Lonely Albert

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Albert Einstein pubblicò la teoria della Relatività Ristretta nel 1905, a 26 anni. A 36, nel 1915, pubblicò la teoria della Relatività Generale. Ricevette però il premio Nobel nel  1921 per un altro suo contributo alla scienza, e cioé per l’interpretazione dell’effetto fotoelettrico. Le cellule fotoelettriche sono presenti in molti dispositivi di uso corrente. La luce colpisce un certo materiale, e si genera una corrente elettrica. La spiegazione di questo effetto risiede nella fisica quantistica. La luce è composta da corpuscoli detti fotoni, che hanno una determinata energia, legata alla frequenza (cioè al colore) della luce stessa. La fisica quantistica dà una visione del mondo completamente diversa da quella deterministica, diciamo così, della fisica classica, ed è basata sull’indeterminazione, e sulla probabilità. Non si può mai prevedere in modo assolutamente esatto come evolverà un certo fenomeno. Se ne può solo calcolare la probabilità. Einstein contribuì a questa nuova visione del mondo, con il suo lavoro sull’effetto fotoelettrico, ma ne rifiutò le conseguenze filosofiche. Sua è la celebre frase “Dio non gioca a dadi”, e spese gli ultimi vent’anni della sua vita per trovare una teoria più completa di carattere deterministico. Una teoria del tutto, bella come potevano essere quelle relativistiche. Ma Einstein fallì in questo suo sforzo epico. La fisica quantistica funziona, eccome.  La scienza, la tecnologia e l’industria l’hanno accettata per quello che è, e la applicano felicemente. I nostri dispositivi elettronici (PC, televisioni, gameboy etc.) ne sono la testimonianza più concreta. Certe volte ci si convince che il mondo, che le persone non possano andare in una certa direzione. Ma loro ci vanno, e non c’è niente da fare, tutto funziona lo stesso. Si rimane seduti, a contemplare quella che dovrebbe essere una catastrofe, e non lo è. Non ci resta che sorridere, e magari suonare il violino, come faceva Albert, anche se una coda del grande dolore che abbiamo provato rimane sempre. Ma l’abbraccio, l’amore per noi stessi e per chi prende strade diverse non deve mai mancare. O forse basta il semplice fair play. 
 
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REM- Imitation of life
 
This lightning storm
This tidal wave
This avalanche, I’m not afraid
Come on, come on, no-one can see me cry
 

Professor Helga

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Traffic-Every Mother’s Son
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Arrivo in ritardo al tuo seminario, l’aula è già piena di colleghi e studenti seduti, attenti, riflessi dello schermo sugli occhiali, serietà di sguardi e intensità di menti. Come sempre, mi metto in fondo. Hai già incominciato a parlare, nel tuo tailleur blu con delle strane code, di taglio indubbiamente nordeuropeo. Ci siamo scambiati dei mail più di un anno fa, pensavamo di collaborare su un progetto di ricerca, poi siamo stati travolti dalle tante cose da fare, io anche dai miei pensieri, trascinato dall’inerzia della mia malinconia. Nell’ultimo messaggio, mi hai scritto con orgoglio della tua nuova posizione, una cattedra in un’università prestigiosa, “l’unica donna professoressa nella nostra materia della Ollanda“, il solo errore di ortografia, non sei italiana, ma hai vissuto e studiato a Roma, dove ci siamo conosciuti in un tempo che sembra la favola di un’altra dimensione. Fumavi allora, e mi guardavi con i tuoi occhi azzurri tedeschi, mentre parlavavamo del più e del meno sulla terrazza dell’Istituto, nelle pause del lavoro di tesi, con lo sguardo sui pini marittimi. Ci siamo incontrati  dopo, in altri paesi e città, conferenze, esperimenti, nella nostra vita un po’ randagia. E adesso risplendi, ci spieghi magie di motori fatti da molecole che fanno salire le gocce d’acqua all’insù per piani inclinati, e quando ci fai vedere il video dimostrativo è un “ohh” di meraviglia. Mi chiedono di accompagnarti a pranzo, e chiacchieriamo di lavoro e famiglie, della tua casa che immagino sotto un cielo grigio, con un bel prato verde, la stai sistemando per avere spazio per i tuoi nipoti.  Poi mi spieghi di pesci con piccoli magneti nel naso che li guidano nelle loro rotte. I tuoi occhi sono un po’ più liquidi, un po’ più tristi. E il peso del successo, il prezzo del lavoro mi sembra così evidente, ma forse non lo è. Telefonate che ti raggiungono mentre discutiamo, ti riaccompagno nell’ufficio del grande capo. Ti saluto, ma mi sorprendi, vuoi parlare ancora un po’ con me, nonostante tu abbia un’agenda senza spilli. Nel mio studio mi chiedi scusa di non avermi più scritto, e sei sincera. Occhi azzurri, tailleur blu, quando ti abbraccio mi fai pensare al nostro tempo, e all’irreversibilità, ai cerchi che non si chiudono mai, perché è impossibile. Fuori il cielo è plumbeo, i fiori del vaso sono secchi.