Ieri mi è capitato di risentire questo pezzo, stavo attraversando la strada mentre andavo in Facoltà, e l’opzione brani casuali dell’i-pod, tra i Nirvana ed i Pearl Jam, me l’ha disseppellita. Maledetto i-pod. Mi ha combinato un bello scherzo. Sentire questo pezzo è come rivedere un grande amore che hai perso, e che hai ritrovato più volte. Sai che devi dimenticare, sai che ti fa male, ma non puoi fare a meno di riincontrarlo, e di ricominciare. Mesi di deserto, questi, e i Procol Harum fanno capolino con questa canzone. E quindi la tengo su, sul mio blog, mi dimentico della storia che volevo scrivere, e ripropongo per la terza volta questo post. Non la levo, non la voglio levare. Forse dovrei, ma come quel tipo di amori là, la tengo e ci annego dentro. Certe cose sono così, indelebili, indimenticabili, perse e ritrovate, morte e resuscitate, anche se non dovrebbero, anche se fanno male. Ma alla fine fanno bene, fanno sentire vivi.
And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I’m dying are the best I’ve ever had
Love w
(novembre 2006)
Quando ero bambino, la musica suonata con i grandi organi a canne nelle chiese mi emozionava tantissimo. Mi ricordo almeno un caso in cui ho costretto mia madre ad accompagnarmi all’uscita, perché mi veniva da piangere. Non so il motivo, ma mi ricordo questa sensazione così intensa che mi faceva sentire in una specie di spirale che girava, difficile a descrivere. In quegli anni (il 67, per la precisione) usciva una delle più belle canzoni rock melodico di tutti i tempi (a mio modesto parere), si chiamava “A whiter shade of pale”, dei Procol Harum. L’ho sentita da bambino, probabilmente nella versione originale, sicuramente nella versione cover con i testi tradotti in italiano e suonata da uno di quei complessi che meritoriamente traducevano il beat, doveva essere l’Equipe 84 o i Camaleonti, non mi ricordo, ma ho questa memoria di un varietà in bianco e nero dove la cantavano, mi ricordo anche i versi iniziali “Han spento già le luci….” . Sicuramente l’hanno ascoltata tutti, almeno una volta. Apre la canzone un’introduzione con un organo Hammond, la musica è ispirata a quella di J.S. Bach, anche se non è un estratto particolare, sembra scendere dal paradiso, e mi fa sentire un po’ proprio la stessa sensazione di quando ascoltavo l’organo in chiesa. Poi la voce (molto soul) del cantante apre maestosamente con questi versi:
We skipped the light fandango
turned cartwheels ‘cross the floor
I was feeling kinda seasick
but the crowd called out for more
The room was humming harder
as the ceiling flew away
When we called out for another drink
the waiter brought a tray
ed è una tensione continua, quasi un duello tra la voce e l’organo, che fa continuamente capolino, poi domina, poi ritorna in sottofondo, poi fa un assolo e così via. Semplicemente meraviglioso. Di questa canzone si è parlato e scritto molto. Se mi ricordo bene, Paul McCartney la cita una sua autobiografia, dice di averla sentita per la prima volta in un locale con qualcun altro (non vorrei sbagliarmi, ma doveva essere qualcuno degli Stones) e di averla commentata come un colpo di genio. Nel film “The commitments” due protagonisti discutono sul significato del testo, mentre uno dei due la suona con l’organo di una chiesa. Già, le parole. Il significato non è ben chiaro nemmeno a chi l’ha scritto. Io penso che in questo caso siano come delle macchie di colore che impreziosiscono questo splendido dipinto sonoro. L’ho risentita recentemente, e mi sono detto che sicuramente deve essere meraviglioso innamorarsi con questa canzone. Spero riusciate a sentirla mentre leggete questo post.
(giugno 2005, luglio 2006)