5 sport:calcio

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C’mon, let’s play.
Giochiamo sotto il cielo plumbeo della domenica mattina di un rigido  inverno inglese. Potrebbe anche nevicare, come nel match di FA Cup che Edo vide in televisione molti anni fa, in Italia. McManaman buttato dentro la partita, esile maglietta rossa nella bufera. Ora, SeftonPark, 7 a-side, Geoff in maglietta blu a maniche corte dell’Everton dirige il traffico del gioco, lucido e paziente. Il contrario di quello che succederebbe fuori, pensa Edo inguainato nella tuta blu, guanti di lana già zuppi. Scarpini che si incrociano, scivolanono, schizzano fango di domeniche bagnate nella fuga da quel dolore e quella noia dell’imperturbabile britannia.
Ma il calcio è qualcosa di doloroso e così tremendamente amabile. Paolo Maldini ha detto che fra vent’anni forse il calcio non esisterà più. Edo rivede Falcao e Platini, Maradona e Rummenigge, e prova la scivolata su Geoff, imita come tutti gli insipienti al cospetto degli dei. Le coppe dalle grandi orecchie, il mondo in un globo d’oro, alzate  nelle luci elettriche, nel verde artificiale, e la terra dei campetti di Tormarancio nelle estati polverose, cupo di fuori, il mondo. Luce nella palla che scivola, rimbalza, rotola, schizza tra piedi e teste di milioni di persone che hanno altro nella vita a cui pensare, ma che non possono fare a meno di rincorrere, dribblare, respingere, sognare. Dal sole di Roma alla pioggia del nordovest inglese, cos’è che ci spinge, cos’è che ci fa amare così perdutamente questa sciocca finzione di guerra?  E tutti quelli che giocano, al chiuso e all’aperto, continuano a perdere l’anima nella sfera. Edo riesce a rincorrere Geoff e a scivolare, l’anestesia del soccer continua a funzionare. Le droghe funzionano sempre. Fino al dopo.
Sefton Park imbrunisce di sera, a Tormarancio il sole diventa insopportabile. Lorenzo  si leva gli scarpini e fuma fuori dagli spogliatoi nel caldo padano asfissiante anche al tramonto, la nostra sera che avanza, sottile e inesorabile.
C’mon, let’s play.

5 sport: nuoto

dedicato a federica pellegrini e alessia filippi
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che strana settimana. in ferie senza esserlo veramente. e così, mi compro un paio di occhialini e vado in piscina. ci vado in bici, col caldo che mi spezza il fiato alle 5 del pomeriggio. la vasca è schiacciata tra ferrovia, strade infuocate, grigi palazzoni che emanano calore e vite soffocate, sotto lo stadio del calcio imbecille.  a quell’ora, la gente incomincia ad andare via dal praticello, ragazzini costretti a restare in città, in attesa delle vacanze dei genitori, famigliole di immigrati russi, messicani, marocchini che in vacanza non ci vanno mai. ma la vasca è di 50 metri, olimpionica, il suo azzurro porta sollievo soltanto a vederlo. e a nuotare, io non sono poi male. faccio le mie vasche in corsia, una dietro l’altra, stile libero e rana sono i miei favoriti, delfino e dorso li so, ma non ho confidenza con loro. guardo i cronometri a quattro lancette, inutili, i miei tempi di (quasi) cinquantenne fuori dalla loro portata. 5, 10, 20 vasche di respiri bagnati, il nuoto è regolarità, precisione nei movimenti, dedizione. la fatica è diversa, con l’acqua sembra più leggera. allevia il dolore delle vite, come nel film blu di kieslowski, dove juliette binoche nuota incessantemente per ricostruirsi e dimenticare.
alle sei e mezza arrivano i nuotatori veri. ragazzi e ragazze dal corpo splendido, si sciolgono, scherzano, leggeri come la loro età. i loro muscoli già pronti guizzano, e l’acqua incomincia a scrosciare, incessantemente, sotto i colpi di braccia e gambe, all’ombra della strana torre con l’orologio fermo. li osservo mentre mi asciugo al sole che incomincia a morire, appoggiato alla balaustra. li guardo nei loro gesti ripetuti, nei tuffi di partenza. gli schizzi d’acqua azzurra, le onde in corsia. dedizione, umiltà, regolarità portano a corpi scolpiti ingioiellati d’acqua, scintille riflesse del sole che sente l’odore del tramonto estivo.

5 sport: judo

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sai, mae’,
riesco ancora a fare la verticale. non la tengo, ma salgo coi piedi in aria e le gambe dritte. le ruote e le cadute in avanti non sono un problema. la cinta mi sta stretta, ma “er kinolo” (che qui chiamano correttamente judoji) è sempre largo. e quando la maestra, sguardo duro e presa tosta, mi mostra le tecniche e mi dice i nomi, è come un lungo tunnel illuminato, che mi riporta allo scantinato di tormarancio, con gli ideogrammi giapponesi e le vignette in romanesco. in ginocchio, ci si inchina e si fa il rei, alla fine della lezione si applaude, come sempre e in ogni scantinato, nell’odore dei corpi stanchi. ti asciugavi il sudore in faccia con la mano aperta, e ogni suggerimento, ogni presa, ogni movimento circolare con piedi, mani, bacino e anima (se c’è) mi è entrata sottopelle. le tue perle sono lì, brillano nei miei neuroni. muovermi sul tatami, con te accanto, in un’altra dimensione, è così facile. è sospetto. non ho ripreso a combattere, chissà se lo farò. niente più palazzetto nervi, ma se prenderò la nera (ed è ancora possibile) la bacerò, e la mostrerò in alto. mi sono tatuato il judo addosso, più del sole che mi hanno scritto la scorsa estate. risplende, nel viso di jigoro kano, il sole d’inverno sul ramo di abete che si piega, e fa scivolare la neve a terra. come dicevate tu e lui.
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