza, e tutti i problemi quotidiani da risolvere, da solo. Poco tempo per hobby, sport, vita sociale. Così il piccolo merlo si è indurito, ha imparato a volare, ma la malinconia ha scavato una tana in lui, da dove esce ogni tanto e lo avvolge, come la nebbia inglese. Love w

Cuore d’acciaio

Questa è la prima canzone dei Beatles. E va bene, non sono un beatlesologo, uno di quelli che sa tutto, che ha tutti i dischi, ha i gadgets, va ai raduni etc. ma ho vissuto nella loro città di origine, a due passi da Penny Lane, e ho respirato la loro aria. Ovviamente li conoscevo già da prima, e mi avevano già dato tante, tantissime emozioni. A 13 anni mia madre mi comprò lo stereo, accompagnandolo con la raccolta Beatles 1967-70 ( il doppio disco blu, per intenderci). Credo di avere imparato l’inglese sui testi delle copertine. Lo stereo è stato rottamato, mia madre non c’è più, ma il disco ce l’ho ancora. E suona, perchè ho un “nuovo” impianto stereo che mi permette di leggere il vinile. Ok, detto questo, parliamo di I saw her standing there. L’ho sentita (già scritto, mi ripeto) cantata in coro da vecchietti al Flanagan’s Apple, in Matthew Street, la strada dove sorgeva il Cavern. Il vecchio Cavern è stato demolito, il nuovo sorge un po’ più in là, sulla stessa strada. Il beat di I saw her standing there (che suona ancora benissimo) mi fa pensare alle seguenti cose:
mattoni rossi;
vento sul Mersey;
Sabato sera in centro città, una città sporca e desolata dal cuore d’acciaio rugginoso, che pompa vita, energia e umorismo;
ragazze con capelli cotonati e cappottini corti, di foggia povera.
Le loro nipoti hanno un look diverso, ma lo stesso spirito. Battuta pronta, energiche, il sabato sera bevono un po’ di booze a casa per tirarsi su, si vestono con abiti succinti, senza calze con qualsiasi tempo ed in qualsiasi stagione, e sciamano in gruppi, pronte all’azione. Si lasciano andare, nei locali, i boys con camicia abbottonata fino al colletto le scrutano, con una Beck’s o una Corona in mano, e qualche volta la scintilla scocca. 40 anni dopo il beat di questa canzone, il cuore di acciaio di Liverpool batte ancora forte, il Sabato sera. Provare per credere. Love, w

Postcards from nowhere 3

Ho combinato una cappella in laboratorio. Niente di grave. Smontare e rimontare, al solito.

La mia macchina è ufficialmente morta. Solo bici.

La nebbia sta arrivando. Per ora è pioggerellina.

Liverpool, Parigi, Berlino, Trieste, Roma, San Francisco. Vorrei avere un mazzo con queste carte, sceglierne una a caso, e andare (tornare) lì.

Prendo il caffè come la signora col cappello che vedete. Immagino che lo stato d’animo sia lo stesso. Mi piace Hopper. Mi sa che userò un po’ dei suoi quadri. Gli chiedo scusa.

Edo, Claire, Elaine, Jamie, Tim, Horst, Dom, Manolo. Se ci siete, battete un colpo. Ritornate.

Dove sono? Il tomtom non funziona più.

Grazie fiammelle. Love, w

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Verrà

Verrà il giorno in cui mi alzerò dal letto sorridendo. Preparerò la colazione per me e mia figlia, senza troppi patemi. Mi raderò prendendomi tutto il tempo che voglio, canticchiando questa canzone. Mi farò la doccia e mi verrà un ‘idea per una bella storia, una bella vacanza, un buon progetto di lavoro. Verrà il giorno nel quale mi fumerò una sigaretta seduto sugli scalini del mio istituto senza i soliti pensieri scuri, guardando gli studenti che sciamano da un edificio all’altro, senza invidiarli troppo. Che ricomincerò a leggere il giornale senza interrompermi perché penso ad altro, che riuscirò a vedere il Film Bianco di Kieslowsky senza dovere smettere perché fa troppo male. Verrà il giorno che ricomincerò a lavorare senza interrompermi continuamente perché non riesco a concentrarmi, senza questo dolore che mi batte nel petto e nella testa. Che non sarò costretto a prendere l’EN per dormire. Qualunque sia il tempo, pioggia, neve, nebbia o sole, starò di nuovo bene. Mi metterò le cuffie dell’ipod e mi sentirò i Led Zeppelin, mentre torno a casa in bici dal lavoro, cantando a squarciagola come un matto. Verrà il giorno che andrò a sciare sulla Gran Risa, o che mi tufferò nel mare della Croazia, solo per il piacere di farlo, e non per scacciare le nuvole dentro. Senza che l’assenza di qualcuno mi pesi come un macigno. Senza i rimorsi e la sensazione di condanna che provo continuamente, Verrà il giorno che scriverò sul blog come facevo agli inizi, e sarà una festa. La nebbia sta per arrivare, lo stato di grazia non c’è più, ma il sorriso è dietro l’angolo. E’ solo colpa mia, è una cosa insensata, e sta a me uscirne. Love, w

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Acquario

Se avessi una casa un po’ più grande mi piacerebbe avere un acquario. Mi piacerebbe passare un po’ di tempo a guardare pesciolini multicolori che nuotano in un blu luminescente, nella stanza illuminata solo dalle lampadine nella vasca. Un pesce pagliaccio che si nasconde dentro una piccola caverna artificiale, un cavalluccio marino che mi guarda attraverso il vetro. Mi sentirei come l’uomo dalle ossa fragili che guarda quelle strane e deliziose immagini nella videocassetta che gli ha regalato Amelie. Luci e colori silenziose nella penombra, il piccolo Nemo che mi sorride, mentre mi allontano dal vacuo fragore del mondo che si avvita in spirali senza senso. Love, w
(Settembre 2005)

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Postcards from nowhere 2

Ieri sul Carso soffiava la bora. Le foglie stanno diventando gialle e rosse. Mi manca la bora, mi mancano i Krantz di Magda la mattina. Mi manca il freddo secco.

Ho portato mia figlia a visitare la sua ex-scuola. Un edificio incantevole, in mezzo al verde. I bambini le sono corsi incontro, la maestra ha interrotto la lezione. Sono stato là, mezz’ora, seduto su una piccola sedia, a vedere i bambini giocare a tombola in classe. La squadra di mia figlia ha vinto. La maestra mi ha chiesto: “ce la riporterà per l’anno prossimo?” Mi sono messo gli occhiali scuri appena comprati al Kompas Shop di Fernetti. Non sono riuscito a rispondere per la commozione. E’ stata una delle mezz’ore più belle della mia vita

Mia figlia mi ha portato a vedere lo stagno nel parco dietro la scuola. Niente girini, niente rane, con suo disappunto. In tutti gli anni che sono stato là non avevo mai trovato il tempo di andarci.

Il motore della mia macchina si è rotto in autostrada, mentre stavamo tornando a casa. E’ arrivato il carroattrezzi e ce l’ha portata in una autofficina sperduta in Veneto. Siamo stati là un po’, io e mia figlia, ad aspettare che mia moglie ci recuperasse. Da una villetta accanto all’autofficina una bambinetta è spuntata con un cane pastore. Voleva giocare con mia figlia. Povera, sperduta nel nulla della bassa.

Sono qui, nel mio ufficio, a preparare la lezione. Fra un po’ vado a pranzo. Non so se domani andrò in palestra, non ho la macchina. Forse sì, in bici.

Vorrei che Mary Poppins venisse da me con una scatola, io la aprirei e ne uscirebbero tutti i colori del mondo.

We never leave the past behind
We just accumulate

Love, w

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Mercoledì…

….un sogno che ho nel cassetto da qualche mese forse si avvererà…

…ricominciare dopo venti anni. Me ne fotto della schiena, me ne fotto dell’età. Ce l’ho ancora il mio judoji, i miei zoori, la mia cintura. Mi ricordo ancora un sacco di cose. E quando ho visto mia figlia salire sul tatami, e fare il rei, il fuoco è divampato. Fatemi gli auguri. Love, w

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Cousin Joe non abita più qui

La giornalaia filippina mi guarda con un sorriso molto appropriato per questa bella Domenica di Ottobre, mentre le chiedo i soliti quotidiani e, naturalmente, Topolino per mia figlia. E’ già ora di pranzo, ma noi mangiamo sempre un po’ tardi, vogliamo andare a prendere l’ aperitivo al bar, dove pasteggiamo prima del tempo con degli gnocchetti fritti. Ma prima di andare via dall’edicola, il mio sguardo si posa su un DVD, The essential Clash. Guardo mia moglie, che stringe le spalle, e cedo alla tentazione, per 12 euro e 90 lo prendo. Quando torno a casa per pranzo, lo metto su, ed accendo lo Stereo collegato al lettore. Clip: London Calling, così antico che l’ho visto per la prima volta al cinema e non in TV, in una rassegna dedicata al punk. Il filmato è girato sotto la pioggia, di sera, loro suonano tutti bagnati su un barcone che galleggia sul Tamigi. Si intravede qualche scorcio della città, Joe Strummer, il cantante, porta un cappello nero a falde larghe. Altri video (molti girati dal vivo) sono Career Opportunities, Should I stay or should I go, un’altra versione live di London Calling (qui Joe stecca clamorosamente l’attacco), Radio Clash, dai tempi del loro successo in America, e la grandissima Rock the Casbah. Sono magrissimi, vestiti di nero, suonano sotto un pozzo di petrolio. Joe ha una capigliatura alla mohicana e indossa una Kefiah sul giubbotto di pelle nero, Mick Jones ha un berretto da sandinista. Un armadillo atraversa la scena, un arabo beve alcolici (credo) ballando nel deserto, jet militari che sfrecciano nel cielo. Erano tempi di guerra, già, Libano, Libia, Afghanistan, Iraq-Iran, Nicaragua, Salvador etc. E poi dicono che gli anni 80 erano frivoli, gli happy eighties. Adesso è lo stesso, sotto i nostri sciocchi sguardi occidentali. I Clash, dei veri rockers. Dub ‘n’ punk, il reggae fa ballare, ma le chitarre sono rock, Joe ci da’ dentro con la sua voce sforzata, mia moglie dice sottovoce: “sembra impossibile che sia morto”. Quando lo dice, penso a lui come ad uno di famiglia, un cugino un po’ più grande col quale mi ero perso di vista, e la notizia della sua morte, che avevo letto su Internet nel Natale del 2002, è stata difficile da accettare. No, non è vero, que viva Sandino. This is Radio Clash.
(Ottobre 2005)

….non metto su Rock the Casbah, preferisco Should I stay or should I go, più appropriata…
(Ottobre 2006)

Postcards from nowhere

Il sole è ancora caldo, la nebbia tarda ad arrivare. Meglio così.
Oggi ho sentito la prima canzone dei Beatles. Al Flanagan’s, il pub irlandese vicino al Cavern, in Matthew Street, i vecchietti con la birra in mano la cantavano a squarciagola. La memoria, che brutto affare.
La bilancia mi dice che sono dimagrito di 11 Kg. Sarà vero?
Sono arrivato ad un pacchetto al giorno.
I capelli bianchi sulle tempie mi spuntano come funghi.
Sabato vado in Slovenia.
A lezione mi sono sfiancato in una dimostrazione matematica estenuante. Corso nuovo, difficile. Studenti: sei. Ma sono delle perle.
Ricomincerò a praticare lo Judo?
Lo stato di grazia non c’è più.
Il cuore batte ancora, forte.
Giovedì era il compleanno di Something, dei Beatles (George Harrison). Oggi però è un altro giorno. E io aspetto ancora lo space cowboy…

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ventiminuti 3

La scorsa notte ho dormito tre ore. Capita. Il mio umore non era dei migliori stamattina. Poi il rush per accompagnare mia figlia a scuola. Sbrigati, sbrigati, sbrigati… la parola più usata da me negli ultimi tempi. In tempo, sì, in tempo, raramente facciamo tardi. Gli zainetti multicolore entrano, io mi volto e ritorno alla macchina. E i ventiminuti dalla scuola all’ufficio, sempre quelli. Ieri, oggi, domani. La radio locale che sento da quando vivo e lavoro qui mi regala questa perla. Why can’t we live together. I colori cambiano, i fiori risbocciano, il sole splende più vivo. L’organo a scatti, le percussioni, che meraviglia. Tutto assume un altro aspetto. Ed io che mi dico: adesso la metto su, non posso farne a meno. E’ quello che ho fatto. Buongiorno miei cari. Love, w

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…how English…


As the rain comes down, upon this sad sweet earth
I lie awake at nights and – think about me
All those usual things like what a fool I’ve been
I curse the awful way – that I let you slip away
For what was forged in love, is now cooling down
With only myself to blame for playing that stupid game
I thought I need only call and you would run
But that day you never showed honey – well I sure learnt –

That it seems I need you more each day
Heaven knows why that it goes that way –
Now it’s far too late – an’ I’ve lost this time –
Like the Boy who cried Wolf

An’ yes – I know it’s far too late
To ever win you back –
No tale of nightmare’s at my gate –
Could make you turn –
My lost concern

And now the night falls down, upon my selfish soul
I sit alone and wonder – where did I go wrong?
It always worked before you kept the wolf from my door
But one day you never showed and honey – Now I’m not so sure –

That is seems I need you more each day
Heaven knows why that it goes that way –
Now it’s far too late – an’ I’ve lost this time
Like the Boy who cried Wolf

LA

Sono stato in California solo una volta, per vacanza. Vorrei e potrei andarci per motivi professionali, e forse prima o poi ci andrò. La California è il paese che ho visitato di più dopo l’Italia. Sì, perché quando uno vede film o telefilm americani, questi sono per la maggior parte ambientati là. Guardare film o telefilm, se sono particolarmente belli, è un po’ come viaggiare nel tempo e nello spazio, e finirci dentro. Non è un’idea particolarmente originale, ma è così, almeno per me. Sono stato a Los Angeles per tre giorni, non l’ho sopportata, ne avevo paura, l’ho visitata pochissimo, eppure ne sono rimasto affascinato, in un certo modo. Ho visto scorci di posti che conoscevo già, tramite il cinema o la televisione. Questo ammasso sterminato di casette con giardino, ricchissime o miserabili , questa foschia permanente, i pozzi di petrolio sulle colline DENTRO la città, queste strade dove non cammina nessuno, perché tutti girano in auto, o, al più sui pattini ed in bicicletta, è finita, in qualche modo, dentro il mio cuore e la mia testa. Mi sembra incredibile, eppure potrei descrivere per filo e per segno ogni posto che ho visitato a LA, a differenza di altre città. Potrei raccontare dei surfisti a Malibu, della giostra di Santa Monica, del supermarket di Beverly Hills dove abbiamo comprato sushi che abbiamo consumato su una panchina al di fuori, assieme agli immancabili lavoratori “invisibili” messicani, degli attrezzi da culturismo a Venice, dei piccoli condo vicino Hollywood che io immagino abitati da aspiranti attori. Quando vedo film come Collateral di Michael Mann, o Jackie Brown di Quentin Tarantino, ripenso sempre al mio viaggio, e a quella sorta di sentimento struggente che mi prendeva durante la mia visita. LA, lo so che prima o poi ti rivedrò, e camminerò sotto le tue palme. Love, w

(Giugno 2005)

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Esco con Panda

Questo è un vecchio post. Parla di incontri e amici di tanto tempo fa. Still missing Britain.

Stasera esco con Panda. Panda e’ il soprannome che hanno dato ad Andy quand’era studente a Cardiff. Fa il lecturer in un college di Wrexham, una cittadina del Galles del Nord. L’ha scelto lui di andare a lavorare li’, certo non e’ Berlino, dove era prima. Ma lui e’ un gallese purosangue, in famiglia parla gaelico, e si sente questa missione di educare nel paese in cui e’ nato e dove sono le sue radici. Mai e poi mai vivrebbe in Inghilterra. Il mio amico-collega Ronan (altro celtico, ma di Dublino) lo ha invitato a tenere un seminario a Liverpool, e lui questa notte restera’ a dormire a casa mia. Io e Panda non ci conosciamo da tanto, ma siamo in sintonia, abbiamo lavorato bene insieme e siamo abbastanza amici. Lui e’ un bel ragazzo britannico (britannico si puo’ dire, comprende scozzese, inglese e gallese), alto, sorriso aperto e pronto alla battuta. Il suo accento gallese e’ splendido da sentire per me, anche se agli inglesi deve fare sorridere. Ho visto piu’ di un programma comico dove il gallese viene dipinto come un sempliciotto che ha dimestichezza (per non dire altro) solo con le pecore. Panda pero’ e’ in gamba, e gli piace uscire ed andare in giro per locali, questa e’ una cosa che gli manca nella sua nuova vita. I miss metropolys, mi manca la metropoli, mi confessa. Dopo essere passati per il mio appartamento, up we go. Chiamiamo il cab ed andiamo a mangiare all’Everyman, un ristorante self-service veramente speciale. E’ a due passi dall’Universita’, sotto un teatro. I piatti che servono sono buoni, molto meglio di quello che si potrebbe aspettare da un posto del genere. E’ pure segnalato in alcune guide. Serve un misto di cucina inglese, indiana, francese. Quiche lorraine, piatti vegetariani e dolci fantasmagorici, buonissimi, preparati con cura nella scelta degli ingredienti, soprattutto per quanto riguarda la provenienza e la genuinita’. Ad una certa ora la cucina smette di servire, e si passa alla birra. I frequentatori sono di tutti i tipi, prof. universitari (che essendo inglesi, sono ivariabilmente eccentrici), brave signore con tante borse dello shopping, immancabili studenti di tutti i tipi e colori, impiegati di banca nei loro vestiti blu gessati. Mangiamo, ma non ci fermiamo per bere. Andiamo ad uno dei mie pub preferiti, il Philarmonic, di fronte alla Philarmonic Hall (The Phil, la chiamano i locali). Un locale molto grande (maestoso, direi), pieno di gente che beve, parla e ride forte. Pinte di lager e di bitter, con Panda si parla del piu’ e del meno. Del fatto che in Galles adesso c’e’ una particolare attenzione nello studio del gaelico a scuola, che rischiava di venire sommerso dall’inglese. Ho visto in TV (a Liverpool si puo’ vedere il canale locale gallese) dei ragazzi di colore parlare questa lingua dolce e cantilenante, ovviamente a me incomprensibile, e mi ha fatto veramente uno strano effetto. Poi si parla di sport (celtici, ovviamente) e delle loro strane regole. Naturalmente anche di calcio e di ragazze. Dopo un po’, atterriamo in un altro locale, il Blue Angel. Un posto un po’ fetido ma, a suo modo, un piccolo museo del beat anni 60. Foto dei Beatles quando non si chiamavano ancora cosi’ e di altre glorie del passato. Tra le altre, una foto degli Stones quando erano gia’ famosi, mentre firmano un muro del locale. Il Blue Angel e’ in una zona decadente della citta’, piena di vecchi magazzini con i loro muri di mattoni rossi e sporchi. Questa zona, vicino al Mersey, e’ adesso piena di locali quasi invisibili di giorno, ma vivi e pieni di suoni e di gente durante le notti del weekend. Per le strade, cabs neri che passano senza sosta e che raccolgono gente , e’ incredibile, basta mettere fuori il braccio e ne arriva subito uno, che ti carica e ti porta in giro. Finiamo in un locale dove si sente acid jazz, gli ultimi drinks, i clubs chiudono alle tre. Prima di uscire, una ragazza mi chiede sorridendo se sono italiano. Naturalmente, le rispondo col sorriso piu’ largo che io possa fare. Panda si intromette,il giovialone, lei fa spallucce, mi saluta e se ne va. Ora di andare a casa. Per strada, sono ancora aperti i negozi di take away. Ragazze vestite benissimo che mangiano fish and chips dal cartoccio mentre camminano per strada, odori pungenti di spezie indiane. Fra qualche settimana tornero’ in Italia, Panda cambiera’ ed andra’ ad insegnare in una citta’ gallese dal nome impronunciabile, Aberystwith (pronunciate un po’ voi un nome cosi’).
Dopo molti anni, ci mandiamo ancora bigliettini natalizi e ci incontriamo alle conferenze. Chissa’ che un giorno non vada a mangiare fish’n’chips dalle sue parti, guardando il mare.
(Maggio 2005)

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Ancora soprabiti

Per un po’ è stato appeso. Ora di rimetterselo, ed uscire. Cool outside. E sorridere, un po’. British humour, mi manca. Go back to England. Be brit. Drizzle, lawn, football, pint of lager, coffee break, smile, smirk, pence, telly, have you got the time on you, mate? Miss you, Liverpool. Love, w.
…and corner shops, teapot, sunday breakfast, scrambled eggs, beans on toast, sunday paper, boring cricket, toons, booze, cabs, clubs, pubs, bars…

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Fiammelle

Non è un bel periodo, ve l’ho già scritto. Ho fatto un esercizio di narcisismo, stasera: ho riletto i vostri commenti ai miei post. E ho trovato un tesoro, che mi ha rimesso un po’ in sesto. Siete fiammelle, come si fa a non volervi bene? E ho deciso di postare alcuni dei vostri commenti che mi sono rimasti nel cuore. Sono lì, nel mio blog.Ce ne sono molti altri, ma non posso metterli tutti, purtroppo. Eccoli, mi emoziono ancora a leggerli. Non so quando tornerò a riscrivere un post decente, una storia o chissà che altro. Mi dispiace di avere perso i commenti del primo blog, che ho cancellato. Anche lì ce n’erano di straordinari (Lara Croff, Law girl, Jed ed altri). Ma questi li conservo nel mio cuore, nella mia mente, nei miei occhi.

Scritto da: esteban.77 il 10-01-06 alle 07:28 Auguroni anche a te. Abbiamo letto tutto, le storie sono piaciute moltissimo anche a Daniela. Spero tanto che non siano finite qua. Ti confesso che mi piacerebbe che fossi te Edo: è un personaggio malinconico, ma affascinante. Come mai usi cosi spesso l’espressione “ravviarsi i capelli”? Mi piacerebbe uscire a bere qualcosa con te, purtroppo so che non sarà facile. Ancora buon anno, Est

Scritto da: thedanix il 28-03-06 alle 21:22 carissimo weller anche per me leggerti è sempre un grande piacere, sia nei commenti che nei racconti, ti porti dietro la tua aura (concedimelo) signorile ed è una qualità che apprezzo molto. Su Moretti dici bene, quando avrai desiderio di andare a vederlo mi farà piacere leggere il tuo pensiero. ti abbraccio. la reine 🙂

Scritto da: kuccimol il 30-03-06 alle 18:16 Ciao. Mi hai fatto un complimento molto bello, davvero. E’ confortante sapere di riuscire a trasmettere qualcosa scrivendo, nonostante le mie limitate capacità. E poi adoro il mare, quindi tutto ciò che ha a che fare con esso (onde comprese!) mi va benissimo. Ciao, e grazie per essere tornato a leggermi. K.

Scritto da: anonimo (Anabolena) il 27-04-06 alle 16:04 mi dispiace e ti capisco, resta sempre il senso di colpa assieme alla vita, ti lascio questo, come un bacio: “Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciò un uomo del mio sangue: ‘Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano’ “. (Il giardino dei sentieri che si biforcano J.L.Borges) Ana

Scritto da: thedanix il 01-06-06 alle 11:21 si è vero i commentatori sono eccezionali, lo dico sempre sono la miglior cosa di questa esperienza. Salvo gli articoli per forza ma dovrei salvare i commenti altrochè!

Scritto da: anonimo (scemerentola, lapanchina) il 26-05-06 alle 10:59 Buondì, ho stampato e letto in viaggio Horst et Dom e volevo farti i complimenti, mi è piaciuto molto, ora mi leggo questa nuova storia…Sono ancora in mezzo letargo, ma ci sono.Baci Gabri

Scritto da: matu73 il 12-05-06 alle 11:29 le nanoparticelle sono golose, attirale preparando un buffet di nanoantipastini stuzzicanti: cocktail di scampi elettromagnetic i, positrone in carpione, tortino al neutrino… basta che sia un pranzetto di (quark) charm e che l’acqua non sia troppo pesante, senno’ gli viene l’heaviside di stomaco. non e’ una buona idea w, che ne dirac? 😐 … … …

Scritto da: anabolena8 il 25-05-06 alle 18:01 noia? sei la perona più hippy che conosco qui…(sorrido) , si anch’io…i post possono passare dallo strafottente alla vertigine, ma nei rapporti con gli altri Peace&Love…e ironia…ana

Scritto da: anonimo (diamanta) il 30-06-06 alle 09:17 …E le antenne si sentono perse, disperate, emettono ma non ricevono. Bip bip, niente segnale, per un po’ niente energia. Ma noi insegnamo un’altra cosa. L’energia assume forme diverse…. bellissime parole, molto vere, ma mi è sorta la domanda, ci sono antenne costruite per ricevere un segnale specifico, gli altri segnali li percepiscono ma non li decifrano… in tal caso? Cambiare la struttura dell’antenna vuol dire distruggerla per ricostruirla, o meglio lasciarla così? Ok ok stamattina fiammella un pò malinconica ^_^

Scritto da: gasolinedreams il 29-06-06 alle 15:46 Da qualche post a questa parte, mi ritrovo qui, qualcuno di diverso, di nuovo. Simpaticamente nuovo e maggiormente accessibile. Ti ho sempre letto volentieri, ma ti ho sempre sentito un po’ distante, con quel tuo aplomb all’inglese :-))). Forse è proprio perchè siamo così imperfetti che ricerchiamo la perfezione. Abbiamo bisogno di crederci, per avere un obiettivo superiore cui tendere. Una meta irraggiungibile e per questo fortemente desiderata. Ma hai ragione, è nella imperfezione la vera perfezione della nostra vita, in fondo, perchè in essa sta la diversità che ci aiuta a colorare l’esistenza. Yoko 🙂

Scritto da: mari_hellen il 27-06-06 alle 06:34 (questo è il mio preferito) leggerti oggi e’…..come dire stupefacente… …e nn saprei dirne esattamente il perche’…vedila cosi un’emozione che non si puo descrivere ma la si vive…ma passiamo oltre..un amico perche’ tale e’ al di la di ogni preconcetto mi consiglio di leggere un libro …..io mi persi fra quelle frasi teorie e spiegazioni in un capogiro piacevole…..p ermettimi di consigliartelo. …tu ovviamente lo leggerai con occhi diversi piu’ consapevoli…. Ruggero Pierantoni-vort ici,atomi e sirene.Immagini e forme del pensiero esatto edizioni electa…..non ti sentire obbligato ad acquistarlo era solo un consiglio..ti bacio marihellen

Scritto da: anonimo (anabolena) il 26-06-06 alle 13:21 Sergio, è veramente meraviglioso, la poesia della scienza, della verità senza se e ma, la particella di Dio…il principio e la fine…e noi, piccoli, ipocriti, lottando contro i nostri pregiudizi per crearne di nuovi il giorno dopo…e l’affano e l’amore…e tutto perchè ignoriamo l’esistenza della particella di Dio…che ci farebbe essere più umili, più rilassati e più hippy…Ti ringrazio infinitamente per questo post, per la poesia che ha e per la pace che dona. Ti ammiro veramente sai…è se c’è una strada giusta e sicuramente la tua perchè tu lo sei una persona serena e in pace con il mondo. Bacissimi, ana

Scritto da: anonimo (kuccimol) il 11-07-06 alle 22:19 Sei il prof. più adorabile nel quale mi sia mai imbattuta… ma i tuoi studenti lo sanno quanto sono fortunati? A presto… sto tornando… K.

Scritto da: anonimo (diamanta) il 14-06-06 alle 10:50 Wow… mi piace sempre di più questo “nuovo” e bello (visto che mi è stato detto che non lo so..) 😉 Weller, meno nascosto dietro i racconti e più “visibile”

Scritto da: anonimo (akamotasan) il 21-08-06 alle 17:20 Mi hanno raccontato che un cellulare ed un computer funzionano perchè è altamente probabile che operino, ma che potrebbero anche con tutta naturalezza non funzionare…na turalmente sono caduto nella fascinazione più pura. Akamota

Scritto da: thedanix il 03-08-06 alle 22:52 herr adoro quel che hai scritto, sarà che filosoficamente parlando sono gli stessi pensieri che condivido su taluni argomenti, sarà che a volte abbiamo bisogno che qualcuno traduca quel che abbiamo in testa. un abbraccio. la reine

Scritto da: diamanta_ il 27-07-06 alle 16:51 Se avessi avuto un prof di fisica come te, l’avrei amata…

Scritto da: gasolinedreams il 25-08-06 alle 12:52 Ciao Doc. Grazie del passaggio e della tua gentilezza. Tornerò? Credo di si :-), ho solo bisogno di tempo…ma intanto non smetto di leggere, qui e là…ci sono blog a cui resto affezionata e questo vale anche per il tuo. La storia di Giada è di una levità disarmante. Farò come lei, cercherò la mia pozza e quando finalmente ci avrò trovato dentro il mio sorriso, capirò che sarà giunto il momento di tornare e allora verrò a cercarti e canteremo :-)))). Ti sono ricresciuti i capelli? Ehehehehe…a presto. Un abbraccio. Yoko

Scritto da: akamotasan il 25-08-06 alle 14:40 Non mi hai semplicemente citato !!! Grazie, mi sento onorato-smetto di lavorare oggi.

Scritto da: cleopa78@v il 01-09-06 alle 16:01 ciao weller, scusa se ti sto trascurando un pò ma mi sono beccata il virus influenzale di fine estate, insomma sono due giorni che sono a casa con la febbre… pfui!

scritto da: layle74 12-09-2006 per quello che può servire, sappi che sarà un peccato non leggerti per un pò. 🙂 spero a presto…Yle

Scritto da: setteparole il 12-09-06 alle 19:13 La canzone l’ho ascoltata tutta e ti ho visto così malinconico lungo il binario. Anche tu fiammella. Spero che magari solo il tuo narcisismo non ti faccia andare via. Un abbraccio da un’eterna ragazza “un po’ ” più vecchia di te.

scritto da: under-pressure il 15-09-2006 alle 09:50 torna weller…e dammi il tempo, di scrivere un commento decisivo, o almeno decente..ti abbraccio…for te forte

Tornerò, sicuro. Love, w

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Paris match

…Sole attraverso la Tour Eiffel…

…pensando a chissà cosa mentre cammino sotto i portici di Place des Vosges…

…ti ho ancora negli occhi, è presto per scrivere.

The gift you gave me is desire
The match that started my fire

(à suivre)

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Au revoir

….Prima qui….

…e poi, soprattutto, qui

Au revoir, passerò per dare un occhio. Sole su di voi (e su di me, speriamo nel tempo). A Settembre con Edo & Claire, immagini e sogni ad occhi aperti. Love, w

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Narciso

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E così sono nella Home Page di Virgy. Ringrazio, ovviamente. Ho letto durante le vacanze che la celebre Pulsatilla, blogger e romanziera, afferma che i blogger sono tutti dei Narcisi, e li divide pure in varie categorie, elencate puntigliosamente da Natalia Aspesi nel suo articolo. Pulsatilla ha ragione, non sfuggo alla categoria, e quindi mi autocelebro un po’ anch’io. Ma dico grazie a voi che ogni tanto mi leggete, e mi commentate. Non siete tantissimi, e non credo nemmeno di essere tra “i vostri preferiti”, come recita Virgy. Ma tant’è, vi voglio bene, siete le mie fiammelle, e adesso beccatevi questa musichetta. Che il sole splenda su di voi. La leggenda di Narciso è qui . Love, w

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Welcome back home, silly boy

Oggi ho preso la macchina, mi sono fatto i soliti 300 Km, da solo, come per tanto tempo, e sono tornato a lavorare. Il traffico era lo stesso di sempre, la mia auto un po’ più vecchia, poveretta, mi sa che la cambio presto. Nel mio dipartimento sono tornati quasi tutti. Il mio laboratorio sempre là, le macchine sono silenziose, alcune smontate, per fare posto a nuovi esperimenti. Gli studenti che mi aiutano sono tornati. Scambi di idee, progetti nuovi, lavori da terminare. Telefonate, e-mail, moduli da compilare. Un articolo che è il risultato di un lavoro durato anni, accettato per la pubblicazione. Devo leggere, studiare, ho rimandato fin troppo certe cose. Saluti di qua e di là, e sì, sono dimagrito, sono abbronzato, stai bene, dove sei andato. Il mio compagno di ufficio è stato in Giappone, è ancora stordito dal fuso orario. Mi fa vedere qualche foto, poi arrivano i suoi collaboratori e discutono insieme di qualcosa che non so. Pausa sigaretta, fuori sulle scale a fumare con un giovane post-doc, arrivato da poco. E’ di Roma, e per questo provo una certa affinità con lui, mingherlino e con gli occhiali, un po’ spaesato, ancora. Lui mi spiega alcune delle ricerche che fa, io gli spiego le mie.Problemi da risolvere, difficoltà, soluzioni possibili, posti in cui si è stati. Spagna, Stati Uniti, Germania e così via. Che piacere, in queste conversazioni. Forse sono il sale del nostro lavoro. Ci si dà del tu, anche se la differenza di età e di posizione è quella che è, ma da noi usa così. Una volta la mia direttrice mi ha scritto un mail, e mi ha salutato scrivendo “besos”, neanche fosse Cleopa, o Ana. La malinconia che mi ha assalito per tutto il mese, i pensieri che mi hanno tormentato, sfumano, lentamente. Torneranno, oh sì, sarà dura rialzarsi, in piedi. Sono a casa, ora, e chissà perchè mi viene di scrivere così, non posso farne a meno. Domani torno in Dipartimento, e ricomincio, e provo amore per il mio lavoro come non mai. Mi tiene insieme, e ho l’idea per una nuova ricerca. Welcome back home, silly boy.

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Giada e le pozze magiche

Giada era una bambina di 9 anni vivace, allegra e curiosa. Aveva due trecce bionde molto lunghe e tante, tantissime lentiggini. Col suo visetto faceva strane smorfie che facevano ridere tutti i suoi amichetti. Le piaceva giocare a nascondino, con i suoi pupazzi di pelouche e a calcio, con i maschi, nel cortile del suo palazzo. Andava abbastanza bene a scuola, ma si distraeva spesso e le maestre la rimproveravano. Le piaceva inventare storie fantastiche con animali di tutti i tipi: leoni, foche, pinguini, squali, api e pappagalli, le scriveva su un quaderno rosso da cui non si separava mai, e faceva dei disegni bellissimi. Abitava con la sua mamma ed il suo papà in un grande palazzo, pieno di gente. Ogni volta che usciva di casa per sbrigare una commissione incontrava sempre qualche suo vicino: si fermava a chiacchierare con la signora anziana del piano di sopra, con il portiere alto e magrissimo, con la bambina immigrata dalla Tunisia qualche anno prima, e così via. Insomma, alla fine tornava a casa sempre in ritardo. La sua mamma la sgridava solo lo stretto necessario, poi guardava il suo viso tutto rosso, sorrideva e le dava una carezza sul volto. Che c’era di male, in fondo, se la sua Giada socializzava un po’? Un sorriso che dai e una chiacchiera che fai è come un investimento in banca, diceva sempre, prima o poi ritornerà con qualcosa in più.
Un pomeriggio d’estate, dopo che la scuola era finita, Giada era a casa, da sola, e si annoiava. Quasi tutti i suoi amici erano andati in vacanza, ed il palazzo si era svuotato. Anche l’amichetta tunisina era tornata al suo paese, mentre lei doveva aspettare ancora due settimane prima di andare al mare, perchè il papà e la mamma dovevano lavorare. “Quasi quasi mi faccio un giro”, pensò. Chiese il permesso alla mamma, che glielo accordò non senza averle fatto le solite raccomandazioni, scese in cantina e prese la bici, portando il suo zainetto con dentro una merendina, un succo di frutta, il quaderno rosso ed i colori. Uscì di gran carriera dal cortile del palazzo e si diresse verso la periferia della sua piccola città, dove si trovavano grandi parchi e delle bellissime ville, alcune molto antiche. Quel pomeriggio decise di fare una strada un po’ diversa dal solito, per vedere una zona che ancora non aveva esplorato. Le trecce le volavano dietro, mentre lei pedalava forte, sbuffando a più non posso. Capitò in una strada con degli alberi altissimi, molto vecchi. In fondo vide il muro di cinta di una grande villa, seminascosta dalla vegetazione. Arrivò al cancello, enorme e di ferro battuto, e si avvicinò per vedere l’edificio. La casa sembrava disabitata da molti anni, gli intonaci erano vecchi e scrostati, ed il cancello era tutto arrugginito. Le erbacce incolte erano alte, ma il vialetto di ghiaia che portava dal cancello alla costruzione sembrava ben curato. Giada smontò dalla bici e l’appoggiò al muro di cinta, fatto di pietra scura, e si avvicinò al cancello. Proprio accanto c’era la cassetta della posta dorata, che era lucida e pulita. “Che strano, tutto questo abbandono e la cassetta sembra nuova”, pensò. Toccò lo sportello della cassetta, che si aprì da solo verso l’esterno. Dentro c’era una grossa chiave, ed un bigliettino. La bambina, sempre più incuriosita, prese il bigliettino, dove c’era scritto “CHIAVE DI GIADA” in stampatello. “Una chiave per me? Come è possibile? A cosa servirà? Ma certo, ad aprire il cancello!”
La curiosità di Giada era così forte, che prese la chiave, e con essa aprì il cancello senza nessuno sforzo, perchè i meccanismi della serratura ed i cardini erano ben oliati. Giada percorse lentamente il vialetto di ghiaia, un po’ impaurita. Sapeva che entrare in casa d’altri non era una buona cosa, ma d’altra parte la chiave aveva il bigliettino con scritto sopra il suo nome, come se qualcuno le avesse fatto un regalo. Incominciò a girare intorno alla casa, dentro sembrava non esserci nessuno. Quando arrivò sul retro, vide un sentiero che si dirigeva verso una parte del parco dove il bosco era più fitto. Adesso Giada aveva un po’ di paura e di emozione, ma le vinse e proseguì. Il sentiero era sempre ben delimitato, e si vedeva chiaramente. “Ho 9 anni, sono grande!”, pensò, e camminò ancora più speditamente. Uno scoiattolo si arrampicava su un albero, non ne aveva mai visto uno vero, e tutta contenta di questa scoperta si addentrò nel boschetto. Qualche uccellino cantava, era ancora giorno e ci si vedeva bene. Dopo un po’, il sentiero la portò in una radura molto grande. E lì vide che si trovavano tantissime piccole pozze d’acqua, tutte uguali, di forma perfettamente circolare, con dei sassi tutt’intorno. “Che bello!” esclamò Giada, e si avvicinò alla pozza più vicina. Si chinò verso la superficie dell’acqua, che era scura. Poi, piano piano, vide apparire il volto di una bambina, ma non era il suo riflesso, la bambina era bruna, con i capelli a caschetto, le sorrise e le fece con voce squillante:
“Ciao! Mi chiamo Emma, vuoi sentire le mie storie?”
Giada era sorpresa, ma non aveva paura, anzi era molto divertita, la bambina era una gran chiacchierona, ed incominciò a parlarle del suo gatto che si chiamava Pinuccio, dei suoi genitori e dei suoi amichetti. Giada rideva, e commentava ogni tanto. Poi Emma smise di parlare e le chiese:
“E tu, che hai da raccontarmi?”
Giada prese il suo quaderno rosso, e le raccontò una delle sue storie, dove un leone imparava a nuotare da una foca. Emma sorrise e esclamò:
“Che bello! Adesso però devo scappare, mia mamma mi sta chiamando. Se vieni domani, possiamo raccontarci qualche altra storia… Ciao Giada!”
L’immagine di Emma sparì, e l’acqua tornò scura. Giada era contentissima, Emma era molto simpatica. Mentre vagava nella radura, sentì una musica che proveniva da un’altra pozza. Si avvicinò e vide il volto di un ragazzo che suonava il flauto, e la musica era così dolce che a Giada veniva quasi da piangere per la commozione. Il ragazzo si fermò, la guardò e le sorrise. Giada lo salutò, ma lui non si curò di risponderle, e riprese a suonare. Lei alzò le spalle e passò alla pozza vicina. Dentro vide l’immagine di una donna che parlava al telefono, sembrava litigare con qualcuno. La ragazza chiuse la comunicazione bruscamente, e si mise a piangere. Giada rimase lì, un po’ perplessa, finché la ragazza non si accorse di lei, le rivolse un sorriso dolcissimo, con le lacrime agli occhi:
“Ciao, ti chiami Giada, vero? Ho sentito la tua storia mentre eri da Emma, era bellissima. Mi fai vedere i tuoi disegni? Io mi chiamo Matilde, oggi sono molto triste, ma domani ti mostro qualche mio dipinto…”
Giada prese il suo quaderno e le mostrò il disegno di un’ape che giocava a calcio con una farfalla. Matilde sorrise di nuovo, annuì e svanì nell’acqua scura. Giada passò ad un’altra pozza, da dove provenivano delle risate. Vide un bambino che stava facendo delle smorfie divertentissime, raccontava delle barzellette, e poi rideva, rideva tanto. Anche dalle pozze vicine si sentivano delle risate. Giada gli mostrò il buffo disegno di un tricheco che mangiava pollo al ristorante, e il bambino fece una risata fragorosa:
“Oh com’è divertente!” esclamò, “Torni domani, Giada? Io mi chiamo Carlo.”
Giada era entusiasta di questo posto magico, e di tutta quella gente nelle pozze che la faceva divertire, e con la quale poteva parlare, come se fossero suoi amici. Ad un certo punto si rese conto che si stava facendo buio, era tardi. “Mamma mia, devo tornare a casa subito,” pensò,” e questo posto bellissimo è un mio segreto, non dirò a nessuno che ci sono venuta. E’ così bello stare qui, domani ci tornerò.”
E così fu. Giada tornò ogni pomeriggio a chiacchierare con i suoi amici nelle pozze, a sentire e raccontare storie, a vedere e mostrare disegni, a ridere e scherzare con Carlo ed Emma, i suoi amici preferiti. Un pomeriggio, andò alla pozza di Matilde, che aveva promesso di mostrarle uno dei suoi splendidi quadri, ma l’acqua rimase scura per un po’. Poi comparve un cartello con su scritto: “Matilde è andata via.” Giada provò dispiacere, e passò vicino alla pozza dove il ragazzo suonava il flauto. Nessuna musica, solo delle voci che litigavano. Il ragazzo urlava verso qualcuno,e quello che diceva non era per niente piacevole a sentirsi. “Mamma mia, come è arrabbiato”, pensò, “tornerò domani”. Andò alla pozza di Carlo, che le fece vedere un gioco di prestigio con le carte, Giada applaudì e le raccontò del pinguino che era andato in Africa su di un iceberg. Carlo le disse:
“Brava! Adesso però devo fare vedere un nuovo gioco di prestigio ad una mia amica, è un regalo solo per lei, quindi per piacere vai via e torna domani.”
Giada si arrabbiò un po’, ma alzò le spalle ed andò da Emma, che le raccontò di Pinuccio, poi si fece tardi ed andò a casa.
Il pomeriggio dopo, anche Carlo sparì dalla sua pozza. Al suo posto, c’era un ragazzo con i capelli lunghi che suonava la chitarra elettrica. A Giada dispiacque molto, Carlo era diventato un suo amico. Nonostante il ragazzo suonasse benissimo, Giada scoppiò a piangere, e tornò a casa, senza fare il solito giro dei saluti a tutti i suoi amici. E così, nei pomeriggi successivi, Giada scoprì che le persone dentro le pozze sparivano, magari riapparivano da un’altra parte, ma era difficile seguirle. Con un bambino di nome Marco una volta litigò, era suo amico ma era geloso di Emma, e ci rimase malissimo. Insomma, in quel posto non si divertiva più tanto, le persone a cui si affezionava cambiavano pozza, sparivano, litigavano fra loro e con lei. Un pomeriggio, poco prima di partire per le vacanze, si sentì così spersa e spaesata che si sedette per terra, singhiozzando, con il suo quaderno rosso stretto fra le mani. Si accorse di una pozza che non aveva mai visitato, si avvicinò e vide l’immagine di una giovane donna, che le disse sorridendo:
“Ciao Giada, sono la maga Bri, ho sentito le tue storie, sono molto belle. Perché piangi?”
“Non mi trovo più tanto bene qui, all’inizio mi divertivo tanto, ma adesso Carlo non c’è più, con alcuni amichetti ho litigato, ed altri sono spariti…”
“Amichetti? Eh, sì, qui se ne fanno tanti, ma non è proprio lo stesso che a scuola, vero? E’ più bello, ma può anche essere più brutto. La gente va e viene, cambia nome, cambia pozza, interrompe le amicizie e ne fa altre. Ma ricorda, sono solo pozze. Dietro c’è gente vera, in altri giardini magici come questo, ma ci si può vedere solo attraverso le pozze. E’ bello, ma non è proprio la stessa cosa che vederli direttamente. E’ una magia, non è come andare a scuola, o stare in cortile a giocare con altri bambini. Le magie sono una cosa diversa dalla realtà, e qui le persone spesso si comportano diversamente che nella realtà, forse perché si sentono più libere. Anche tu lo fai. Racconti le tue storie, fai vedere i tuoi disegni. Ma il resto? Il resto della tua vita? Non te la prendere troppo, è solo una bella magia, niente di più. Hai trovato la tua pozza, Giada?”
“La mia pozza?”
“Sì, la tua pozza. Cercala, e ti dirà qualcosa di importante. Vai, cara. Ciao! ”
Giada incominciò a cercare, ma non sapeva bene dove. Girò silenziosamente, poi vide una pozza con una targhetta, ed accanto un fiore. Sulla targhetta c’era scritto il suo nome.
L’acqua era limpida e rifletteva il suo volto, con le lentiggini e le trecce. Era proprio lei. La Giada nella pozza fece una smorfia e disse:
“Brava! Sei arrivata finalmente. Passa di qua più spesso, per ricordarti chi sei, chi sono i tuoi genitori, gli amici del cortile ed i compagni di scuola. Vedrai che non sarai più così triste come oggi. Prendi il fiore e piantalo in un vaso sul terrazzo. E’ un regalo di tutti noi, dietro le pozze. Quelli che ci sono e quelli che non ci sono più. Così che tu possa ricordarli anche a casa.”
E Giada così fece. Il giorno dopo partì per le vacanze, e portò con sé il vaso dove aveva piantato il fiore. Al ritorno dalle vacanze, ritornò nel giardino magico, a visitare i suoi amici, ricordando sempre di passare prima per la sua pozza.

You, I thought I knew you.
You I cannot judge.
You, I thought you knew me,
this one laughing quietly underneath my breath.

Questa ed altre favole le potrete trovare qui . Love, w.

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Neve su Los Angeles

Questa foto è stata scattata proprio dal punto in cui mi trovo a prendere il sole. E’ Ferragosto, sono le 11 di mattina e non c’è molta gente. Sembra impossibile, ma non lo è. Diciamo che è un posto improbabile. E questa sotto è la mia tenuta completa da mare.

Abbronzatura integrale, oh yes, e quest’anno sono anche dimagrito di otto chili. Che situazione improbabile. La mia canzone dell’estate è “Maybe Tomorrow”, degli Stereophonics, la sento ossessivamente sull’ipod, chissà perché.

Been down and I’m wondering why
These little black clouds keep walking around with me, with me …

Ripenso a quando l’ho sentita la prima volta, fa parte della colonna sonora di “Crash-contatto fisico”. Titoli di coda, scena finale, neve che cade su downtown Los Angeles. E’ mai successo? Mi sentirei di dire di no. E’ impossibile, il film lo rende possibile, anche se eccezionale. Possibile, impossibile, probabile, improbabile. Gli eventi si spostano da un aggettivo all’altro, molto spesso. Il confine tra impossibile ed improbabile, o probabile, o possibile, non è così netto come si può pensare. Nella mia amata scienza, la fisica, certi fenomeni si pensavano impossibili, adesso sono solo improbabili. E su scala ridotta, non c’è più concatenazione stretta tra causa ed effetto, gli eventi sono regolati da leggi probabilistiche. Ciò vale anche su scala grande, ma i margini di probabilità che un oggetto scompaia ed appaia da un’altra parte sono molto limitate. Come dice Akamotasan, c’è la possibilità, anche se ridottissima, che il mio computer naturalmente smetta di funzionare. Meccanica Quantistica, si chiama, la teoria che regola tutto questo, e Dio gioca a dadi. Penso alle azioni umane, alla nostra vita. I confini tra possibile ed impossibile si spostano. Atti impossibili, amori impossibili che diventano possibili e viceversa. Le nostre scelte giocano un ruolo in questo, ma non sempre. E poi c’è la lunga teoria dei “vorrei ma non posso”, dolorosa. E i sogni, possono diventare possibili? Una persona molto cara mi ha detto “scrivere è bellissimo, perché rende i sogni possibili”. E io l’ho fatto, confesso, ho scritto i miei sogni. E forse anche alcuni dei vostri. Colpevole. Colpevole di sognare ad occhi aperti cose impossibili. Di scriverle e renderle possibili. E qualche volta fa male, oh se fa male. Ma continuerò a farlo, sono recidivo. Non posso farci niente, sono un sentimental boy. La canzone degli Stereophonics finisce, la rimetto. Poi vado a fare un bagno, e la chiudo qui, senza conclusioni e senza certezze. Solo sensazioni.

So maybe tomorrow I’ll find my way home…

Love, w

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Prossimamente…

Tornato, per un po’. Per ripartire. Prossimamente scriverò. Molte storie, spero.
Neve su LA.
Giada e le pozze magiche.
Edo & Claire.
Professor Helga.
Propositi? Nessuno,a parte le storie. E quella sopra è un’immagine che ho visto. Sole su di voi. Love w

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Annihilation

Questo è l’ultimo post, prima di chiudere per un po’. Sono in ufficio, annoiato, accaldato. Esami: finiti. Esperimenti: sospesi. Lezioni: ‘a voglia, fino a gennaio non se ne parla. I miei colleghi scarseggiano, dispersi in conferenze in Giappone, Francia, Stati Uniti e chi più ne ha più ne metta. Una parte è in ferie. Studenti: beh, studiano, ma incominciano a scarseggiare, anche loro. Nel mio ufficio sono solo, devo riordinare la scrivania, ma non è il genere di lavoro in cui eccello. Andare a casa? L’idea di prendere la bici e farmi un viaggio, sia pur minimo, a 38 gradi non mi alletta. La valigia la faccio stasera, quella può sempre aspettare. E allora, così, scrivo una storiella di Fisica.

Negli anni ’20 PAM Dirac, il fisico inglese taciturno, scoprì un’equazione, di cui ho già scritto in un precedente post (26 Giugno 2006), che regola il moto delle particelle elementari. Era contento, perché era esatta ed elegante, bellissima. Poi però la guardò bene, e vide che c’era qualcosa in più, qualcosa di nuovo. Nell’equazione era previsto che esistesse la cosiddetta antimateria. Cioè, se esiste una particella come ad esempio l’elettrone (il moto degli elettroni nei corpi è all’origine dell’elettricità) ce ne deve essere un’altra, un’antiparticella, uguale ma opposta in tutto. L’esistenza dell’antimateria, cioè delle antiparticelle, è stata provata sperimentalmente. Esistono addirittura degli strumenti medici, come il PET (Tomografia ad Emissione di Positrone) che utilizzano l’antiparticella dell’elettrone, il positrone, appunto. Spero di essere stato chiaro, ma non è poi così importante. Le antiparticelle sono rare, in natura, chissà perché, ma esistono. Veniamo adesso al punto. Cosa succede se una particella ed un’antiparticella vengono a contatto? Cioè può capitare, no, nel traffico dell’Universo, o in quello artificiale dei nostri strampalati laboratori, che una particella e la sua anti si sfiorino, si incontrino. Il risultato è un fenomeno chiamato annichilazione. I due corpuscoli si attraggono irresistibilmente, fatalmente, diventano una cosa sola, e scompaiono, dando come risultato due raggi luminosi, due fiotti di luce che viaggiano in direzioni opposte. Perché materia è energia, e l’energia si conserva sempre.
E qui compio il solito salto logico, e passo a noi umani. E penso alla passione, come ad una forma complicata dello stesso fenomeno. I corpi si attraggono, irresistibilmente, si fondono, le chitarre elettriche suonano, il mondo intorno si scioglie, fiamme e ghiaccio insieme, l’estasi ed il Nirvana. Insomma, quelle cose lì. Troverete sicuramente delle descrizioni più efficaci delle mie
Ma dopo? Il dopo è il problema. Fortunatamente non c’è un’annichilazione in senso stretto (oddio, magari qualche volta sì, purtroppo) ma dopo un up c’è sempre un down. Mi piace pensare però che l’energia liberata, i fiotti di luce di cui parlavo prima, vengano emessi, continuino a viaggiare, e illuminino e scaldino la grigia vita di noi tutti, non solo dei due (?) fortunati. Senza la passione, senza l’idea stessa di passione, vivremmo in un mondo di orologi meccanici di precisione, tic tic, qualche drin, senza passato e senza futuro.In definitiva, non vivremmo affatto. Buone vacanze a tutti, che il sole splenda su di voi, miei cari. Love, w

Ah sì, il prof. si è montato la testa. Partecipa ad un concorso , pensa te, come se non ne avesse già fatti abbastanza. Click on image e, se vi va , potreste magari fare un click nel punto giusto 😉

Uova fritte (e surfing)

Sulla porta di un bagno del mio Istituto, uno studente ha scritto la seguente massima:

Secondo Principio della Termodinamica:
Le uova fritte non tornano intere.

Lo studente ha ovviamente ragione, ed ha colto esattamente il punto. La termodinamica è un campo della fisica che regola il comportamento di sistemi complicati, costituiti da un grande numero di parti, senza curarsi troppo del dettaglio di ciò che avviene ad ogni singola parte. Cose complesse come noi, insomma. Il Secondo Principio sancisce l’irreversibilità di ciò che avviene in questi sistemi. Irreversibilità vuole proprio dire che niente, a meno di compiere grandi ed inutili fatiche, anch’esse irreversibili, può ritornare com’era prima. Semplicemente, l’idea che si possa tornare indietro rimane tale, un’astrazione. Quindi le uova fritte non tornano intere. Niente, nessuna azione, una volta presa, è reversibile. Mai tornare indietro. Si può stare fermi, immobili (anche se è praticamente impossibile) ma la corrente degli eventi circostanti ci trascina, inesorabilmente. La freccia del tempo punta in una specifica direzione, e noi non possiamo che seguirla. L’unica possibilità per noi, uomini e donne è scegliere fra più azioni: destra o sinistra? Odiare o amare? Mangiare o non mangiare? Se non veniamo trascinati prima, abbiamo l’arbitrio (forse), ma una volta scelto, indietro non si torna. Mai. In un post precedente, ho scritto che non c’è niente di rotto che non si possa aggiustare. E’ vero, ma quello che otteniamo è un altro oggetto, non quello originale. L’amore, come altri sentimenti, determina azioni irreversibili. L’amore è irreversibile. L’unica cosa che possiamo fare, una volta in azione, è fare del surf sulle onde degli eventi, con la bocca aperta, pieni di euforia, e godercela. E quando l’onda finisce ne dobbiamo trovare un’altra, e surfare la vita, fino alla fine. Ma non dobbiamo dimenticare mai le onde precedenti, e quello che ci hanno dato. I nostri neuroni ci portano indietro, ci fanno rivedere ciò che è stato e che non ritornerà più. Love, w

In laboratorio

Questa foto che vedete non è presa da google, ma è il mio laboratorio. Strane macchine che, vi assicuro, messe insieme costano più di una Porsche. Una buona parte di questi strumenti sono stati acquistati con i sempre troppo scarsi fondi che ci passa lo Stato. Una piccola parte sono stati progettati da me, almeno concettualmente, diciamo così. Ed io, e pochi studenti, l’abbiamo montata pezzo per pezzo. Viti, bulloni, acciaio, pompe da vuoto, tubi dell’acqua, cavi, elettronica, tutto montato da noi. Adesso funziona, più o meno, ma c’è sempre bisogno di manutenzione, perchè questa roba è delicata, e capita che spesso sia necessario intervenire. Non vi spiego a cosa serve, non è il punto. Vi dico solo che questa è un po’ la mia seconda casa. Qui non ci sono formule, equazioni da risolvere, articoli da scrivere, conferenze, lezioni e tutto quello che uno può immaginare che un fisico universitario faccia. Noi non facciamo solo questo. C’è anche fatica fisica, e sudore. E frustrazione, quando le cose non vanno come dovrebbero, e lo strumento magari non funziona. Ci ho messo tre anni, per arrivare a questo risultato che vedete. Ma la cosa più divertente e bella di quello che faccio, è che spesso per fare funzionare questa roba c’è bisogno di costruire oggettini con lamierini metallici, piccole viti, materiale che costa pochissimo. E spesso me li costruisco io, con le mie mani e con la mia scarsa perizia, per necessità e anche per mio diletto. Ieri ho costruito una piccola cosa con del rame, mi sono messo lì sul tavolo e l’ho fatta. Gli studenti stavano nella stanza accanto a studiare, ed io ero solo, immerso nel rumore di fondo della strumentazione, nel fresco dell’aria condizionata. Ed ero contento, mi ricordavo del mio professore che mi diceva: “Adesso se mettemo qui, come du’ bei ciabbattini”, si inforcava gli occhiali e produceva delle piccole cose straordinarie. Dovrei pensare più spesso a quanto sono fortunato, a fare un lavoro creativo e che mi dà soddisfazione. Il pezzo che ho fabbricato sembra funzionare, oggi c’è da smontare un’altra cosa, da insegnare ad un ragazzo un po’ di trucchi, e da discutere con i miei colleghi su come procedere con l’esperimento, usando l’ironia ed il buon senso. Qui, la mia vita spesso è meravigliosa. Love w

Light Fandango

Quando ero bambino, la musica suonata con i grandi organi a canne nelle chiese mi emozionava tantissimo. Mi ricordo almeno un caso in cui ho costretto mia madre ad accompagnarmi all’uscita, perche’ mi veniva da piangere. Non so il motivo, ma mi ricordo questa sensazione cosi’ intensa che mi faceva sentire in una specie di spirale che girava, difficile a descrivere. In quegli anni (il 67, per la precisione) usciva una delle piu’ belle canzoni rock melodico di tutti i tempi (a mio modesto parere), si chiamava “A whiter shade of pale”, dei Procol Harum. L’ho sentita da bambino, probabilmente nella versione originale, sicuramente nella versione cover con i testi tradotti in italiano e suonata da uno di quei complessi che meritoriamente traducevano il beat, doveva essere l’Equipe 84 o i Camaleonti, non mi ricordo, ma ho questa memoria di un varieta’ in bianco e nero dove la cantavano, mi ricordo anche i versi iniziali “Han spento gia’ le luci….” . Sicuramente l’hanno ascoltata tutti, almeno una volta. Apre la canzone un’introduzione con un organo Hammond, la musica e’ ispirata a quella di J.S. Bach, anche se non e’ un estratto particolare, sembra scendere dal paradiso, e mi fa sentire un po’ proprio la stessa sensazione di quando ascoltavo l’organo in chiesa. Poi la voce (molto soul) del cantante apre maestosamente con questi versi:

We skipped the light fandango
turned cartwheels ‘cross the floor
I was feeling kinda seasick
but the crowd called out for more
The room was humming harder
as the ceiling flew away
When we called out for another drink
the waiter brought a tray

ed e’ una tensione continua, quasi un duello tra la voce e l’organo, che fa continuamente capolino, poi domina, poi ritorna in sottofondo, poi fa un assolo e cosi’ via. Semplicemente meraviglioso. Di questa canzone si e’ parlato e scritto molto. Se mi ricordo bene, Paul McCartney la cita una sua autobiografia, dice di averla sentita per la prima volta in un locale con qualcun altro (non vorrei sbagliarmi, ma doveva essere qualcuno degli Stones) e di averla commentata come un colpo di genio. Nel film “The commitments” due protagonisti discutono sul significato del testo, mentre uno dei due la suona con l’organo di una chiesa. Gia’, le parole. Il significato non e’ ben chiaro nemmeno a chi l’ha scritto. Io penso che in questo caso siano come delle macchie di colore che impreziosiscono questo splendido dipinto sonoro. L’ho risentita recentemente, e mi sono detto che sicuramente deve essere meraviglioso innamorarsi con questa canzone. Spero riusciate a sentirla mentre leggete questo post. Love w
(giugno 2005)

ventiminuti 2

“Ciao stellina, vengo a prenderti alle quattro e mezza”, un bacio sulla fronte, lei non è troppo soddisfatta di questa nuova scuola, di questa nuova vita. La guardo mentre si allontana nell’androne, il senso di colpa si fa strada nel mio animo, scava un piccolo tunnel doloroso. Station wagon e fuori strada che vanno e vengono, bambini con zaini colorati e mamme in jeans e stivali neri che escono ed entrano di corsa, è tardi, il vigile urbano che aiuta i pedoni ad attraversare si allontana. Mi infilo nella macchina, non ho più tanto sonno, sono venti minuti dalla scuola al lavoro, accendo la radio e parto per il viaggio. Freccia a destra, tangenziale. L’uomo del giornale si sporge per esporre la mercanzia, non l’ho mai visto in faccia, porta una mascherina sporca di dubbia efficacia, la barba bianca è ingiallita solo dalla nicotina? Un tempo c’erano piccoli zingari che chiedevano l’elemosina a questo incrocio, una volta ho visto la polizia cacciarli via, le facce inespressive al semaforo sono rimaste, scivolano avanti e indietro mentre vado ed attraverso, il traffico si sgombra, il viale alberato con foglie rosse e gialle. Kay Rock radio station, siate benedetti, vi seguo da quando sono qui, grande musica con deejay che mi fanno ridere quando pronunciano i titoli delle canzoni, ma intanto a trovarle delle radio così In Inghilterra, non solo in Italia. Mi servono gli Eagles, non ricordo il titolo, coretti country “you can’t hide…….” ed arrivo al secondo grande incrocio. Una bella signora con un cappello nero attraversa la strada, una ballata avvolge la mia auto, non è presentata, ogni tanto i dj omettono di dichiarare il titolo, ma la riconosco subito, fa parte della colonna sonora di Big Fish. Titoli di coda, Pearl Jam, voce impastata di Eddie Vader, chitarra elettrica. Un padre che racconta storie incredibili, fantastiche, reinventa la sua vita, ed un figlio che non ci crede più. Splendide gemelle siamesi che cantano per i soldati vietnamiti, impresari di circo solitari che si trasformano in lupi rabbiosi, giganti che percorrono boschi con alberi animati, villaggi perfetti ed inesistenti da dove non si riesce più ad uscire, grandi pesci ed anelli di matrimonio. Storie ed alberi con foglie rosse e gialle, cammino con la mia auto, rivedo la bella signora col cappello che mi scivola dietro, telefonerò a mia moglie appena arrivo, da sempre insieme ma in due città diverse, ma finchè c’è vita c’è speranza. Le storie aiutano.
(ottobre 2005)

Sono in piscina, un bel po’ dopo. E’ estate, la scuola è finita, niente più ventiminuti. Ma l’ipod mi fa risentire la stessa canzone, mentre le stesse mammine sono in costume e prendono il sole, ed i bambini, compresa la mia, sguazzano nell’acqua. Guardo le piccole onde di questa pozza d’acqua, mentre fumo e ascolto Eddie che mi canta dell’uomo dell’ora, il protagonista del film, che se ne va per il suo ultimo viaggio a cavallo del grande pesce. Le onde mi distraggono. Le onde, già. Insegno che le onde vanno e vengono, che portano energia, la trasmettono, vengono emesse e vengono assorbite. E l’amore è una forma di energia, no? Le onde dell’amore e delle sensazioni viaggiano da una parte all’altra, e tra le persone, e le antenne ed i trasmettitori che siamo noi, emettono ed assorbono. Poi, puf, i trasmettitori non funzionano più, o si voltano da un’altra parte, e l’onda non arriva. E le antenne si sentono perse, disperate, emettono ma non ricevono. Bip bip, niente segnale, per un po’ niente energia. Ma noi insegnamo un’altra cosa. L’energia assume forme diverse, si conserva sempre. Sì, questo dovremmo tenerlo a mente. E poi, qualche altro emettitore funziona, funziona sempre. Circolo, energia che si conserva, che viene immagazzinata, onde che vanno e vengono. Questa non l’hai raccontata, uomo dell’ora. Sorrido, mentre mia figlia è impaziente, vuole che mi tuffo con lei. Aspetta, stellina, che l’uomo dell’ora non è ancora andato via, gli devo raccontare questa piccola, sciocca storia di un sentimental boy. Questa settimana ho raccontato molte storie a voi, già, molte più del solito. Adesso mi sento un po’ anch’io l’uomo dell’ora. Per ora basta, mi inchino, come canta Eddie, e vado a tuffarmi in piscina. La prossima settimana ritorno, perchè le onde vanno e vengono, e l’energia si conserva sempre.
(giugno 2006)

Amore e simmetrie

Guardate. Una sfera, una palla da biliardo. Perfetta, no? Simmetrica. Da ogni parte la si giri, è sempre uguale. Così la vediamo, e così ce l’abbiamo in testa, cioè ce l’immaginiamo. Eppure, non è così, no no. La osserviamo al microscopio, ed è piena di graffi, scalfitture invisibili ad occhio nudo. Le cose simmetriche sono bellissime, ma esistono solo nella nostra testa. Niente è simmetrico. L’universo nasce da “una rottura spontanea di simmetria”, così la chiamiamo pomposamente noi fisici. E l’universo, e le forze che lo regolano, violano le simmetrie. Questo si è scoperto un po’ di anni fa, diciamo negli anni 50. Dunque, seguitemi. Niente in realtà è veramente simmetrico. E quindi noi non siamo simmetrici. Siamo destri, siamo mancini, abbiamo il naso storto (almeno un po’) gli occhi non perfettamente uguali, i denti, chi più chi meno, un po’ storti. Che strano. Immaginiamo qualcosa di bellissimo, che in realtà non esiste. E non c’è niente di più asimmetrico che le nostre sensazioni, le nostre passioni, i nostri sentimenti. L’amore è asimmetrico? Sì certo, Gesù diceva amate tutti, ma poi pure lui amava qualcuno un po’ più degli altri. Dunque. L’amore è fortemente, violentemente asimmetrico. E così la vita, che fluisce nei nostri corpi, e noi non possiamo farci niente. L’universo è fatto in questo modo, e noi non possiamo essere da meno. Perciò, le cose belle che nascono in testa, perfette, restano lì. Ma secondo me la vera bellezza è nell’imperfezione, perchè è da lì che traiamo vita. Soprattutto dall’amore. Quindi, viviamo e amiamo, dimentichiamoci le simmetrie e la perfezione. Lasciamole nella nostra mente, e respiriamo l’universo. Love w

Apettando (ancora) lo space cowboy

Ieri sera ho avuto brutti pensieri. Brutta notte. Basta col blog. Poi oggi, in sequenza:
ho concluso un lavoro che mi trascino da due anni;
ho aiutato (e molto) uno studente in difficoltà;
ho comprato a mia figlia un paio di sandali che lei desiderava tanto.
E ho pensato: eccheccazzo, perchè devo smettere questa festa? Un anno fa (è un po’ che mi riferisco all’anno scorso, sto diventando autoreferenziale) scrissi dello space cowboy. E’ una figura che ricorre in alcune canzoni pop-rock degli ultimi 30 anni.

Steve Miller canta:

Some people call me the space cowboy, yeah
Some call me the gangster of love
Some people call me Maurice
Cause I speak of the pompitous of love

E poi, vent’anni dopo, ecco i Jamiroquai, un po’ acid, che mi ripetono:

This is the return
Of the space cowboy
Inter-planetary
Good vibe zone
At the speed of Cheeba
You and I go deeper
Maybe I’m gonna have to get high
Just to get by.

Beh, io lo aspetto ancora, lo space cowboy. Natale va via, ma poi ritorna. Le cose si rompono, ma possono essere riparate. Quanti baci ho preso qui, in questo anno e mezzo? Innumerevoli. Mettete su il vostro sorriso, come se fosse il vostro vestito migliore. L’acquario arriva, e la festa deve continuare. Love w

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Ho sempre sognato….

…di scrivere questa nel mio blog. Oggi, ho trovato il coraggio. Per inciso, è l’equazione di Dirac, una delle piu’ belle equazioni mai scritte, per me. Descrive il moto di particelle infinitamente piccole (tipicamente elettroni) a velocità elevatissime, vicine a quelle della luce. E’ elegante, completa. Splendida. Eppure, dietro c’è un mondo complicatissimo, e si è fatta tanta, tanta fatica per arrivare a questa gemma di conoscenza. E’ come un gol di Ronaldinho. Ne fa alcuni bellissimi, che sembrano semplici, ma non lo sono. Ed io sono convinto che lui abbia faticato moltissimo per potere riuscire a fare quelle cose straordinarie. L’equazione di Dirac è stata formulata da PAM Dirac, un fisico inglese che si dice non parlasse mai, molti anni fa. E adesso? Adesso si cerca la teoria del tutto, e la particella di Dio, come viene chiamato il bosone di Higgs. La teoria nella quale si ipotizza l’esistenza di Higgs viene chiamata modello standard. E’ una teoria elegante e completa, come l’equazione di Dirac, molto più complicata, ma altrettanto bella. C’è un senso estetico nella scienza, ed in particolare nella fisica? Ovviamente sì, ma è molto difficile da spiegare a chi non è un fisico. Sappiate che io mi emoziono, talvolta, quando vedo una bella lezione, od un bel seminario. Passiamo ad un’altra meraviglia, questa:

non sono scogliere, no, quelli che sembrano scogli appuntiti sono atomi. E sono stati messi in circolo, così, uno per uno, usando una punta di Tungsteno, su una superficie metallica. Sembra semplice, ma è difficilissimo. Sono oggetti grandi circa un decimo di miliardesimo di metro, mica palle. Ma c’è qualcuno che l’ha fatto. E le onde sono elettroni del metallo, che si frangono sulla scogliera. Si chiama quantum corral, ed è assolutamente straordinario. Possiamo fare tante cose, noi. E ci mettiamo il cuore, e l’anima, credeteci. Come canta Don Fagen:

Che mondo splendido sarà
Che tempi gloriosi per essere liberi

Noi sognamo ad occhi aperti cose incredibili, ma vere. Ed è bellissimo. Love w

Cuore a Ovest

Qualche settimana fa ho comprato una bicicletta nuova. Ero stanco di avere degli scassoni, pesanti e arrugginiti. E così…. ne ho presa una per percorsi misti, un po’ city ed un po’ mountain, in lega, leggerissima, senza parafanghi, con una quantità indescrivibile di marce. Quando la uso, è come guidare una macchina sportiva. E’ splendido. La prendo per andare da casa in ufficio, sempre più spesso. In questi giorni fa caldo, si suda, ma non m’importa. La prendo, e metto su un’altra piccola meraviglia, l’ipod. E oggi, mentre andavo con la musica che sentite, vedevo.

Vedevo surfers che aspettano l’onda dell’oceano, a San Diego.
Vedevo mammine toniche correre su pattini a rotelle, a Venice.
Vedevo la sabbia dorata di Santa Barbara.
Vedevo le palme del Sunset Boulevard contro un cielo di fuoco.
Vedevo l’acciaio rosso del Golden Gate sull’azzurro della baia di San Francisco.
Vedevo la costa scoscesa sull’oceano spumeggiante a ridosso della PCH.
Vedevo le foreste magiche di sequoie dello Yosemite National Park.

Tornerò lì? L’ho già scritto, la mia mente è a Est, ma il mio cuore a Ovest. Love w

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Su Dharma e Greg

Più di un anno fa in un vecchio post scrissi di una situazione in cui mi trovavo, e in cui mi trovo ancora adesso. Ecco che cosa scrivevo:
“Dolomiti e California, un bel contrasto. In questo momento vivo questa sorta di dicotomia, sono duplice, una parte di me (un po’ hippy, californiana, teenager) e’ riuscita fuori con prepotenza ed affianca lo scienziato (cosiddetto), il professore (cosiddetto), il padre di famiglia. Le due parti per ora convivono, non sono in conflitto tra loro, spero che duri cosi’. Mi piace essere il bravo paparino, ma al tempo stesso mi sento come uno dei boys back in town. Sono prof e studente, Ying e Yang, Dharma e Greg. E mi sento questa splendida musica che negli anni avevo dimenticato.” La musica era quella degli Eagles, in particolare avevo scritto di Tequila Sunrise, che avevo sentito in un rifugio sulle Dolomiti, durante il ritorno dalla Settimana Bianca. E siamo a Dharma e Greg. Avevo visto questa sitcom in Inghilterra, la definii “sciocchina”, con la spocchia da prof che ogni tanto mi esce fuori, e questo sollevò alcune obiezioni e proteste. Ed ero io che avevo torto. Ho rivisto Dharma e Greg, e l’ho trovato delizioso. E molto intelligente. E sapete che vi dico? Essere Dharma è molto più bello che essere Greg. Io adoro Dharma, la figlia di due hippy che non sono legalmente sposati per motivi ideologici, casinisti e disarmanti, nella loro splendida ingenuità. I due hippy sono molto più sposati in realtà dei genitori ricchi di Greg, che non vogliono fare sapere di essersi separati “perchè sono nel pieno della stagione delle feste”. Dharma è solare, ottimista, pasticciona, hippy anche lei e soprattutto, vuole bene a Greg e alla gente in generale. Vorrei essere come te, Dharma, ci sto provando, credimi. E per ricordarlo a me stesso, mi sono anche rimesso il vecchio braccialetto di rame con disegni celtici che avevo comprato in un negozietto new age, a Liverpool, tanti anni fa. Mia figlia l’ha notato subito; solo lei ha chiesto perchè l’avevo rimesso. Purtroppo devo essere anche Greg, qualche volta, ma almeno qui voglio essere solo Dharma. Queste sono le mie fermissime intenzioni. Love w

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Sparkling diamond

Mi piego e ti raccolgo
impolverato e grigio
piccola gemma scintillante
ti metto sul mio orecchio
e ascolto scariche elettriche
ti metto sul mio cuore
e sento calore e vita
la mia vita
ti metto sulla mia fronte
e mi incammino cantando
con la chitarra al braccio.

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Joe ed io

Ho deciso di tradurre questa canzone di Joe, l’ ho risentita oggi dopo anni (10? 15?) che non la sentivo piu’. Non so come abbia fatto a scordarmela. In realta’ e’ proprio come dice lui: non ci lasciamo mai il passato dietro, accumuliamo tutto e poi, hop, lui salta fuori quando meno te l’aspetti. Incredibile come succedano ‘ste cose. L’ho sentita e ho ricordato quanto mi piaceva.

Home Town-Joe Jackson

Di tutte le cose stupide che avrei potuto pensare
Questa e’ stata la peggiore
Ho incominciato a credere
Che ero nato a 17 anni
E tutte le cose stupide
Le lettere e le poesie incomplete
Sono rimaste in fondo al cassetto
Erano sempre state la’
Ed ora scavo attraverso pile
di conti, ricevute e carte di credito
E biglietti e articoli di giornale
E qualche volta io….

Voglio tornare nella mia cittadina
Anche se so che non sara’ mai piu’ lo stesso
Nella mia cittadina
Perche e’ passato cosi’ tanto tempo
E mi chiedo se e’ ancora la’

Noi pensiamo di essere molto bravi
Noi “cittadini” andiamo in giro
E quando le cose si mettono male
Uccidiamo il dolore e ci rispostiamo
Non siamo mai sposati
Mai fedeli a qualche posto
Ma non ci lasciamo mai il passato dietro
Solo, accumuliamo
Cosi’ qualche volta quando la musica si ferma
Mi sembra di sentire un rumore lontano
Di onde e gabbiani
Tifosi di calcio e campane di chiesa
Ed io

Voglio tornare nella mia cittadina
Anche se so che non sara’ mai piu’ lo stesso
Nella mia cittadina
Perche e’ passato cosi’ tanto tempo
E mi chiedo se e’ ancora la’.

(Marzo 2005)

E non c’è niente da fare. Fumo seduto sul divano, e guardo la borsa splendida che mi sono fatto regalare, mentre ascolto di nuovo Joe. Niente da fare, preferisco lo zainetto. Un anno dopo, qualche capello bianco in più, mia figlia di qualche cm in più alta. Niente da fare, la malinconia mi assale a ondate, come quando avevo 15, 25, 35 anni. E’ come quella pioggia inglese sottilissima, non la senti e ti trovi tutto bagnato. Niente da fare, la penso ancora come un tempo: che troppi soldi non servono poi a molto, che per amare bisogna rispettare (cosa che dovrei ricordarmi più spesso), che Jerry MacGuire era un bel film. E vi dico che voi siete come fiammelle che io vedo nel buio, che mi aiutate più di quanto possiate pensare. Vi prego, non andate via, non spegnetevi. E tu, Joe, non smettere.

(Giugno 2006)

Fuoco indimenticabile

Chitarra, basso, batteria, voce solista. E’ questa la formazione, come il 4-4-2 nel calcio, classica e sempiterna. Potete metterci le tastiere, le coriste, i campionamenti, i violini e tutto il resto che volete, va bene, non dico di no, ma per me sara’ sempre questa la formazione di una rock band. Ragazzi compagni di scuola, che si cercano attraverso annunci su bacheche o via internet, giubbotti di cuoio e giacche fosforescenti, blue jeans a tubo, scampanati,vita alta, vita bassa, capelli lunghi o corti a seconda delle mode dei nostri sciocchi e veloci tempi. Si cercano per mettersi insieme e fare rock’n’roll. E’ una lunga linea che dura da quaranta anni e che non finira’ mai, come un cavo d’acciaio che corre sotto gli Oceani delle nostre vite, dei nostri amori, delle nostre storie, e che ci unisce tutti. Rolling Stones, Who, Led Zeppelin, Clash, U2, Nirvana, Verve e quei gruppi nuovi che non riesco piu’ a seguire. E’ una passione, un fuoco inestinguibile e indimenticabile che brucia sempre, per me adesso cova sotto la cenere dei miei mille sciocchi affari quotidiani, ma ogni tanto divampa in fiamme inaspettate. Vinile, musicassette, CD, MP3. Oggi accendo e sento questi versi uscire dagli auricolari:

No one knows what it’s like
To be the bad man
To be the sad man
Behind blue eyes

No one knows what it’s like
To be hated
To be fated
To telling only lies

But my dreams
They aren’t as empty
As my conscience seems to be

E poi giu’ una schitarrata che ha quasi la mia eta’ (di Pete Townsend), ed io che faccio fatica a non suonare l’air guitar in mezzo al parcheggio del supermercato, senno’ chiamano l’ambulanza e mi ricoverano. Come facevo nella mia cameretta tante ere fa. Qualche giorno fa vedo un mio studente con una felpa di non so quale gruppo Heavy Metal nordeuropeo, siamo stanchi tutti e due, alla fine di una lunga giornata, io da una parte e lui dall’altra; gli faccio “Lei e’ un metallaro, dunque”, lui mi guarda con un’aria che e’ un programma, poi si scioglie e chiacchieriamo un po’. Io gli cito i Led Zeppelin, a lui si illumina il volto e mi dice che ha un vinile di questo glorioso gruppo comprato da suo padre. Gia’, suo padre. Ridiamo insieme. Non mi pesa questo, no, il fuoco non si puo’ dimenticare, non si estingue mai. E mi fa sentire vivo.
(aprile 2005)

Scariche elettriche, hana bi, Jimi Hendrix.
(giugno 2006)

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Stato di grazia

Mi ricordo del video di una vecchia canzone di Elvis Costello (I just want to be loved, credo) dove lui canta davanti ad un obiettivo di una macchina per fototessere. Uno o due alla volta, persone diversissime entrano dentro la cabina, lo baciano e lo accarezzano mentre canta. Ho sempre creduto che il mio blog fosse così, e l’ho anche scritto, agli inizi della mia esperienza, forse qualcuno di voi se lo ricorderà. Oggi sono in stato di grazia, e questo per merito vostro e dei vostri commenti. Jed una volta mi ha scritto “fa’ di me quello che vuoi”, ed io giro questa richiesta a tutti voi, semplicemente. Penso in particolare a quelli che conosco da più tempo, ed anche ad una persona che mi ha scritto che non voleva più avere contatti con me per un motivo che non sto qui a dire. Fa’ di me quello che vuoi, rimani sempre nel mio cuore, assieme agli altri. May the sun shine on you all, miei cari.

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Progressive Robert

Rassicuratevi, non è la foto di un serial killer. Ieri ho avuto modo di risentire questo grande chitarrista, nonchè leader dei King Crimson. I King Crimson erano uno dei gruppi alfieri del progressive rock anni ’70, molto cerebrali. Alcuni loro dischi sono splendidi. Robert Fripp ha uno stile elegante, la sua chitarra ha un suono liquido, distante, molto personale. Discipline è il titolo di un loro album, e Robert è così: disciplinato, rigoroso. La cosa bella è che questi vecchi musicisti continuano a suonare, anche Fripp, lui ha un suo sito web ed un blog qui , che ho avuto il piacere di leggere ieri. La musica dei KC mi ricorda di quando andavo a suonare a casa di un mio amico bassista, con capelli lunghi, jeans stinti e chitarra elettrica a tracolla. Poi la madre ci preparava delle lasagne buonissime a pranzo, ma queste Fripp non può averle gustate.

Massì…

…facciamo un post da blog carino: mettiamo su una bella immagine del castello di Miramare al tramonto. Anche una musichetta di Joni Mitchell. Tutto a posto.

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Il neo

Oggi sono andato a salutare un collega, vecchio amico, a Milano. Un neo, che è diventato un melanoma, e che poi è andato in metastasi, l’ha portato via a 52 anni. Sono partito questa mattina col treno, sono andato a salutarlo, e poi sono tornato prima che celebrassero la cerimonia vera e propria, dovevo andare a prendere mia figlia a scuola. Sono stato un po’ lì, ho visto la sua bara nella cappella universitaria. Chissà perché nelle bare sembriamo così piccoli. E’ stato grazie a lui che sono andato a lavorare in Inghilterra, dove ho conosciuto mia moglie e dove ho avuto una figlia. Oltre a lavorare insieme duramente, assieme ad altri miei colleghi italiani, tutti ancora giovani, parlavamo spesso di cinema. Ci interrogava spesso, per scherzo, citando e mimando delle scene di film famosi. Lui era un capo instancabile ed efficiente, aveva sacrificato molto per il lavoro, questa specie di sete inestinguibile che ci spinge a investigare, a cercare di capire cose apparentemente inutili e un po’ assurde. Durante gli esperimenti, non dormiva mai, era sempre sveglio. Un anno lavorammo quasi due mesi giorno e notte alla macchina, per cercare di cavare fuori piccoli risultati con sforzi enormi. Nn ci siamo mai persi completamente di vista, anche se non collaboravamo più da un bel pezzo. L’ultima volta che parlai con lui di cinema fu nel 2001, ricordo che commentammo “la stanza del figlio” di Moretti. L’ho visto a Trieste più di un anno fa, molto prima che si ammalasse. Lo scorso autunno, mia moglie mi telefonò per dirmi che cosa gli era capitato. Mi ero proposto di andare a trovarlo, ma la lunga nube scura, come la chiama Bob Dylan, è arrivata prima. Oggi ho visto i miei colleghi che arrivavano da Roma, da Trieste, dalla città dove vivo e lavoro adesso. Poche frasi di circostanza fuori dalla cappella, mentre gli studenti sciamavano dentro e fuori dalle aule, presi nei loro affari quotidiani. Avrei voluto parlare un po’ di più con loro, di lui, di noi, ma non c’è stato il tempo. E allora scrivo qualche cosa qui, sperando di non essere troppo sciocco, con quel senso di colpa che mi aveva preso anche quando mia madre se ne andò, qualche anno fa, mentre io ero già lontano, in un’altra città, e non trovavo il tempo di andare a trovarla abbastanza spesso. Qualcuno mi ha detto che non c’è niente da fare, alla fine si muore soli. E’ una banalità, ma è proprio così.

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Unico sangue

Sì, abbiamo vinto, non è una gran vittoria, ma non è più come prima. La sensazione di stamattina è di stanchezza e di malinconia. Ci sono detriti e macerie della battaglia da rimuovere, credo che questa guerra abbia coinvolto tutti. Siamo pure stati insultati invece che blanditi dai leader della parte avversa, cosa mai successa, almeno da personalità pubbliche. E adesso? Sentivo questa canzone, mentre venivo in bici al lavoro.

One love
One blood
One life
You got to do what you should
One life
With each other
Sisters
Brothers
One life
But we’re not the same
We get to
Carry each other
Carry each other

E scusate il buonismo, è il sonno.
P.S.:Questa è l’ultima immagine di Audrey. Ho pensato che in mezzo alle brutture della battaglia, potesse dare qualche bella sensazione.

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Grazie, bookmakers

I bookmakers inglesi danno la vittoria di Prodi pagata a 0,23 della posta, quella di Berlusconi a 4,3. Io ci credo più dei sondaggi. Altra foto di Audrey per scaramanzia….

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Audrey….

…..salvaci tu….
dalla bruttezza, dalla cafonaggine, dall’arroganza, dalla vigliaccheria, dall’ipocrisia, dalla materialità dei nostri sciocchi tempi.

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Una storia dal Merseyside

Il 12 Febbraio 1993 un bambino di nome James Bulger, di due anni circa, venne rapito, seviziato e lasciato morire lungo i binari di una ferrovia da due ragazzini di dieci anni, Robert Thompson and Jon Venables. James fu travolto anche da un treno. Il rapimento avvenne sotto lo sguardo di una videocamera di sicurezza, che riprese la scena in un centro commerciale a Bootle, nel Merseyside. I due “bad boys” con alle spalle situazioni familiari difficili (naturalmente) avevano marinato la scuola, si erano ritrovati ed erano andati a rubacchiare nei negozi del centro commerciale. Poi, l’inconcepibile (purtroppo non lo è più) è successo. Non sono mai riuscito a leggere i particolari del delitto, ancora adesso faccio fatica a leggere alcuni dettagli sul web. Dopo il ritrovamento del corpicino di James, Robert andò a deporre un fiore sul luogo del crimine. In quel periodo facevo avanti ed indietro tra l’Inghilterra e Roma, e mi ricordo di un colloquio avvenuto in aeroporto con una signora del posto, che mi raccontò del funerale di James nella Cattedrale di Liverpool, con la funzione officiata dal vescovo. Quando i due vennero fermati come sospetti, erano “terrorizzati ed affascinati dalle procedure usate dalla polizia”. Chiesero ai poliziotti come funzionava il sistema di identificazione tramite le impronte digitali, e fecero un mucchio di domande, come fa qualche volta mia figlia a me e mia moglie quando vede un documentario in TV. Interrogati singolarmente, crollarono presto, incolpandosi a vicenda. Uno dei due poi incolpò se stesso, ma questo non ha molta importanza. Il caso venne dunque risolto. Robert e Jon vennero processati alla fine del 1993, ma non parteciparono al processo, erano incapaci di comprendere le procedure, in quanto troppo giovani. Erano presenti al verdetto, invece, dove furono giudicati colpevoli. La pena: detenzione “during Her Majesty’s pleasure in un posto e per un periodo deciso dal segretario di stato per molti, molti anni fino a quando il Ministro dell’Interno non sia soddisfatto della vostra maturazione e riabilitazione. “
Il caso non finì qui, fu un tormento, con ricorsi in tutte le sedi. La pena, stabilita in realtà a otto anni, passò a dieci, poi a quindici. Sottolineo che la pena era decisa dal Ministro dell’Interno. La corte Europea nel 1999 stabilì che il processo del 93 non era giusto, in quanto i due erano stati trattati come adulti. Alla fine della fiera, furono liberati nel 2001, e vivono con nuove generalità. La pubblicizzazione dei loro nuovi nomi e della loro residenza (ancora non noti al pubblico) è stata ed è oggetto di battaglie legali.
E’ impossibile capire il motivo che ha spinto due bambini di due anni più grandi di mia figlia (ad esempio) a compiere un gesto del genere. Gli orchi esistono, e possono avere molte sembianze e forme. Anche di mammine care, di bambini più grandi, di conoscenti che sono padri di famiglia. Lo dimentichiamo, e poi qualche nuovo evento di questo tipo ce lo ricorda.

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Piccolo riepilogo (per me)

Personaggi della serie di Edo:
Edo: italiano, risiede a Liverpool. Impulsivo, egocentrico, malinconico. Ha 30 anni nel 2000.
Elaine: irlandese, sposata, madre di tre figli. Ironica, intelligente, inquieta. Ha 36 anni nel 2000
Jamie: inglese del sud, sposato e separato. Egoista, profittatore, amaro. Ha 40 anni nel 2000. Comparira’ in un’altra storia alla quale sto pensando.
Personaggi di contorno: Jane, prima ragazza di Edo, Manolo, amico spagnolo di Edo (generoso e allegro), John, capo di Edo, Peter, collega di Edo.

Personaggi di Horst et Dom:
Horst: Tedesco di Monaco trapiantato a Berlino Ovest. Ex-hippy, sensibile, tranquillo, superficiale. Ha 35 anni nel 1985. Gioca a Basket e va in moto. Si trasferirà al sud.
Dominique: Francese parigina, ex-ricca. Sognatrice, devo sviluppare il suo carattere. Ha 22 anni nel 1985.
Altri personaggi: Charlotte, moglie di Horst, Kemal, turco, collega di Horst.

Prossimi personaggi: Claudia (italiana) nella storia con Jamie, ambientata a Parigi (se la scriverò mai). Sasha (?), italiano di lingua slovena, in una storia ambientata tra l’ex Jugoslavia e Trieste (questa poi, ci sto pensando adesso).

Verso casa: ripensando a Crash

“Guarda, sono proprio contento, è un film bellissimo”. Siamo presi dal solito rush del lunedì, io e mia moglie, ed ho appena sentito la notizia alla radio. Oscar a Crash. Lei non l’ha visto, ero da solo quella sera, quando avevo noleggiato il DVD. Di che cosa parla? Difficile spiegarglielo. Di razzismo? Non proprio, direi, forse di integrazione, di rapporti tra persone. C’è sempre qualcuno che sta peggio, e qualcuno che sta meglio. E del vortice di parole, fatti, immagini, avvenimenti, televisioni, macchine, traffico, orari che avvolge noi tutti nelle città, LA più di altre. Noi stravolti, contenti, tristi, annoiati, allegri, disperati e ricchi, viviamo e non pensiamo, quasi mai. Tutto si interseca, si connette. C’è chi è più o meno bravo, ma siamo sicuri che i più bravi siano bravi veramente? Tutto si scambia, nella nostra vita di uomini e donne. Così è. Mi fumo l’ultima sigaretta, su LA nevica, gli Stereophonics cantano che troveranno domani la strada verso casa. E’ questo il punto: trovare la strada verso casa.

Casa

Per oggi, un vecchio post.

Sono le 8.30, aspetto il minicab fuori dal cancello. Arriva in ritardo, sorry mate, mi dice con un sorriso ironico il tassista, e’ il solito liverpuliano dalla faccia furba ma simpatica. E’ un ex-docker, sbarca il lunario con questa parvenza di lavoro, un altro piccolo segno della crisi di questa citta’ devastata per decenni. OK, let’s go. C’e’ ancora tempo per arrivare alla stazione degli autobus. Il pullman va, attraversa Suburbia ed imbocca la M56. Il tranquillo paesaggio della campagna inglese incomincia a risvegliarsi per l’incerto arrivo della primavera. Fa ancora freddo, ma oggi c’e’ il sole, finalmente. Traffico, si’, ma si va, nessun problema. Aeroporto di Manchester, folle di pachistani in attesa di un volo da Islamabad, qualche famigliola inglese che parte per la Spagna, ancora gente con gli sci in partenza per la Francia, la Svizzera, il Colorado. Pochi businessmen, poca gente che si sposta per lavoro. Oggi e’ Sabato. Ieri sera sono uscito e sono andato ad Hardman Street col mio amico C., girando per quei locali dove boys in camicia col colletto chiuso e girls bionde in vestitini corti, senza maniche e senza calze, fanno la fila all’ingresso, e file di taxi all’uscita li raccolgono per portarli chissa’ dove. C. e’ riuscito a saltare la coda, come sempre, solo una quick beer pero’, in mezzo alla folla vociante ed alla musica assordante, la testa era altrove. Check in, controlli (niente di ossessivo e paranoico come sara’ in futuro) e poi dentro il non luogo per eccellenza, nel terminal. Prendo la stecca di Marlboro 100’s per mio padre, e mi metto a leggere The Guardian seduto davanti al gate. Il grigio John Major governa ancora, la prima e folle guerra del Golfo e’ ormai dimenticata; in Italia la situazione e’ decisamente piu’ interessante. C’e’ quel gruppo di magistrati a Milano, come si chiama quello piu’ famoso, ah si’, Di Pietro che sta mettendo sotto Craxi ed i suoi amici, ecco qua la notizia. Vorrei un giornale italiano, li vendono al book shop, ma resisto, fra un po’ me lo danno gratis sull’aereo. “E’ un terremoto”, mi strilla Pelu’ nelle orecchie da dentro il nuovo lettore CD portatile. Ci siamo finalmente, chiamano. L’hostess BA che mi accoglie dentro l’aereo e’ una signora di mezza eta’, dall’aspetto gradevole. Certo che con queste divise, poverette, sembrano delle massaie. Niente a che vedere con quelle Alitalia. Ma oggi, amica mia, mi porti a casa, ed il tuo sorriso e’ il piu’ bello del mondo. Poca gente sull’aereo, ahime’, anche stavolta non c’e’ nessuna bella ragazza vicino con la quale cercare di attaccare bottone. Anche se ci fosse, poi, non mi distinguo certo in questo genere di cose. Qualche volta ci riesco, ma poi, chissa’ perche’, faccio fatica a chiedere i numeri di telefono. E le occasioni scappano. Gin and tonic, noccioline, vino bianco. Ci vorra’ un bel po’ di caffe’ per smaltire, sono gia’ un po’ brillo. L’aereo sorvola la scacchiera dei campi inglesi, attraversa la Manica, sorvola la Francia e raggiunge le Alpi. Ma quello e’ il Cervino, sono sorpreso di me stesso, l’ho riconosciuto, e’ un piccolo miracolo. Dente aguzzo piantato nel bianco, mi ricordo di quando sono andato a sciare a Cervinia, sono solo tre anni ma sembra un’eternita’. Un po’ di turbolenza, poi vedo l’isola d’Elba, e’ incredibile, e’ proprio come la disegnano sulla carta geografica, e poi giu’, giu’, arriviamo. Esco, qua fa gia’ caldo, gente in occhiali da sole, elegante. Qualche telefonino. Mio padre mi aspetta all’uscita, ci abbracciamo, un po’ impacciati come sempre. Mia sorella lavora all’aeroporto, passa a salutarmi, e’ molto carina nella sua divisa, so gia’ che s’e’ messa con un nuovo ragazzo che lavora con lei. Auguri, stavolta spero che l’hai scelto giusto, penso, da bravo fratello maggiore un po’ geloso ed invidioso della sua freschezza e della sua solarita’. Papa’ mi porta alla macchina che e’ parcheggiata lontanissimo, come e’ sua abitudine. Non c’e’ problema, papa’, me la sto godendo lo stesso, anche se sudo sotto i vestiti troppo pesanti. Autostrada da Fiumicino a Roma, parliamo del piu’ e del meno, evito la politica il piu’ possibile, non voglio litigarci subito, io di sinistra e lui democristiano fracico, ma con un senso dell’umorismo col quale faccio a gara tutte le volte. Ridiamo, ci scambiamo qualche battuta in romanesco. Il casino del traffico e’ veramente impressionante, e mi devo un po’ riabituare alla guida a destra. Passo davanti alla mia vecchia palestra dove andavo a Judo da piccolo, questa volta voglio passare a trovare il mio maestro, mi ripropongo, naturalmente non lo faro’. Passo davanti alla mia scuola media (ricordi meno piacevoli) e poi a casa, in un attimo. Mia madre e’ li che mi accoglie sorridente, mi bacia, ha appena bevuto il caffe’ (ne vuoi? no grazie, mamma, in aereo ho gia’ fatto il pieno). Entro dentro la mia camera, poster vecchi, cartoline da Londra, lo stereo, la chitarra elettrica, la scrivania sulla quale ho studiato da quando mi ricordo. E’ pomeriggio tardi, l’aria dolce e primaverile si sta rinfrescando quando apro la finestra. Sotto, in strada, il solito paesaggio. Solite macchine parcheggiate in doppia fila, soliti ragazzi al bar che discutono d’a Roma e d’a Lazio, solita sporcizia per strada. Non ci posso credere, mio padre si sta guardando una partita di calcio inglese alla TV, c’e’ il Liverpool. Commentiamo insieme, come si chiama quel ragazzino, Mc Manaman, c’e’ anche Barnes. Poi si stufa e gira, c’e’ un documentario naturalista, tie’, beccate l’animaletti, mi dice. Adesso fuori e’ buio. Esci stasera? Mi chiede mia madre, gia’ in ansia per la cena da preparare. No mamma, c’e’ tempo per gli amici che pensano ai loro matrimoni, per i colleghi dell’Universita’, per le pizze a Testaccio, per i locali del centro, per le feste fuori citta’. Oggi resto a casa.

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Giovedì col Bardo

Anche questo è un post di un anno fa.

Giovedi’ scorso e’ stata una giornataccia, e ancora ne sento le conseguenze. 300 Km e passa in macchina, arrivo trafelato al mio dipartimento, subisco un cazziatone dal mio capo (e in parte ha anche ragione lui). Poi 3 ore a fare lezione ad una marea di studenti, fino alle 7 di sera. Perfino il post, che scrivo esausto alle 19.30 dal mio ufficio, per rilassarmi, non mi riesce tanto bene. Torno a casa, e dopo una frugale cena e due birre, tiro fuori una videocassetta. Il film e’ “Romeo + Juliet”, di Baz Luhrmann, ho un’edizione in lingua originale perche’ l’ho comprata quando stavo in Inghilterra. La prima volta ho visto il film in un cinema multisala di Liverpool. Era una serena e lunga serata d’estate, il sole era ancora ben lungi dal tramontare, nonostante fossero le 9 di sera. La sala era piena di ragazzine con coda di cavallo, eta’ max 16 anni circa. E grazie, c’e’ Leo Di Caprio che interpreta Romeo, allora era gia’ una star mondiale delle teenager. Il film e’ un misto di generi, la tragedia di shakespeare calata in una guerra tra gang rivali di una non meglio precisata citta’ balneare americana, Verona beach (Venice di Los Angeles?). Fin qui non e’ una novita’, pure West Side Story era piu’ o meno cosi’. Quello che colpisce subito e’ che effettivamente i protagonisti recitano i versi del Bardo, anche se con accento americano, italiano, latino. Il ritmo e’ velocissimo, l’ambientazione iperrealista, due aggettivi mi vengono in mente per quest’opera: incendiaria, visionaria. Un terzo e’ kitsch, ma non sempre il kitsch e’ un male. Il film mi piacque moltissimo. Alcune scene mi erano rimaste cosi’ impresse che ancora le ricordavo, prima di rivederlo in TV dopo un po’ d’anni. La scena piu’ bella (si sa, sono un sentimentalone) e’ quando Romeo-Leo e Juliet-Claire Danes, luminosi e dolcissimi, si vedono per la prima volta attraverso un acquario, durante la festa alla quale Romeo si e’ imbucato. Gli sguardi che si incrociano mi mossero, e mi muovono ancora adesso, qualcosa dentro, e’ come un lento, dolce vortice. Altre scene sparse. La morte di Mercuzio su una spiaggia con colori post-atomici, l’ingresso di Romeo nella chiesa dove e’ stata portata Juliet (finta) morta, con croci al neon bianco-blu che danno una luce gelida e rovente al tempo stesso. Vedere film cosi’ e’ un modo per resistere ai colpi della quotidianita’.

Lost and found

Sto recuperando alcuni post vecchi ai quali mi sono affezionato, dopo avere improvvidamente cancellato il mio blog. Scusate se mi ripeto.

Bob (Bill Murray), sdraiato sul letto, parla di se’, di sua moglie e dei suoi figli con Charlotte (Scarlett Johansson), in una camera d’albergo 5 stelle a Tokio. “I’m stuck”, sono bloccato, dice, non so che fare di me. Non sei il solo, amico, pensa weller con la sua solita sigaretta tra le dita, sdraiato sul divano davanti al video. Eppure i due non fanno e non hanno fatto quello che in altri film farebbero. L’unico contatto fisico in questa scena e’ una carezza di Bob al piede di Charlotte, poi i due si addormentano. Il film e’ tutto cosi’, una tensione continua fra i due, un po’ come una gara di battute sagaci (alcune di Bob sono grandiose), carezze con gli sguardi, sorrisi. I due sono in una citta’ estranea, non capiscono la lingua, la cultura ed i costumi locali. Sono letteralmente persi, e riflettono su di loro, non stanno tanto bene, no, decisamente. Bob ha la scontata crisi della mezza eta’, e’ in fase da “acquisto Porsche”, Charlotte (semplicemente meravigliosa Scarlett) non sa che fare nemmeno lei, sposata giovanissima che accompagna un odioso quanto assente marito fotografo, le sue prospettive sono a dire poco incerte. C’e’ una differenza d’eta’ fra i due protagonisti che sembra un abisso incolmabile, eppure la scintilla scocca lo stesso, si intendono e si avventurano nella pazza Tokio . Weller non puo’ che tifare per Bob, vai Bob ale’ ale’, metterebbe gli striscioni sugli spalti e suonerebbe i tamburi. Scene a 4 stelle (una di meno dell’albergo, va’):
Il Karaoke a casa di amici, con Charlotte scatenata in parrucca rosa che canta “Brass in my pocket” dei Pretenders, Bob invece, sguaiatissimo, sceglie “More than this” di Brian Ferry. E secondo me e’ li’ che la scintilla scocca, in quel preciso istante.
Le telefonate tra Bob e la sua moglie. Si sente dal telefono la moglie chiedere ad uno dei figli “vuoi parlare con papa’?”, ed e’ perfettamente udibile la risposta, “NO”. “E’ in un’altra stanza”, dice la moglie a Bob.
La gita fuori porta di Charlotte in un Giappone incantevole (non si sa quanto reale) e cosi’ diverso da quel mostro che e’ Tokio.
Ho noleggiato un gioiellino, pensa weller, e riflette su di se’ in questa strana stagione blog.

Mohamed

Questo è un vecchio post. L’ho recuperato. La strada esiste, la potete cercare qui sotto.

Il telefono squilla, ma che ora e’? Troppo presto, ho dormito male, sono rientrato dal lavoro cosi’ tardi che ormai era giorno, l’alba di una qualsiasi Domenica estiva inglese. Il mio amico merlo era gia’ li’, sulla finestra dell’ingresso, sembrava che mi stesse aspettando. E’ una settimana che lavoro alla macchina, su un esperimento, assieme ai miei colleghi. Abbiamo un paio di giorni di break, finalmente. Guardo la mia radiosveglia, le cifre luminose ballano davanti ai miei occhi, le 9.30. Alzo la cornetta, e’ mia madre per i soliti saluti settimanali. No mamma, non ti preoccupare, non mi hai disturbato, si’ sto bene, poi si parla dell tempo, notizie varie dalla famiglia. Riattacco e mi rigiro sul letto. Niente da fare, provo a riaddormentarmi per un’oretta, poi getto la spugna e mi alzo. La schiena non mi fa piu’ tanto male, ma ancora si fa sentire. Sono due anni che ho avuto un’ernia del disco, ho provato cosi’ tanto male certe volte da piangere, ma il mio spartano dottore inglese continuava a ripetermi che l’operazione era inutile, e che sarei piano piano migliorato. Era vero. Doccia, colazione con caffe’ Lavazza, cornflakes, succo d’arancia. Mi vesto, e’ ora che vada a comprare qualcosa da mangiare. Niente supermercato, giusto qualcosa per sopravvivere per i prossimi giorni. Per fortuna abito a due passi da Lark Lane, una strada di Liverpool un po’ particolare, vicino a Sefton Park, all’inizio di un grande quartiere chiamato Aigburth. Nonostante sia lunga solo trecento metri o poco piu’, e’ un concentrato di negozi, di pub e ristoranti. Difficile elencarli tutti. C’e’ un meccanico (specializzato in macchine d’epoca, ci ho visto anche una Rolls Royce), tre o quattro pub, negozi di alimentari vari, ristoranti greci, italiani, francesi, messicani, off licence. Popolazione giovane, studenti, gente un po’ alternativa, “il paradiso dei lettori del Guardian” (giornale di sinistra), come mi sembra di avere letto una volta in una guida. E poi ci sono loro, i corner shops. Ce ne sono tre, vendono giornali, sigarette, ma anche generi alimentari. E sono aperti sempre, fino a sera e durante le feste. Sono la mia salvezza nei periodi di lavoro intenso. Non sono gestiti da indiani, questi, no, ma da medioorientali. C’e’ l’egiziano (come lo chiamo io) dal quale mi servo principalmente per gli alimentari, i libanesi (scomodi ed antipatici) e poi c’e’ Mohamed. Dopo avere comprato un po’ di roba dall’egiziano, vado da lui per comprare il solito giornale della domenica. Mi piace andare da lui, perche’ e’ veramente un personaggio. E’ massiccio, corpulento e con l’immancabile barba da musulmano praticante, sulla quarantina. Ho dei sospetti sulle sue origini, non parla con accento esotico, ma col “twang” tipico dei liverpuliani, e porta fieramente due occhi azzurri dolci e penetranti al tempo stesso. Forse e’ un inglese convertito? Ha una moglie pakistana o qualcosa del genere, velo nero che lascia il viso scoperto, un uccellino all’ingresso del negozio ed un tot di figli, bambini di eta’ varie che ogni tanto spuntano dalla porta sul retro del suo negozietto, che comunica con la sua abitazione. Chiacchieriamo sempre un po’, immagino che la gentilezza sia parte del suo modo di interpretare il suo lavoro. Qualche volta mi dice delle cose che mi lasciano stupefatto. Una sera mi guarda dopo avermi dato il resto delle sigarette che ho appena pagato, e mi fa “tu hai bisogno di una moglie”, e sorride. Io rispondo “si’, certo”, ma lui insiste “vedi conosco un’egiziana che farebbe al caso tuo, una nice egyptian girl”. Non so proprio cosa dire, sorrido, lo saluto e me ne vado. Ma questa volta mi dice qualcos’altro. “Sai, sono malato, qualche settimana fa mi sono svegliato e non ci vedevo piu’ da un occhio. I dottori non sanno ancora bene, forse ho la sclerosi.” . Sono come fulminato, ma riesco a mantenere la conversazione, anzi lui ci riesce, con una soavita’ e leggerezza incredibile, e mi parla di come la sua vita sta cambiando, delle sue nuove abitudini quotidiane. Si sveglia molto presto, ora, e prega. Lavora un po’ e poi dorme un po’ il pomeriggio, si sente molto stanco. Entrano altri clienti, il suo racconto si interrompe. Prendo il giornale con il resto e me ne vado. Lui mi sorride. Fuori c’e’ il sole, una splendida giornata, glorious sunny day of a british summer.

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Noodles è solo

…Il 7 Gennaio, ore 00.55…..

Mia moglie dorme, ed io vedo la fine di questo grande film.

Cosa sogni, Noodles, quando sorridi alla fine, nella casa dell’oppio?